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Gli altri inni sono povere cose, e il lettore non dotato di troppa pazienza, può saltarli senza scrupolo: la sua conoscenza degli inni omerici non ne rimarrà impoverita.
Sono, o addirittura frammentini staccati da altri inni (spesso da quegli stessi che già conosciamo; e in questo caso li ho addirittura omessi), o spunti appena abbozzati, o brevi composizioni quasi tutte di scarsissimo valore. La loro storia minuta non può interessare il lettore. Ed è quindi inutile starli a considerare uno per uno, per venire poi alla conclusione a cui siam giunti nell'esame degli inni maggiori: che cioè, di certo non si può dir nulla.
Fra tutti, hanno qualche maggior rilievo:
L'inno ad Artèmide, con l’efficace descrizione dello sgomento che invade i monti, le foreste, la terra e il mare, al passare dell’implacabile Dea: c’è come un riflesso della leggenda d’Orione, il cacciatore feroce.
Quello ad Atena, in cui è rappresentata con vivacità la nascita della Dea dal capo di Giove. Ad ogni modo, però, per misurare la distanza che passa da questi epigoni alla grande arte classica, gioverà ricordare i pochi sublimi tocchi di Pindaro, che anch'egli ricorda (Olimpia VII, Epodo II):
quel dí che per l'arte d'Efesto, pel cozzo di bronzea scure,
dal sommo cerèbro del padre
Atena balzò fuor, cacciando un urlo acutissimo immane,
e tutta la terra ed il cielo un orrido brivido corse.
Quello a Selene, notevole perché la fantasia del poeta, più che dalla personificazione del pianeta, sembra dominata dal suo vero aspetto fisico. Il che è tanto moderno quanto poco classico. E colorito moderno, quasi direi romantico, ha la pittura del fulgore lunare che piove dal cielo a bagnare la terra.
Quello ai Dioscuri, dove è dipinto con efficacia il trapasso del mare dalla tempesta alla calma. Certo, anche qui, c’è infinitamente più forza plastica nella strofetta d'Alceo ritrovata ultimamente nei papiri:
ché su le cime delle salde navi
fulgidi intorno agli alberi balzate,
e luce nella notte orrida al negro
legno recate.
Merita infine menzione speciale l’inno ad Ares. Il lettore vedrà con meraviglia che il terribile Dio, che in Omero e giù giù in tutti i poeti greci è rappresentato quasi come un beccaio, qui è invocato come Nume di pace, che debba preservare il poeta dalle guerre e dalle risse. Gli è che fra gl'inni omerici questo è un intruso, e ci è capitato, non si sa come, esule dalla sua vera patria, che dovrebbe essere la raccolta degli Inni orfici. Nei quali si potevano ammirare queste e simili altre metamorfosi. Ma non è qui il luogo da ragionarne.