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Omero - Inni (Antichità)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1914)
A Dioniso - Inno
A Dioniso - Introduzione Inni omerici



     Dïòniso dirò, della celebre Sèmele il figlio,
com’egli apparve presso la spiaggia del mare infecondo,
dove sporgeva il lido. D’un giovine pubere appena
assunte avea le forme: le chiome ondeggiavano, brune
cerule: sopra le spalle gagliarde, un purpurëo manto.
Ed ecco, d’improvviso, spuntar da una rapida nave,
sovressi i foschi flutti del mare, pirati tirreni.
Tristo destino qui li guidava. Lo videro, e cenno
fecero l'uno all'altro, balzarono súbito a terra,
e nella nave loro l’addussero, tutti festosi,
ché lo credettero figlio di qualche divino monarca.
E tosto in ceppi duri lo vollero stringer; ma i ceppi
non lo tenevano: i lacci, dai pie’, dalle mani, lontano
caddero al suolo; ed egli si pose a sedere; ed un riso
illuminava le azzurre pupille. E il pilota comprese.
«Amici, un Nume abbiamo predato; e volete legarlo?
Egli è pesante: il nostro naviglio non può contenerlo:
Giove, di certo, è costui, o Apollo dall'arco d’argento,
oppure, il Dio del mare: l’aspetto non ha d’un mortale:
somiglia ai Numi ch'ànno dimora nel cielo: su’ via.

sopra la negra terra lasciamolo libero, lungi
da lui le man’ tenete, ché, in ira salito, non debba
i venti contro noi suscitare, e la fiera procella».
     Disse; ma il capitano rispose con cruda rampogna:
"Amico, bada al vento, tu, bada a raccoglier gli attrezzi,
a tirar su la vela: ché a questo ci pensa la ciurma.
Sino in Egitto dovrà venire con noi, sino a Cipro,
agl'Iperborei, e magari più in là, dico io, sino a quando
detto non ci abbia i suoi genitori chi sono, e gli amici,
tutte le sue sostanze: ché a noi l’ha mandato un Celeste».
     E l’albero drizzò, tese allora la vela il pilota.
Colpí la brezza a mezzo la vela, si stesero i remi
tutti d'attorno. E, d’un tratto, si videro strani prodigi.
Prima, traverso il negro veloce naviglio, un vin dolce
fragrante, scaturí gorgogliando; e s’effuse un olezzo
ambrosio: sbigottiti rimasero tutti i nocchieri.
Súbito dopo, a sommo fiorí della vela una vigna,
stesa di qua, di là: ne pendevano grappoli fitti.
S’avvolticchiò tutta in giro su l’albero l’edera negra,
dove il corimbo fiorí, spuntarono bacche eleganti;
e tutti ebber ghirlande gli scalmi. Ciò visto, i nocchieri
dissero che il pilota facesse approdare di nuovo
la nave; ed ecco, dentro la nave, comparve da prora
un orrido leone, che truce ruggiva; e nel mezzo,
tutta villosa un’orsa, tremendo prodigio. E si rizza
sui pie', bramosa; e sopra lo scalmo di prora, il leone
terribilmente guata. Balzarono a poppa, sgomenti,
tutti, vicino al nocchiero che aveva mostrato saggezza;
e se ne stavano li, sbigottiti. E il leone, d’un salto,
il capitano acciuffò. Quegli altri, d’un tratto, a schivare

la mala sorte, tutti nel mare balzarono; e quivi
divennero delfini. Ma il Nume, pietà del pilota
ebbe, lo risparmiò, lo volle felice, e gli disse:
«Salute, o pio nocchiero! Tu sei prediletto al mio cuore.
Io dei tripudi sono l’amico, Dïòniso: madre
mi fu Semèle, figlia di Cadmo; e mio padre fu Giove».
     Salute, o della vaga Semèle figliuolo: oblioso
possibile non è ch’io mai dei tuoi riti divenga.


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