< Ipermestra
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Interlocutori Atto secondo

ATTO PRIMO

SCENA I

Fuga di camere festivamente ornate per le reali nozze d’Ipermestra.

Ipermestra, Elpinice e cavalieri.

Elpinice. I teneri tuoi voti alfin seconda

propizio il padre, o principessa; alfine
all’amato Linceo
un illustre imeneo
oggi ti stringerá. Vedi il contento
che imprime in ogni fronte
la tua felicitá. Quanti da questa
eccelsa coppia eletta,
quanti dí fortunati il mondo aspetta!
Ipermestra. No, mia cara Elpinice,
al par di me felice
oggi non v’è chi possa dirsi. Ottengo
quanto seppi bramar. Linceo fu sempre
la soave mia cura. Il suo valore,
la sua virtú, tanti suoi pregi e tanti
meriti suoi mi favellâr di lui,
che a vincere il mio core
dell’armi di ragion si valse Amore.
Elpinice. Ah, cosí potess’io
al principe Plistene in questo giorno
unir la sorte mia! Tu sai...

Ipermestra.   Ne lascia

la cura a me. Dal real padre io spero
ottenerne l’assenso: in dí sí grande
nulla mi negherá.
Elpinice.   Qual mai poss’io,
generosa Ipermestra...
Ipermestra.   Ah! tu non sai
che gran felicitá per l’alma mia
è il fare altri felici.
Elpinice.   I fausti numi
chi tanto a lor somiglia
custodiscan gelosi.
Ipermestra.   Ancor Linceo
non veggo comparir. Che fa? Dovrebbe
giá dal campo esser giunto. Ah! fa’, se m’ami,
che alcun l’affretti. Alla letizia nostra
la sua congiunga. Ormai
tempo sarebbe: abbiam penato assai.
Elpinice.   Abbiam penato, è ver;
     ma in sí felice dí
     oggetto di piacer
     sono i martíri.
          Se premia ognor cosí
     quei che tormenta Amor,
     oh amabile dolor!
     dolci sospiri! (parte)

SCENA II

Ipermestra, poi Danao con séguito.

Ipermestra. Vadasi al genitor: dal labbro mio

sappia quanto io son grata, e sappia... Ei viene
appunto a questa volta. Ah! padre amato,

il don, ch’oggi mi fai, molto maggiore

rende quel della vita. Oggi conosco
tutto il prezzo di questa: oggi...
Danao.   Da noi
s’allontani ciascun. (al séguito, che si ritira)
Ipermestra.   Perché? M’ascolti
tutto il mondo, signor. Non arrossisco
di que’ dolci trasporti,
che il padre approva; e a cosí pure faci...
Danao. Voglio teco esser solo. Odimi e taci.
Ipermestra. M’è legge il cenno.
Danao.   Assicurar tu déi
il trono, i giorni miei,
la mia tranquillitá. Posso di tanto
fidarmi a te?
Ifermestra.   M’offende il dubbio.
Danao.   Avrai
costanza e fedeltá?
Ipermestra.   Quanta ne deve
ad un padre una figlia.
Danao. (le dá un pugnale)  Or questo acciaro
prendi; cauta il nascondi; e, quando oppresso
giá fra ’l notturno orrore
fia dal sonno Linceo, passagli il core.
Ipermestra. Santi numi! e perché?
Danao.   Minaccia il Fato
il mio scettro, i miei dí per man d’un figlio
dell’empio Egitto. Ancor mi suona in mente
l’oracolo funesto,
che poc’anzi ascoltai: né v’è chi possa,
piú di Linceo, farmi temer.
Ipermestra.   Ma pensa...
Danao. Molto, tutto pensai. Qualunque via
men facile è di questa,
ed ha rischio maggior. L’aman le squadre,
Argo l’adora.

Ipermestra.   (Io non ho fibra in seno

che tremar non mi senta.)
Danao.   Il gran segreto
guarda di non tradir. Componi il volto,
misura i detti, e, nel bisogno, all’ire
poi sciogli il freno. Osa, ubbidisci, e pensa
che un tuo dubbio pietoso
te perde e me, senza salvar lo sposo.
          Pensa che figlia sei;
     pensa che padre io sono;
     che i giorni miei, che il trono,
     che tutto io fido a te.
          Della funesta impresa
     l’idea non ti spaventi;
     e, se pietá risenti,
     sai che la devi a me. (parte)

SCENA III

Ipermestra sola, indi Linceo.

Ipermestra. Misera, che ascoltai! Son io? son desta?

sogno forse o vaneggio? Io nelle vene
del mio sposo innocente... (getta il pugnale)
  Ah! pria m’uccida
con un fulmine il ciel; pria sotto al piede
mi s’apra il suol... Ma... Che farò? Se parlo,
di Linceo la vendetta esser funesta
potrebbe al genitor: Linceo, se taccio,
lascio esposto del padre all’odio ascoso.
Oh comando! oh vendetta! oh padre! oh sposo!
E, quando giunga il prence,
come l’accoglierò? Con qual sembiante,
con quai voci potrei... Numi! in pensarlo
mi sento inorridir. Fuggasi altrove:

in solitaria parte

si nasconda il dolor che mi trasporta. (vuol partire)
Linceo. Principessa, mio nume!
Ipermestra.   (Aimè! son morta.)
Linceo. Giunse pur quel momento
che tanto sospirai! Chiamarti mia
posso pure una volta! Or sí che l’ire
tutte io sfido degli astri, o mio bel sole.
Ipermestra. (Oh Dio! non so partire,
non so restar, non so formar parole.)
Linceo. Ma perché, principessa, in te non trovo
quel contento ch’io provo? Altrove i lumi
tu rivolgi inquieta e sfuggi i miei?
Che avvenne? Non tacer.
Ipermestra.   (Consiglio, o dèi!)
Linceo. Questa felice aurora
bramasti tanto, e tanti voti a tanti
numi per lei facesti: or spunta alfine,
e sí mesta ne sei? Cangiasti affetto?
Dell’amor di Linceo stanco è il tuo core?
Ipermestra.   Ah, non parlar d’amore!
     Sappi... (Che fo?) Dovrei...
     Fuggi dagli occhi miei:
     ah! tu mi fai tremar.
          Fuggi, ché s’io t’ascolto,
     ché s’io ti miro in volto,
     mi sento in ogni vena
     il sangue, oh Dio! gelar. (parte)

SCENA IV

Linceo solo, poi Elpinice e Plistene, l’un dopo l’altro.

Linceo. Questi son gl’imenei! son d’una sposa

questi i dolci trasporti! in questa guisa
Ipermestra m’accoglie! Onde quel pianto?

quell’affanno perché? Di qualche fallo

mi crede reo? qualche rival nascosto
di maligno velen sparse a mio danno
forse quel cor? Ma chi ardirebbe... Ah! questo
vindice acciar nell’empie vene... Oh vano,
oh inutile furore! Il colpo io sento,
che l’alma mi divide;
ma non so chi m’insidia o chi m’uccide.
Elpinice. Fortunato Linceo, contenta a segno
son io de’ tuoi contenti...
Linceo.   Ah! principessa,
l’anima mi trafiggi. Io de’ mortali,
io sono il piú infelice.
Elpinice. Tu! come?
Plistene.   In questo amplesso
un testimon ricevi
del giubilo sincero,
onde esulto per te. Tu godi, e parmi...
Linceo. Amico, ah! per pietá, non tormentarmi.
Plistene. Perché?
Linceo.   Son disperato.
Elpinice.   Or che alla bella
Ipermestra t’accoppia un caro laccio,
disperato tu sei?
Linceo.   Mi scaccia, oh Dio!
Ipermestra da sé; vieta Ipermestra
ch’io le parli d’amor; non piú suo bene
Ipermestra m’appella:
Ipermestra cangiò, non è piú quella.
Plistene. Che dici?
Linceo.   Ah! se v’è noto
chi quel cor m’ha sedotto,
non mel tacete, amici. Io vuo’...
Elpinice.   T’inganni:
Ipermestra non ama
che il suo Linceo; lui solo attende...

Linceo.   E dunque

perché da sé mi scaccia?
perché fugge da me? cosí turbata
perché m’accoglie?
Plistene.   E la vedesti?
Linceo.   Or parte
da questo loco.
Eilpinice.   Ed Ipermestra istessa
sí turbata ti parla?
Linceo. Cosí morto foss’io pria d’ascoltarla!
          Di pena sí forte
     m’opprime l’eccesso:
     le smanie di morte
     mi sento nel sen.
          Non spero piú pace,
     la vita mi spiace:
     ho in odio me stesso,
     se m’odia il mio ben. (parte)

SCENA V

Elpinice e Plistene.

Elpinice. Plistene, ah! che sará? Come in un punto

Ipermestra cangiossi?
Plistene.   Io nulla intendo:
non so che immaginar.
Elpinice.   Questo mancava
novello inciampo al nostro amor. Turbati
gl’imenei d’Ipermestra, ancor le nostre
speranze ecco deluse. Ah! questa è troppo
crudel fatalitá. Sotto qual mai
astro nemico io nacqui? Anche nel porto
per me vi son tempeste.
Plistene.   In queste care
intolleranze tue, bella Elpinice,

perdona, io mi consolo: esse una prova

son del vero amor tuo. Questa sventura
mi priva della man qualche momento;
ma del cor m’assicura, e son contento.
Elpinice. Sí dolorose prove
dar non vorrei dell’amor mio. Di queste
tu ancor ti stancherai.
Plistene.   No, non si trova
pena che all’alma mia
per sí degna cagion dolce non sia.
Elpinice. So che fido sei tu, ma so che troppo
sventurata son io.
Plistene.   Deh! non conviene
disperar cosí presto. Esser potrebbe
questo, che ci minaccia,
un nembo passeggier. Chi sa? Talora
un male inteso accento
stravaganze produce. Almen si sappia
la cagion che ci affligge, ed avrem poi
assai tempo a dolerci.
Elpinice.   È ver. L’amico
a raggiunger tu corri: io d’Ipermestra
volo i sensi a spiar. Secondi Amore
le cure nostre. Il tuo parlar m’inspira
e fermezza e coraggio. Io non so quale
arbitrio hai tu sopra gli affetti. Oppressa
ero giá dal timor; funesto e nero
pareami il ciel: tu vuoi che speri, e spero.
          Solo effetto era d’amore
     quel timor che avea nel petto;
     e d’amore è solo effetto
     or la speme del mio cor.
          Han tal forza i detti tuoi,
     che, se vuoi, — prende sembianza
     di timor la mia speranza,
     di speranza il mio timor. (parte)

SCENA VI

Plistene solo.

Se di toglier procuro all’idol mio

la pena di temer, quante ragioni
onde sperar mi suggerisce Amore?
Se il timido mio core
d’assicurar procuro,
quanti allor, quanti rischi io mi figuro!
          Ma rendi pur contento
     della mia bella il core,
     e ti perdono, Amore,
     se lieto il mio non è.
          Gli affanni suoi pavento
     piú che gli affanni miei,
     perché piú vivo in lei
     di quel ch’io viva in me. (parte)

SCENA VII

Logge interne nella reggia d’Argo. Veduta da un lato di vastissima campagna, irrigata dal fiume Inaco; e dall’altro di maestose ruine d’antiche fabbriche.

Danao e Adrasto da diverse parti.

Adrasto. Ah! signor, siam perduti. Il tuo segreto

forse è noto a Linceo.
Danao.   Stelle! Ipermestra
m’avrebbe mai tradito! Onde in te nasce
questo timor? Vedesti il prence?
Adrasto.   Il vidi.

Danao. Ti parlò?

Adrasto.   Lo volea: molto propose,
piú volte incominciò: ma un senso intero
mai compir non poté. Torbido, acceso,
inquieto, confuso,
sospirava e fremea. Vidi che a forza
sugli occhi trattenea lagrime incerte
fra l’ira e fra l’amor. Senza spiegarsi
lasciommi alfine; e mi riempie ancora,
l’idea di quell’aspetto,
di pietá, di spavento e di sospetto.
Danao. Ah! non tei dissi, Adrasto? Era Elpinice
migliore esecutrice
de’ cenni miei.
Adrasto.   Di fedeltá mi parve
che assai ceder dovesse
la nipote alla figlia.
Danao.   A figlia amante
troppo fidai. Ma, se tradí l’ingrata
l’arcano mio. mi pagherá...
Adrasto.   Per ora
l’ire sospendi, e pensa
alla tua sicurezza. È delle squadre
Linceo l’amor: tutto ei potrebbe.
Danao.   Ah! corri,
va’; di lui t’assicura, e fa’... Ma temo
che a suo favor... Meglio sará... No; troppo
il colpo ha di periglio. Io mi confondo.
Deh! consigliami, Adrasto.
Adrasto.   Or nella reggia
farò che de’ custodi
il numero s’accresca. Al prence intorno
disporrò cautamente
chi ne osservi ogni moto, e i suoi pensieri
chi scopra e i detti suoi. Da quel ch’ei tenta
prendiam consiglio, e ad un rimedio estremo

senza ragion non ricorriam; ché spesso

l’immaturo riparo
sollecita un periglio.
Danao. (l’abbraccia)  Oh saggio, oh vero
sostegno del mio trono!
Va’: tutto alla tua fede io m’abbandono.
Adrasto.   Piú temer non posso ormai
     quel destin che ci minaccia:
     il coraggio io ritrovai
     fra le braccia — del mio re.
          Giá ripieno è il mio pensiero
     di valore e di consiglio:
     par leggiero — ogni periglio
     all’ardor della mia fé. (parte)

SCENA VIII

Danao, poi Ipermestra.

Danao. Giunse Linceo dal campo, e a me finora

non comparisce innanzi! Ah! troppo è chiaro
che la figlia parlò. Ma vien la figlia.
Placido mi ritrovi; e lo spavento
non le insegni a tacer.
Ipermestra.   Posso, o signore,
sperar che i prieghi miei
m’ottengano da te che pochi istanti
senza sdegno m’ascolti?
Danao.   E quando mai
d’ascoltarti negai? Teco io non uso
sí rigidi costumi:
parla a tua voglia.
Ipermestra.   (Or m’assistete, o numi.)
Danao. (Mi scoprí: vuol perdono.)
Ipermestra. Ebbi la vita in dono,

padre, da te: me ne rammento. E questo

è degli obblighi miei forse il minore:
tu mi donasti un core,
che, per non farsi reo,
è capace...
Danao.   T’accheta: ecco Linceo.
Ipermestra. Deh! permetti ch’io fugga
l’incontro suo.
Danao.   No; giá ti vide, e troppo
il fuggirlo è sospetto: il passo arresta,
seconda i detti miei.
Ipermestra.   (Che angustia è questa!)

SCENA IX

Linceo e detti.

Danao. Ad un sí dolce invito (a Linceo)

vien sí pigro Linceo? Tanto s’affretta
a meritar mercede,
sí poco a conseguirla.
Linceo.   I miei sudori,
le cure mie, la servitú costante,
tutto il sangue, ch’io sparsi
sotto i vessilli tuoi, della mercede,
signor, ch’oggi mi dai, degni non sono:
sol corrisponde al donatore il dono.
Danao. (Doppio parlar!)
Linceo.   (Par che mirarmi, oh Dio!
sdegni Ipermestra.)
Ipermestra.   (Ah, che tormento è il mio!)
Danao. Io sperai di vederti
oggi piú lieto, o prence.
Linceo.   Anch’io sperai...
ma... poi...

Danao.   Perché sospiri?

Qual disastro t’affligge?
Linceo. Nol so.
Danao.   Come! nol sai?
Linceo.   Signor...
Danao.   Palesa
l’affanno tuo: voglio saper qual sia.
Linceo. Ipermestra può dirlo in vece mia.
Ipermestra. Ma concedi ch’io parta. (a Danao)
Danao. No, tempo è di parlar. Dirmi tu dèi
quel che tace Linceo.
Ipermestra. (impaziente)  Ma... padre...
Danao.   Ah! veggo
quanto poco degg’io
da una figlia sperar. Conosco, ingrata...
Linceo. Ah! non sdegnarti seco,
signor, per me: non merita Linceo
d’Ipermestra il dolor. Da sé mi scacci,
sdegni gli affetti miei, m’odii, mi fugga,
mi riduca a morir: tutto per lei,
tutto voglio soffrir; ma non mi sento
per vederla oltraggiar forze bastanti.
Ipermestra. (Che fido amor! che sfortunati amanti!)
Danao. Il dubitar che possa
Ipermestra sdegnar gli affetti tuoi,
prence, è folle pensiero:
non crederlo.
Linceo.   Ah, mio re, pur troppo è vero!
Danao. Non so veder per qual ragion dovrebbe
cangiar cosí.
Linceo.   Pur si cangiò.
Danao.   Ne sai
tu la cagion?
Linceo.   Volesse il ciel! Mi scaccia
senza dirmi perché: questo è l’affanno
ond’io gemo, ond’io smanio, ond’io deliro.

Ipermestra. (Mi fa pietá.)

Danao.   (Nulla ei scoprí: respiro.)
Linceo. Deh! principessa amata,
se veder non mi vuoi
disperato morir, dimmi qual sia
almen la colpa mia.
Ipermestra.   (Potessi in parte
consolar l’infelice.)
Danao.   (In lei pavento
il troppo amor.)
Linceo.   Bella mia fiamma, ascolta.
Giuro a tutti gli dèi,
lo giuro a te, che sei
il mio nume maggior, nulla io commisi,
colpa io non ho. Se volontario errai,
voglio sugli occhi tuoi
con questo istesso acciar, con questa destra
voglio passarmi il cor.
Ipermestra. (a Linceo)  Prence...
Danao. (temendo che parli)  Ipermestra!
Ipermestra. Oh Dio!
Linceo.   Parla.
Danao.   Rammenta
il tuo dover.
Ipermestra.   (Che crudeltá! Non posso
né parlar né tacer.)
Linceo.   Né m’è concesso
di saper, mia speranza...
Ipermestra. Ma qual è la costanza, (con impeto)
che durar possa a questi assalti? Alfine
non ho di sasso il petto; e, s’io l’avessi,
al dolor che m’accora,
giá sarebbe spezzato un sasso ancora.
E che vi feci, o dèi? perché a mio danno
insolite inventate
sorte di pene? Ha il suo confin prescritto

la virtú de’ mortali. Astri tiranni,

o datemi piú forza, o meno affanni!
Danao. Che smania intempestiva!
Linceo. Qual ignoto dolor, bella mia face?...
Ipermestra. Ah! lasciatemi in pace;
ah! da me che volete?
Io mi sento morir: voi m’uccidete.
          Se pietá da voi non trovo
     al tiranno affanno mio,
     dove mai cercar poss’io,
     da chi mai sperar pietá?
          Ah! per me, dell’empie sfere
     al tenor barbaro e nuovo,
     ogni tenero dovere
     si converte in crudeltá. (parte)

SCENA X

Linceo e Danao.

Linceo. Io mi perdo, o mio re. Quei detti oscuri,

quel pianto, quel dolor...
Danao.   Non ti sgomenti
d’una donzella il pianto. Esse son meste
spesso senza cagion; ma tornan spesso
senza cagione a serenarsi.
Linceo.   Ah! parmi
ch’abbia salde radici
d’Ipermestra il dolor; né facilmente
si sana il duol d’una ferita ascosa.
Danao. Io ne prendo la cura: in me riposa. (parte)
Linceo. No, che torni sí presto
a serenarsi il ciel l’alma non spera:
la nube, che l’ingombra, è troppo nera.

          Io non pretendo, o stelle,

     il solito splendor:
     mi basta in tanto orror
     qualche baleno;
          che, se le mie procelle
     non giunge a tranquillar,
     quai scogli ha questo mar
     mi mostri almeno.

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