< Inni omerici < Ad Ermete
Questo testo è stato riletto e controllato.
Omero - Inni (Antichità)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1914)
Ad Ermete - Inno
Ad Ermete - Introduzione Inni omerici



Ermète, o Musa, canta, di Giove figliuolo e di Maia,
lui che Cillène e l’Arcadia nutrice di greggi tutela,
degl’Immortali araldo benigno. Sua madre fu Maia,
Ninfa dai riccioli belli, che a Giove si strinse d’amore,
pura fanciulla. Schivare le schiere solea dei Beati,
sempre, vivea fra l’ombre d’un antro. Il figliuolo di Crono
amò quivi la Ninfa ricciuta, nel cuor della notte,
mentre Giunone immersa giaceva nel dolce sopore,
restando ai Numi tutti nascosto, ed a tutti i mortali.
Ma quando fu compiuto di Giove possente il disegno,
ed eran volti già per lei dieci mesi nel cielo,
diede alla luce il fanciullo, compiuta fu l’opera insigne.
Un pargoletto die’ a luce versatile, fino di mente,
pronto a rubare, ladrone di bovi, signore dei sogni,
uso a spiare di notte davanti alle porte, che presto
compiere celebri imprese doveva fra i Numi immortali.

Esso, come balzò della madre dal grembo immortale,
ben poco tempo restò ne la culla di vimini sacra,
ma saltò su, la soglia varcò dell’ombrosa spelonca,

ed a cercare mosse la greggia d'Apòlline arciero.
Una testuggine prima trovò, ne cavò gran sollazzo.
Gli capitò fra i piedi dinanzi all’ingresso dell’antro,
mentre pasceva presso la casa la florida erbetta,
movendo lemme lemme. Di Giove il benevolo figlio
la guardò, rise, e queste parole poi súbito disse:
«Auspicio sei per me profittevole; ed io non ti spregio,
Salve, o piacevole oggetto, che fausto m’appari, o dei balli
guida, ai banchetti compagna. Di dove mai giungi, o soave
trastullo, guscio versicolore, montana tartuca?
Ora ti piglio, a casa ti porto, e ti metto a partito,
non ti trascuro: la cosa sarai che per prima mi giovi.
È meglio stare in casa, nocivo è restare all’aperto.
Dei sortilegi, se tu fossi viva, saresti ministra;
ma se morrai, potrai dolcissimo effondere un canto».
     Disse cosí, la levò con ambe le mani da terra,
e rïentrò nello speco, recando il giocattolo caro.
E quivi, uno scalpello di candido ferro vibrando,
tutto sgusciò dell’alpestre tartuca il midollo vitale,
velocemente, come si muove il pensiero d’un uomo,
quando nel petto suo si volgon molteplici cure,
e, roteando, dagli occhi gli sprizzano raggi: del pari
facea lo scaltro Ermète succedere all’opere i fatti.
Pria conficcò le canne d’un giunco tagliate a misura
entro dei fori, aperti sul dorso alla dura tartuca;
attorno attorno, sopra vi stese la pelle d’un bove,
poi ci piantò le braccia, e un giogo ch’entrambe le unisse:
sette concordi minugia di pecora sopra vi stese.
Ora, poi ch’ebbe con arte costrutto il giocattolo caro,
le corde ad una ad una percosse col plettro; e un frastuono

acuto sorse. E il Dio cantava soave, tentava
d’improvvisare, come sono usi i fiorenti garzoni,
che nei convivii l’un l’altro ferisce con motti pungenti.
E del Croníde cantò, di Maia dai sandali belli,
come la prima volta li strinse un colloquio d’amore;
e ricordò nel canto com’egli medesimo nacque.
Anche le ancelle esaltò della Diva, e la fulgida casa,
e della casa i tanti lebèti, ed i tripodi; l’una
cosa cantava, e l’altra volgeva di già nella mente.

Quando finí di cantare, depose la concava cetra
entro il canestro sacro. E poscia, di carne bramoso,
alla ventura, fuori balzò dalla casa fragrante,
entro la mente volgendo sottile un inganno, di quelli
che, quando piú s’infosca la notte, mulinano i ladri.
Già dalla terra verso l’Ocèano il sole scendeva,
col suo carro, coi suoi veloci cavalli. Ed Ermète,
della Pïèrïa, giunse, correndo, alle ombrose montagne,
dove i giovenchi, immuni da morte, dei Numi beati
avean le stalle, e i prati pascevano amabili, intatti.
Di Maia il figlio, ch’Argo trafisse, che acuto ha lo sguardo,
qui dalla mandra distolse cinquanta muggenti giovenchi,
e li sospinse, per vie traverse, sul lido sabbioso,
ed al contrario mandò gli zoccoli: quelli di dietro,
avanti, e quelli avanti, di dietro: ei medesimo l’orme
capovolgeva all’indietro: non pose le frodi in oblio.
E i sandali scagliati sovressa la sabbia del mare,
opere macchinò non mai né pensate né dette,
stupende: insiem rametti legò di miríca e mirtillo,
e, dalla florida selva cosí stretto insieme un fastello,

con cautela i pie’ di quei lievi calzari si strinse,
con le lor frondi ancora (li aveva l’illustre Argifonte
dalla Pïèrïa svèlte), sinché scomparisse ogni traccia.

     Ecco, lo vide un vecchio che stava curando una vigna,
mentre egli al pian d’Onchèsto movea per l’erbosa pianura.
A lui primo si volse di Maia il famoso figliuolo:
«Vecchio, che curve hai le spalle, che sarchi codeste barbate,
bella vendemmia farai, se pure attecchiscono tutte!
Vedere devi senza vedere, e, se ascolti, esser sordo
e stare zitto, quando tu nulla del tuo ci rimetti».
     E, cosí detto, i buoi dal valido collo sospinse.

     Per molti ombrosi monti, per molti sonori valloni
mosse l’illustre Ermète, per molte fiorenti pianure.
E già la Notte ombrosa, la Dea che l’aveva protetto,
era al suo fine presso, spuntava già l’alba operosa,
ed alla sua vedetta saliva la Diva Selene,
quando il figliuolo prode di Giove, sui rivi d’Alfèo
i buoi spinse dall’ampia cervice d’Apolline Febo.
Né stanchi erano, quando pervennero all’alto presepe,
ed alle greppie poste dinanzi, sul florido prato.
E quivi, poi che d’erba pasce’ le muggenti giovenche,
tutte le spinse nell’antro, ché strette restassero al chiuso,
a ruminare loto con cípero molle di guazza.
Poi, molte legna raccolte, provvide ad accendere il fuoco.
Prima col ferro tolse la scorza a un bel ramo d’alloro
ché si potesse impugnare....

Lacuna.
Certo si descriveva come Ermete ottenne il
fuoco sfregando insieme due pezzi di legno.

     . . . . . . . . . . . ardente spirava la fiamma.
D’aride legna belle perfette perenni un gran mucchio
poi fece, entro una fossa profonda, nel suolo; e la fiamma
brillò, che lunge il fiato recava e la vampa del fuoco.
E mentre ardeva il fuoco la furia dell’inclito Efèsto,
dalla spelonca fuori due lente muggenti giovenche
presso alla fiamma trasse, tanto era il vigor di sue membra,
le stese al suol, che forte soffiavano entrambe, supine,
poi si chinò, le girò, le ferí su la spina dorsale.
Ed opra ad opra aggiunse, la carne tagliando e l’omento.
E poi, sopra schidioni di legno le infisse, e le cosse,
le carni insieme, e i pingui filetti, e il purpureo sangue
entro le viscere chiuso: dei brani rimasero a terra.
In cima stese poi le pelli a una roccia scoscesa,
come anche adesso, ch’è tanto tempo trascorso, le pelli
di vecchi bovi in luoghi si tendono eccelsi. E, ciò fatto,
l’ilare Ermète recò tutto quanto il suo pingue bottino
sopra una liscia pianura, ne fece, per poi trarle a sorte,
dodici parti; e aveva ciascuna il suo pezzo perfetto.
Qui delle carni offerte nel rito lo punse desio,
ché lo attirava l’olezzo soave, sebben fosse Nume.
Però, l’animo forte, per grande che fosse la brama,
lo dissuase che carne cibasse la fauce immortale.
Bensí le molte carni, l’omento, nell’alta spelonca
portò, súbito poi ne fece alto un mucchio, trofeo
della novella preda, lo cinse con aride legna,

e dalla testa ai pie’, tutto strusse alla vampa del fuoco.
Or, poi che il Dèmone tutto compie’, come avea disegnato,
i sandali gittò nei vortici fondi d’Alfeo,
spense i carboni, e lungi ne sperse la cenere negra
tutta la notte; e belli Selene i suoi raggi diffuse.

     E del Cillène poi di nuovo tornava alla vetta,
mentre spuntava il giorno. Né alcuno pel lungo viaggio
dei Numi l’incontrò, né degli uomini nati a morire,
né gli abbaiarono i cani. E il figlio benigno di Giove,
di sbieco penetrò nello speco, traverso la toppa,
come la nebbia, come la brezza che spira d’Autunno.
Della spelonca entrò diritto negli àditi pingui,
leggeri i pie’ movendo, ché non se n’udiva scalpore.
Quivi alla culla Ermète famoso veloce si volse,
e agli omeri si cinse le fasce; e d’un pargolo al pari
che in braccio alla nutrice sgambetta, che ancora non parla,
giacea, nella sinistra reggendo l’amabile cetra.
Ma, sebben Dio, lo scoprí. Diva anch’essa, la madre, e gli disse:
«Furbone, come mai, donde mai, svergognato perfetto,
giungi a quest’ora di notte? Ma ora ne sono ben certa,
che tu presto dovrai, tutto avvinto di dure ritorte,
stretto dal pugno del figlio di Lato, varcare la soglia,
oppure per le valli vagare, facendo il ladrone.
Va’, sciagurato, in malora! Tuo padre ha con te generato
per i mortali tutti, pei Numi immortali, un gran guaio.»
     E a lei rispose Ermète con queste parole sagaci:
«Madre, perché mi vuoi sbigottir, come fossi un fanciullo
che ancor non parla, e poca scaltrezza racchiude nel seno,
tutto paura, e teme tuttor le materne minacce?

Anzi, io mi voglio in un’arte scaltrir, la piú fine di tutte,
che a me, che a te darà perenne fulgore. Fra i Numi
noi due non resteremo piú privi di preci e di doni,
non resteremo piú qui, come tu penseresti, a patire.
Meglio è tutta la vita passar conversando coi Numi,
ricchi, opulenti, provvisti di campi, anziché stare in casa,
poltrire entro una buia spelonca. Raggiunger gli onori,
anch’io, le offerte avere desidero al pari d’Apollo.
Ché se non vuole il padre concedermi tanto, altra prova
farò: capo sarò di ladroni: ché il cuor me ne basta.
Ché poi, qualor mi colga l’illustre figliuol di Latona,
di quanto mi farà, saprò ripagarmi ad usura:
a Pito andrò, saprò nel tempio suo grande introdurmi,
e lí, farò man bassa dei tripodi belli, e i bacini
del luccicante ferro, farò man bassa dell’oro
e delle tante vesti: veder tu potrai, se lo brami».
     Queste parole cosí scambiavano l’uno con l’altra,
la veneranda Maia col figlio di Giove possente.

Ed ecco, balzò su dai gorghi d’Ocèano profondi
Alba che presto si leva, che reca la luce ai mortali.
E mosse Apollo, e giunse d’Onchèsto all’amabile selva,
al Dio sacra che stringe la terra, che fiero rimbomba.
E il vecchio qui trovò, che lungo la via, d’una siepe
cingea la vigna; e primo gli disse il figliuol di Latona:
«Vecchio, tu che in Onchèsto l’erbosa raccogli marruche,
dalla Pïeria io qui son giunto a cercare il mio gregge,
tutte le femmine, tutte di corna ricurve, sbandate
lungi dal branco. Il toro cerulëo, solo pasceva
lungi dall’altre; e cani seguiano, dagli occhi di fuoco,

quattro, come uomini, intesi concordi alla guardia. Ora, i cani,
sono rimasti, e il toro: davvero è un prodigio; e le vacche
via se ne sono andate, dal pascolo dolce, dal prato
morbido, quando il sole da poco era sceso nel mare.
Annoso vecchio, questo dimmi ora, se alcuno hai veduto
che dietro queste vacche battesse veloce la strada».
     E a lui rispose il vecchio, cosí la parola gli volse:
«Ardua cosa, amico, ridire per filo e per segno
quello che vedono gli occhi: ché passano assai viandanti,
e covan questi molti malvagi propositi, e quelli
buoni: difficile assai saper come ognuno la pensi.
Io, per me, tutto il giorno, dall’alba al tramonto del sole,
sono rimasto a sarchiare d’intorno alla vigna. E un fanciullo
veder mi parve, amico — però non son certo — e giovenche
movevano con lui cornígere: un pargolo; e aveva
un pungolo; ed il suo camminare era un andirivieni».
     Ciò disse il vecchio; e il Nume di nuovo riprese il cammino,
tosto; ché furon per lui quei detti volante presagio,
e súbito capí che il ladro era il figlio di Giove.

     E si lanciò veloce Apolline figlio di Giove
verso la sacra Pilo, cercando le tarde giovenche,
nascosto entro una nube purpurëa gli omeri vasti.
E l’orme vide, il Nume che lungi saetta, e proruppe:
«Ahimè, quale prodigio vedere non debbon questi occhi!
L’orme son certo queste dei buoi dalle corna diritte,
ma capovolte sono, s’avviano al prato asfodelo!
Né d’uomo sono, queste vestigia, non sono di donna,
né pur di grigi lupi, non son di leoni né d’orse,
né di villoso centauro mi sembra che siano, che possa

orme lasciare cosí mostruose coi piedi veloci:
strane a guardarle di qui: di lí, se le guardi, più strane!».
E si lanciò, cosí detto, Apòlline figlio di Giove,
e di Cillène al monte pervenne, vestito di selve,
entro l’anfratto alpestre roccioso, tutto ombra, ove Maia,
l’ambrosia Ninfa, avea dato a luce il figliuolo di Giove.
E s’effondeva per l’alpe divina soave fragranza,
e l’erba molte greggi pascevan dall’agili gambe.
E qui varcò, veloce movendo, la soglia di pietra,
e scese, il Dio che lungi saetta, nell’ombre dell’antro.

     E come, dunque, il figlio di Giove e di Maia ebbe scorto,
l’Iddio, che lunge scaglia le freccie, adirato pei bovi,
entro le fasce fragranti s’immerse: lo stesso vediamo
quando il carbone che brucia di cenere un mucchio nasconde.
In poco spazio Ermète cosí, quando Apòlline vide,
tutto si strinse, e i piedi contenne e le mani e la testa,
come se, or or fatto il bagno, cercasse di prendere sonno;
e invece, era ben desto: stringea sotto il braccio la lira.
Ma ben conobbe il Dio di Latona figliuolo e di Giove
l’alpestre Ninfa bella col suo prediletto figliuolo,
piccolo pargolo, e già maestro d’astuti raggiri.
E gli occhi della grotta per gli angoli tutti movendo,
tre ripostigli aprí, ché rinvenne la fulgida chiave;
ma colmi erano tutti di nèttare e amabile ambrosia;
e d’oro anche e d’argento quivi era serbata gran copia,
e della Ninfa molte purpuree e candide vesti,
come ne serbano tutte le case dei Numi beati.
Ora, poi ch’ebbe tutti cercati gli anfratti dell’antro,
queste parole il figlio di Lato rivolse ad Ermète:

«Bimbo che giaci in culla, rispondimi presto ove sono
le vacche; o la contesa tra noi sarà poco garbata;
giacché ti scaglierò fra la nebbia del Tàrtaro orrenda,
nel buio donde mai non si torna; né padre né madre
potranno a luce piú ricondurti: sotterra, in malora,
sovra perdute genti provare dovrai le tue frodi».

     E a lui rispose Ermète con queste sagaci parole:
«Perché tanto crudele mi parli, figliuol di Latona?
Perché vieni a cercare qui proprio, i silvestri giovenchi?
Io non li ho visti, non so, non ne ho udito parlar da nessuno,
dar non ti posso indizio, buscar non mi posso la mancia.
Ho l’aria, io, d’un ladro di bovi, d’un uomo gagliardo?
Non fo questo mestiere, mi premono ben altre cose:
fare i miei sonni, il latte succhiar di mia madre, mi preme,
le fasce avere avvolte sugli omeri, e il tepido bagno.
Vedi che non si risappia l’origin di questa contesa:
gran meraviglia davvero sarebbe fra i Numi del cielo,
che un bimbo appena nato potesse varcare la soglia,
e sgraffignare i bovi silvestri: tu chiacchieri a vuoto.
Ieri son nato! I miei piedi son teneri, e dura è la terra.
Ma su la testa del babbo, se vuoi, ti fo’ giuro solenne,
io, te ne dò sicurtá, che non sono colpevole, e visto
alcun altro non ho, che rubasse le vostre giovenche,
quali che siano; ed ora soltanto ne sento parlare».
     Cosí dicea; ma gli occhi mandavano lampi inquieti,
guizzava il sopracciglio, sfuggiva qua e là la pupilla;
e infine alto stride’, quando vana riuscí la menzogna.
     E Apollo a lui, ridendo di cuore, cosí rispondeva:
«O sciocco, o tristo arnese, maestro d’imbrogli, assai spesso,
io credo, entrar dovrai nelle case abitate, di notte,

e piú d’un uom farai che segga sul nudo impiantito,
senza rumore spogliando la casa: mi basta sentirti.
E molti spoglierai di greggi campestri custodi,
per le vallate selvose, qualora, di carni bramoso,
branchi di pecore incontri villose ed armenti di bovi.
Ma se non vuoi che per te debba questo esser l’ultimo giorno,
giú dalla culla, o amico del buio notturno, discendi,
perché tal privilegio fra i Numi ora e sempre tu avrai:
detto sarai, finché durino i secoli, amico dei ladri».
     Disse, ed il bimbo prese, con sé lo recò Febo Apollo.
E allora, concentrò gli spiriti il forte Argicída;
e, mentre fra le braccia il Dio lo stringea, come augurio
un crèpito lanciò, del ventre squillante messaggio.
Súbito poi sternutí, per coprirlo. Ma bene distinse
Apollo, e a terra Ermète sfuggire lasciò dalle mani,
e gli sedette innanzi, ché pungerlo volle, sebbene
avesse tanta fretta, cosí la parola gli volse:
«Caro il mio bambolo in fasce, figliuolo di Maia e di Giove,
animo! Io troverò l’eccelse cervici dei bovi,
se pure questi augúri non mentono; e tu sarai guida!»
     Disse. E il Cillenio Ermète di nuovo in pie’ rapido surse.
Ma camminava a stento. Le mani distese, le fasce
che gli coprian le spalle, tirò sugli orecchi, e sí disse:
«Dove mi porti, o Arciero, o Dio furïoso fra tutti?
Forse pei bovi, rizzi cosí la criniera ed infuri?
Povero me, si sperdesse la razza dei bovi! Ché io
non ho rubate, quali che sieno, le vostre giovenche,
né l’ho vedute rubare. Solo ora ne sento parlare.
Citami pure a Giove figliuolo di Crono: ci vengo».
     Ora, poi ch’ebbero, punto per punto, discusso in contrasto,

Ermète degli armenti custode, e il figliuol di Latona,
d’animo ben diverso: ché l’uno, veridico sempre,
avea ghermito Ermète pei buoi trafugati, a buon dritto;
e con le frodi l’altro, coi suoi capziosi discorsi
trarre voleva il Dio dall’arco d’argento in inganno:
poiché lo scaltro, dunque, trovato ebbe un altro più furbo,
rapido s’avviò Ermète pel lido sabbioso,
egli davanti, e il figlio di Giove e Latona a lui dietro.

E giunti furon presto d’Olimpo alle cime fragranti,
dinanzi al padre loro Croníde, i figliuoli di Giove:
ché per pesare le loro ragioni, era qui la bilancia.
Sereno era l’Olimpo, coperto di neve; e i Celesti
per le convalli d’Olimpo sedevano, tutti raccolti.
Stettero Ermète ed Apollo, signore dall'arco d'argento,
dinanzi alle ginocchia di Giove; e il Signore del tuono
al figlio suo fulgente rivolse cosí la parola:
«O Febo, e d’onde mai sospingi quest'ardüa preda:
un bimbo appena nato, che sembra, all'aspetto, un araldo?
È grave questo affare che giunge al cospetto dei Numi!»
     E il Nume a lui, che avventa lontano le frecce, rispose:
«Padre, che me proverbi perché sono vago di prede,
solo io fra tutti, udrai fra poco una storia bizzarra.
Dopo che a furia molti paesi varcai, questo bimbo
matricolato furfante trovai sopra l’alpe cillenia,
ingannatore come niun altro mai vidi fra i Numi,
né fra i mortali, quanti son bindoli sopra la terra.
Perché rubò le mie giovenche dal pascolo, e a vespro
lungo la spiaggia del mare dall’alto frastuono le spinse,
le addusse verso Pilo. Ed erano immani le impronte,

e tali da stupirne, da dirle prodigio d’un Nume:
però che Torme tutte mostrava la polvere negra
delle giovenche, rivolte, retrograde, al prato asfodelo.
Ed egli poi, da sé, questo bambolo invalido, andava,
non sulle mani, e neanche sui pie’, pel terreno sabbioso;
ma con un altro strano congegno batteva la via,
come se avesse, invece di piedi, tronconi di quercia.
Ora, finché li spinse traverso il terreno sabbioso,
erano impresse qui, tutte quante visibili, l'orme;
ma quando il tratto grande d’arena fu poi superato,
sparvero le vestigia dei bovi sul duro terreno,
sparver le sue vestigia. Ma un uomo lo scorse, un mortale,
mentre spingeva a Pilo le vacche dall’alta cervice.
E poscia, quando l’ebbe rinchiuse a suo comodo, e il fuoco
ebbe a sua posta qua e là sparpagliato per tutta la strada,
in una culla a giacere si mise, e sembrava una notte,
entro un ombrosa spelonca, nel lato più buio: neppure
l’aquila, acuto sguardo, scoperto l’avrebbe; e sovente
le mani sopra gli occhi stendeva, tramando l’inganno.
E mi rispose, senza scomporsi, con queste parole:
«Non vidi, io, non so nulla, neppur n’ho sentito parlare,
dar non ti posso indizio, buscare non posso la mancia».
     Dunque, cosí parlò Febo Apollo, e si mise a sedere.
E fece Ermète un altro discorso ai Beati, ed un cenno
pria di saluto al Cromde, signore di tutto, rivolse:
«Tutta la verità, Giove padre, ti voglio narrare:
ché io dire menzogna non posso, e veridico sono.
A casa nostra giunse costui, le giovenche cercando
dai lenti pie’, quest’oggi, che il sole da poco era sorto:
né seco alcun dei Numi recò testimone oculare.

E con bravate grandi m’impose che tutto io svelassi,
e la minaccia mi fe’ di scagliarmi nel Tartaro immane,
perché di gioventù glorïosa ei si trova nel fiore,
io sono al mondo, e anch’egli lo sa, solamente da ieri,
e non ho l’aria d’un ladro di bovi, d’un uomo gagliardo.
Credi, per quanto è vero che tu ti dichiari mio padre,
ch’io le giovenche a casa condotte non ho, per fortuna!,
che non varcai la soglia, che il vero è cosí come io dico.
Gran reverenza io nutro pel Sole, pei Dèmoni tutti,
e t’amo, ed anche Apollo rispetto. Tu poi, lo sai bene
ch’io non ho colpe; e dare ne vo’ giuramento solenne:
per questi dei Beati vestiboli sacri lo giuro.
Ed a costui farò scontare il saccheggio che ha fatto,
sebbene sia piú forte: tu i giovani assistere devi».
     Disse cosí l’Argicída Cillenio; e con gli occhi ammiccava
e con le braccia nascoste; ché via non gittava le fasce.
E Giove rise tanto, vedendo quel bambolo birbo,
come sapeva bene mentire, con quanta scaltrezza.
E allora comandò ch’entrambi d’amore e d’accordo
cercassero; ed Ermète, signore che l’anime guida,
guidasse lui, mostrasse, ma senza piú inganni, il paese
dove nascoste aveva le vacche dall’alta cervice.
E fe’ cenno il Croníde, né tardo fu Ermète a obbedire,
ché lo convinse il volere di Giove dell’ègida sire.

Ed affrettandosi entrambi, di Giove i due fulgidi figli,
giunsero a Pilo, coperta di sabbia, sui rivi d’Alfeo,
giunsero ai campi, ed alla spelonca dall’alto soffitto,
dove la notte avanti compiuta avea l’opera Ermète.
E quivi, dunque, Ermète, entrato nell’antro roccioso,

a luce trasse i bovi dall’alta cervice. E in disparte
stando il figliuol di Latona, scoperte le pelli dei bovi
sopra la rupe scoscesa, si volse al chiarissimo Ermète:
«Come hai potuto, orditore d’inganni, scoiare due bovi,
tu che sei nato or ora, tu ancor da vagiti? Anch'io temo
quanta la forza tua sarà nel futuro: bisogna
che troppo tu non cresca, Cillenio di Maia figliuolo».
Cosí disse; e le mani gli strinse di vincoli saldi.


Lacuna.

Probabilmente si narrava come Ermete seppe
spezzare i suoi lacci, e i varii pezzi, caduti al
suolo, attecchirono e avvincigliarono le gambe
delle giovenche.


E sotto i piedi, i rametti di vètrice, ov’eran caduti
fecero presa; e a caso volgendo qua e là le vermene,
ai pie’ delle silvestri giovenche si avvinsero stretti,
per l’artificio d’Ermète, del dèmone scaltro. Ed Apollo
vide, meravigliò. Volse gli occhi il gagliardo Argicída
di sotterfugio al suolo, battendo le pàlpebre fitte,
cercando ove celarsi. Ma poi, facilmente placare
seppe il figliuol di Latona che lungi saetta, sebbene
tanto tremendo, a sua posta. La lira che a manca reggeva,
tentò col plettro, corda per corda. E le corde percosse
alto levarono strepito. E Apolline Febo sorrise,
e s'allegrò, ché in cuore gli scese l’amabile suono
dello strumento divino, lo invase dolcissima brama,
mentre ascoltava il suono. E, citareggiando soave,

prese coraggio, il figlio di Maia e di Giove, e a sinistra
stette d’Apolline Febo. Correan con acuti preludi
sopra le corde le dita, l’amabile voce seguiva.
E celebrava i Numi che vivono eterni, e la terra
negra, e qual fu d’ognuno l’origine, e quale il destino.
E Mnemosíne prima cantava fra tutti i Celesti,
la madre delle Muse, che il figlio di Maia protegge;
e tutti quanti, secondo l’età, celebrava, e narrava
come ciascuno nacque, di Giove il bellissimo figlio,
tutti con garbo esaltava, reggendo sul braccio la cetra.
E preso allora fu da brama invincibile Febo,
e il volo a lui rivolse cosí dell’alate parole:
«Ladro di bovi, maestro di frodi, compagno ai banchetti,
che mai non posi, val bene cinquanta giovenchi, il tuo canto!
Credo che intenderci senza contesa noi sempre potremo.
Ma questo dimmi adesso, di Maia versatile figlio,
è dono di natura, per te, compier tanti prodigi,
oppure alcun dei Numi beati o degli uomini alcuno
questo mirabile dono ti fece, del canto divino?
È meraviglia, questa novissima cosa che ascolto,
quale non mai conobbe, di certo, verun dei mortali,
né dei Celesti alcuno, quanti hanno dimora in Olimpo,
tranne tu sol, frodatore, di Giove e di Maia figliuolo.
Quale arte, quale studio, qual Musa degli aspri cordogli
consolatrice è questa? Ché certo tre doti possiede:
evocatrice è di gioia, d’amore, di dolce sopore.
Di certo sono anch’io compagno alle Muse d’Olimpo,
a cui l’inno è gradito del canto soave e la danza,
e la fiorente voce, dei flauti l’amabile squillo:
però mai nessun canto mi scese nel cuore profondo

simile a quello che adesso, di Maia figliuolo, tu intoni.
Come soavemente la cétera suoni! Io stupisco.
Ed or, poiché, sebbene sei pargolo, è grande il tuo senno,
siedi, mio caro; e ciò che i piú vecchi ti dicono, approva:
perché grande sarà la tua fama fra i Numi immortali,
per te, per la tua madre: sicuro presagio io ne faccio.
Per questo giavellotto di cornio io lo giuro, alla gloria,
alla felicità vo’ condurti fra i Numi d’Olimpo,
bei doni ti darò, senza tenderti frode veruna.
     E a lui rispose Ermète con queste parole sagaci:
«Scaltro tu chiedi, o Nume che lungi saetti; e se l’arte
vuoi praticare ch’io rinvenni, non io te l’invidio.
Oggi l’apprenderai: di consigli voglio esserti largo
e di precetti. Ma d’ogni scïenza da te sei maestro.
Al primo posto, o figlio di Giove, fra i Numi tu siedi,
bello e possente: a Giove dal senno profondo sei caro,
perché santo sei tu, ne avesti presenti ed onori
fulgidi: tu dalla voce di Giove, Signore dell’arco,
primo conosci i presagi, che tutti provengon da Giove.
Per questo, io te Signore di tutti i presagi saluto.
Ed or, poiché la brama di citareggiare t’infiamma,
suona la cétera, canta, la mente rivolgi alla danza,
l’arte ricevi da me: tu concedimi invece la gloria.
Canta, su dunque, prendi l’amica dal garrulo suono
che tanto bene sa, con tal grazia ogni cosa narrare,
recala a cuor sicuro dov’è l’allegria dei banchetti,
dove l’amabile danza, dov’errano gli ebbri a sollazzo,
del giorno e della notte compagna gioconda. Chiunque
interrogare esperto la sa con ingegno e con arte,
ella risposte dà d’ogni specie, che appagano il cuore,

ché si compiace di chi la fa mollemente vibrare,
Ma dai contatti rozzi rifugge; ma chi, non esperto
da prima, a precipizio rivolger le vuole domande,
cianciuglia allora frasi a vanvera e prive di senso.
Ma tu quello che brami, apprendere puoi da te solo.
Perciò, figlio di Giove bellissimo, a te la consegno.
E invece, noi, sul monte, sul piano che nutre i cavalli,
custodiremo i paschi che nutrono, Apollo, i giovenchi.
Partoriranno quindi, commiste coi tauri, le vacche
figli in gran copia, sia maschi, sia femmine; e tu non dovrai
troppo adirarti, o Febo, sebbene sí scaltra hai la mente».
     Detto cosí, glie la porse; Apolline Febo la prese,
e, in cambio, consegnò la lucida sferza ad Ermète,
che le giovenche guidasse. Ben lieto il figliuolo di Maia
la ricevette; ed Apollo, Signore che lungi saetta,
fulgido figlio di Lato, la cetra pigliò con la manca,
e la percosse, corda per corda, col plettro. E soave
fu della cetra il suono, del Nume era amabile il canto.

Volsero poi le greggi, perché pascolassero, al prato
divino; ed essi, i figli di Giove bellissimo, entrambi
tornarono all’Olimpo coperto di neve, a gran passi,
diletto della cetra prendendo. E fu lieto il Croníde.
e strinse l’uno all’altro d’affetto: il figliuolo di Maia
sempre il figliuol di Latona dilesse, ed ancor lo dilige.
E die’, retaggio al Nume che lungi saetta, la cetra,
la cui dolcezza aveva provata; e ognor quegli la tocca.
Ed egli a un’arte poi diversa lo studio rivolse:
delle siringhe trovò la voce che vibra lontano.

E allor Febo ad Ermète cosí la parola rivolse:
«Io temo, o scaltro figlio di Maia che l’anime guidi,
che tu m’abbia a rubare la cétera e l’arco ricurvo:
poiché tal privilegio t’ha Giove concesso, gli scambi
effettuare sopra la terra che tutti nutrica.
Perciò tu devi il giuro solenne dei Numi prestarmi,
sia con un cenno del capo, sia l’acqua di Stige invocando,
che sempre ciò farai che a me sia diletto e gradito».
     E allor, di Maia il figlio fe’ cenno del capo, e promise
che mai non ruberebbe quanto era possesso d’Apollo,
né mai presso il suo tempio fulgente verrebbe. Ed Apollo
chinò la testa, in segno d’affetto e d’assenso, e promise
che niuno a lui piú caro, fra quanti hanno vita immortale,
sarebbe mai, né Dio, né uomo figliuolo di Giove.
     «E te medïatore farò tra i Celesti e i mortali,
fido al mio cuore, e colmo d’onori; e una verga anche avrai,
bellissima, che vita beata e ricchezze procacci,
indistruttibile, d’oro, a tre foglie; e sarà tuo presidio.
Essa su tutte le vie dei discorsi e dell’opere buone
ti condurrà, quante io ne so dalla voce di Giove.
L’arte profetica poi, che tu chiedi, o figliuol del Croníde,
lecito non è già che a te la comunichi, o a quale
sia dei Celesti: a Giove soltanto appartiene: la fede
io con un cenno del capo prestai, diedi giuro solenne
che niuno, tranne me, dei Numi che vivono eterni
conoscerebbe mai di Giove il profondo consiglio:
né tu chiedermi dunque, fratello dall’aurea verga,
ch’io le sentenze sveli di Giove che tutto contempla.
E danno io recherò a quest’uomo, vantaggio a quest’altro,
frequentemente il corso volgendo fra gli uomini grami.

Vantaggio ritrarrà dai miei vaticini chi giunga,
vuoi con la voce, vuoi col voi dei fatidici augelli:
questi dai miei responsi vantaggio trarrà senza inganno.
Ma chi, fidando, invece, nel volo d’augelli mendaci,
fuor di proposito voglia richiedere il mio vaticinio,
farà la strada invano; ma i doni li accetto lo stesso.

     E un’altra cosa ancóra, benevolo Dèmone, figlio
di Maia, e del Signore dell’ègida illustre, io ti dico.
Ci sono certe Trie, che vennero a luce sorelle,
vergini, e vanno liete di rapide penne: tre sono,
ed hanno tutto il corpo cosperso di bianca farina.
Hanno sottesso un anfratto del monte Parnaso la casa,
e insegnano in disparte le lor profezie, ch’io fanciullo
appresi, mentre i buoi custodivo; né Giove le cura.
Chi qua, chi là, da questo rifugio poi sciamano a volo;
cibano favi; e tutti si compiono i loro presagi;
e quando invasan poi, pasciute del pallido miele,
volonterose dànno responsi veridici: quando
tengono invece in dispregio quel cibo soave dei Numi,
tentano allora altrui sviare dal retto sentiero.
E dunque, io te le affido: consultale tu senza frode,
paga fa’ la tua brama. Se poi vorrai farti un allievo
fra gli uomini, udrà spesso, se pur sorte avrà, la tua voce.

Questo abbi, Ermète; e sii dei cornigeri bovi silvestri
e dei cavalli custode, dei muli tenaci al lavoro;
ed ai leoni dagli occhi di fuoco, ai cignali zannuti,
ai cani, a quante greggi nutrica l’ampissima terra,
sarà signor di tutti gli armenti il chiarissimo Ermète.

E solo egli sarà l’araldo perfetto d’Averno,
che tanto dono a lui farà, sebben dono non ebbe».

     Tanto il Signore Apollo dilesse con tutto il suo cuore
di Maia il figlio; e aggiunse di Crono il figliuol la sua grazia.
Ond’è compagno Ermète dei Numi e degli uomini tutti.
A dire il vero, aiuta di rado l’umana progenie,
e spesso assai la gabba, quand’è più profonda la notte.

     E cosí, dunque, salve, di Giove figliuolo e di Maia:
io mi ricorderò d’esaltarti in un inno novello.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.