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ATTO SECONDO
SCENA I
Di nuovo parte del giardino reale, con fontane rustiche da’ lati e boschetto sacro a Diana nel mezzo. Notte.
Eurinome e Learco in disparte.
qualche oggetto funesto,
che rinfaccia a quest’alma i suoi furori.
Voi, solitari orrori,
da’ seguaci rimorsi
difendete il mio cor. Ditemi voi
che per me piú non erra invendicata
l’ombra del figlio mio; che piú di Lete
non sospira il tragitto,
e che val la sua pace il mio delitto.
Learco. (Ecco Issipile. Ardire!) (esce dal bosco)
Eurinome. Alcun s’appressa.
Numi! chi giunge mai?
Learco. Cara! (prende per la mano Eurinome, credendola Issipile)
Eurinome. Chi sei? Qual voce!
(scostandosi da Learco, spaventata)
Learco. (Ah! m’ingannai. )
(torna nel bosco)
Eurinome. Misera me! Qual gelo
per le vene mi scorre! È di Learco
quella voce che intesi. Ah! dove sei?
Non celarti al mio sguardo.
Parla: che vuoi? Perché mi giri intorno?
Ombra diletta
del caro figlio esangue,
non chiedermi vendetta:
l’avesti giá da me.
Qual pace mai
e qual riposo avrai,
se non ti basta il sangue
che si versò per te?
(va agitata per la scena, cercando il figlio)
SCENA II
Issipile frettolosa e detta.
esser Rodope giunta. Eccola.
(s’incontra in Eurinome, e la crede Rodope)
Amica,
vola a Giasone. Digli
che vive il re; che seco
ora al porto verrò. Senti. Potrebbe
Giason co’ suoi seguaci
all’incontro venirne, e ’l nostro scampo
assicurar cosí. (va verso il bosco)
Eurinome. Qual trama ignota
la fortuna mi scopre! Intendo, o figlio,
perché intorno mi giri. Io dunque invano
scellerata sarò? Vivrá il tiranno?
Ah! non fia ver; ché tutto
io perderei della mia colpa il frutto. (parte furiosa)
SCENA III
Issipile e Learco.
l’amato genitore. Al primo arrivo,
l’ombra, il timor, l’impaziente brama
i miei passi confuse. Or non m’inganno.
Padre, signor, t’affretta.
Learco. (uscendo dal bosco) (È pur la voce
questa dell’idol mio. Coraggio! Oh dèi!
palpita il cor mentre m’appresso a lei.)
Issipile. Vieni. Dove t’aggiri? I passi ascolto,
e trovarti non so. Fra questo orrore
forse... Pur t’incontrai.
(incontra Learco, e lo prende per mano)
Learco. (M’assisti, Amore!)
Issipile. Tu tremi, o padre? Ah! non temer. Giasone
ci assicura la fuga. Ei, non ha molto,
giunse al porto di Lenno.
Learco. (Aimè, che ascolto!)
Issipile. Giá da lungi rimiro
lo splendor delle faci...
Learco. (Io son perduto.)
Issipile. ...e d’ascoltar giá parmi
le voci del mio ben.
Learco. (Torno a celarmi.)
(torna al bosco)
Issipile. Dove vai? Perché fuggi? Oh, come mai
gli animi piú virili
la sventura avvilisce!
SCENA IV
Eurinome, e seco baccanti ed amazzoni con faci accese ed armi, e detti.
compagne, il bosco intorno, ed ogni uscita
del giardino reale.
Issipile. (Ah! fu presago
di Toante il timor.)
Eurinome. Scoperta sei.
Palesa il padre.
Issipile. (Ah, m’assistete, oh dèi!)
Mi si chiede un estinto?
Eurinome. Eh! di menzogne
or piú tempo non è. V’è chi t’intese
chiamarlo a nome e ragionar con lui.
Issipile. Pur troppo è ver. L’immagine funesta
sempre mi sta sugli occhi; in ogni loco
segue la fuga mia; mi chiama ingrata,
mi sgrida, mi rinfaccia
che vide per mia colpa il giorno estremo.
Eurinome. (Io gelo, e so che finge.)
Issipile. (Io fingo e tremo.)
Eurinome. Eh! gl’inganni son vani.
Issipile. Oh Dio! Nol vedi,
Eurinome, tu stessa? Osserva il ciglio
tumido di furor, molle del pianto,
che s’esprime dal cor quando s’adira.
Il bianco crin rimira,
che, di tiepido sangue ancor stillante,
gli ricade sul volto. Odi gli accenti;
vedi gli atti sdegnosi. Ombra infelice,
son punita abbastanza. Ascondi, ascondi
la face, oh Dio! caliginosa e nera,
e i flagelli d’Aletto e di Megera.
pietá per te.
Issipile. (Si commovesse almeno!)
Eurinome. L’orror di queste piante
è di larve importune infausto nido:
ardetele, o compagne. In un istante
vada in cenere il bosco.
Issipile. Ah, no! fermate.
Alla dea delle selve
sacre son quelle piante.
Eurinome. Eh! non si ascolti.
Issipile. Dunque neppur gli dèi dal tuo furore,
empia! saran sicuri? Il reo comando
vi sará chi eseguisca?
Eurinome. Incauta, oh come
tradisci il tuo segreto! Ecco la selva
dove ascoso è Toante. Andate, amiche:
traetelo al supplizio.
(entrano le amazzoni nel bosco di Diana)
Issipile. Aimè! Sentite.
Misera! che farò? Numi del cielo,
Eurinome, pietá!
Eurinome. Del figlio mio
non l’ebbe il padre tuo.
Issipile. Se tanto sei
avida di vendetta, aprimi il seno;
feriscimi per lui. Supplice, umile
eccomi a’ piedi tuoi. (s’inginocchia)
Eurinome. (Sento a quel pianto
lo sdegno intiepidir.)
Issipile. Plácati, o cambia
oggetto al tuo furor. Per quanto accoglie
di piú sacro per noi la terra e il cielo,
per le ceneri istesse
del tuo caro Learco...
Eurinome. Ah! questo nome
e mora di mia man. Non son contenta
finché del sangue suo fatto vermiglio
questo acciaro non veggo.
Eurinome. Ah, figlio!
Issipile. Che avvenne! Io son di sasso. (s’alza)
SCENA V
Rodope e detti.
Come salvarlo mai? Finger conviene.)
Eurinome. Sei pur tu? Son pur io?
Learco. Cosí nol fossi,
per soverchia pietá madre crudele!
Eurinome. Misera me! T’uccido
dunque per vendicarti? Ah! torni in vita
per farmi rea della tua morte. Oh quanto,
quanto, figlio, mi costa
di questi amari amplessi
l’inumano piacer!
Rodope. Compagne, il reo
ad un tronco s’annodi, e segno sia
alle nostre saette.
(le amazzoni legano Learco ad un tronco)
Eurinome. Ah, no! crudeli...
Rodope. Eurinome si tragga
a forza altrove, onde non turbi l’opra
il materno dolor.
Issipile. Misera madre!
Eurinome. Pietá, Rodope!
l’istesse leggi tue porre in obblio?
Eurinome. Issipile, pietá!
Issipile. Che far poss’io?
Rodope. S’affretti la sua morte,
se il partir differisce anche un momento.
Eurinome. Oh tormento maggior d’ogni tormento!
Ah! che, nel dirti addio,
mi sento il cor dividere,
parte del sangue mio,
viscere del mio sen.
Soffri da chi t’uccide,
soffri gli estremi amplessi.
Cosí morir potessi
nelle tue braccia almen!
(parte, ma restano le baccanti e le amazzoni)
SCENA VI
Issipile, Rodope, Learco.
i funesti trofei di tua bellezza,
Issipile crudele. Al duro passo
giungo per troppo amarti.
Issipile. Il fabbro sei
tu della tua sventura.
Learco. Era giá scritta
ne’ volumi del Fato allor ch’io nacqui.
Issipile. Infelice momento in cui ti piacqui!
Nell’istante sfortunato
ch’a’ tuoi sguardi io parvi bella,
lo splendor d’iniqua stella
funestava i rai del ciel.
D’un amor sí disperato
l’odio stesso è men crudel. (parte)
SCENA VII
Rodope e Learco.
a Nemesi men grata
la vittima sará: pubblico sia,
e sia solenne il sacrifizio. Andate:
in faccia al popol tutto
l’ara s’innalzi, e se le aduni intorno
la schiera vincitrice. Io resto intanto
in custodia del reo. (partono le baccanti e le amazzoni)
Learco. Cosí tiranna
Rodope non credei.
Rodope. Conosci, ingrato,
meglio la mia pietá. Finsi rigore,
per deluder l’insano
femminile furor.
Learco. Se dici il vero,
disponi del cor mio.
Rodope. Da te non bramo
un pattuito amor.
Learco. Forse non credi
i miei detti veraci?
Giuro agli dèi...
Rodope. Taci, Learco, taci.
Non voglio che ’l mio dono
ti costi uno spergiuro. Ecco: ti rendo
e libertade e vita. (lo scioglie)
Learco. Ma della tua pietá qual premio avrai?
Rodope. Giá premiata son io, ma tu nol sai.
Tu non sai che bel contento
sia quel dire: — Offesa sono:
lo rammento, — ti perdono,
e mi posso vendicar; —
l’offensor vermiglio in volto,
che, pensando al suo delitto,
non ardisce favellar. (parte)
SCENA VIII
Learco solo.
se destar non ti sai, perché ti scuoti,
languida mia virtú? Che vuoi con questi
rimorsi inefficaci? O regna o servi.
Io non ti voglio in seno
che vinta affatto o vincitrice appieno.
Affetti, non turbate
la pace all’alma mia;
sia vostra scelta o sia
l’oprar necessitá.
Perché rei vi credete,
se liberi non siete?
Perché non vi cangiate,
se avete libertá? (parte)
SCENA IX
Campagna a vista del mare, sparsa di tende militari. Sole che spunta.
Giasone solo.
confuso, ravvolto,
risolver non osi,
mio povero cor.
detesti quell’alma,
e perdi la calma
fra l’odio e l’amor.
E sará ver che tanto
inganni un volto? Oh delle fiere istesse
Issipile piú fiera! Ai boschi ircani
accresceresti un nuovo
pregio di crudeltá. Lá non s’annida
tigre sí rea, che il genitore uccida.
E fra me la difendo! e invento ancora
scuse alla mia dimora! Il proprio inganno
confessar non vorresti,
orgoglioso mio cor. Degna d’amore
giudicasti costei,
e ancor difendi il tuo giudizio in lei.
Ma nasce il giorno: e voi, (siede sopra un sasso)
stanchi di vaneggiar, vegliate ancora,
languidi spirti miei: però vi sento
con tumulto piú lento
confondervi nel sen. S’aggrava il ciglio,
e le fiere vicende
de’ molesti pensier l’alma sospende. (s’addormenta)
SCENA X
Giasone che dorme, e poi Learco.
malvagio io fui. Di variar costume,
dopo tanti perigli,
ormai tempo saria. Son stanco alfine
di tremar sempre al precipizio appresso,
d’ammirar gli altri e d’abborrir me stesso.
Ma che veggo! Il rivale
dorme colá. Felice te! Nascesti
la bella mia nemica: io disperato
pianger dovrò. Fra gli amorosi amplessi
tu riderai di me: né poca parte
fia delle gioie tue la mia sventura.
Oh immagine crudele,
che mi lacera il cor! No, non si lasci
la vita a chi m’uccide. (impugna uno stile)
Mori!... (vuol ferirlo e si pente) Che fo? Son questi
que’ sensi generosi, onde poc’anzi
riprendeva me stesso? (resta pensoso)
SCENA XI
Issipile, Learco, Giasone che dorme.
dove mai troverò? Forse... Learco!
Perché stringe quel ferro?
Learco. (fra sé) Ignota al mondo
sará questa virtú. S’io non l’uccido,
perdo la mia vendetta,
né gloria acquisto. Eh! mi sarebbe un giorno
tormentosa memoria
questa pietá, che inopportuna usai.
Si vibri il colpo! (s’incammina in atto di ferire)
Issipile. Ah, traditor, che fai!
(trattenendogli il braccio)
Learco. Lasciami.
Issipile. Non sperarlo.
Learco. Il ferro io cedo,
se meco vieni.
Issipile. Un fulmine di Giove
m’incenerisca pria.
Learco. Dunque per lui
non aspettar pietá. (tenta liberare il braccio)
lo sposo, e sei perduto.
Learco. Ah, taci! Io parto.
Issipile. No. La man disarmata
m’abbandoni l’acciaro.
Learco. Eccolo, ingrata!
(Learco pensa un momento; e poi lascia lo stile in mano di Issipile)
Prence, tradito sei! (scuote Giasone e fugge)
Issipile. Ferma! (Giasone si sveglia; s’alza con impeto; e, nell’atto di voler snudar la spada, s’avvede d’Issipile, che tiene impugnato lo stile, e resta sorpreso)
SCENA XII
Giasone ed Issipile.
Issipii. Sposo!
Giasone. Ah! barbara donna,
io che ti feci mai? Di qual delitto
mi vorresti punir? L’averti amata
merita un gran castigo,
ma non da te. D’abitatori il mondo,
empia! spogliar vorresti,
perché al tuo fallo un testimon non resti.
Issipile. Può radunar la sorte
piú sventure per me! Signor, t’inganni:
io non venni a svenarti.
Giasone. E quell’acciaro,
e quel volto smarrito, e quella voce,
che tua non fu, che mi destò dal sonno,
non ti convince assai?
Issipile. Altri tentò svenarti: io ti salvai.
Giasone. Sí, veramente ho grandi
prove di tua pietá. Chi uccise un padre,
custodirá lo sposo.
Giasone. Ma se ’l tuo labbro...
Issipile. Il labbro
fu forzato a mentir.
Giasone. Se il re trafitto
nella reggia vid’io.
Issipile. Veder ti parve,
ma non vedesti il re.
Giasone. Dunque Toante
additami dov’è.
Issipile. Ne cerco invano.
Giasone. Perfida! e crederesti
cosí stolto Giasone? Anche il disprezzo
aggiungi al tradimento. Il tuo delitto
mi palesi tu stessa, ognun l’afferma,
testimonio io ne sono; ed or pretendi
innocente apparir? Mi desto, e trovo
te, confusa ed armata,
pronta a ferirmi; e assicurar mi vuoi
che per difesa mia mi vegli accanto?
Tessaglia non produce
gli abitatori suoi semplici tanto.
Issipile. Vedrai...
Giasone. Vidi abbastanza.
Issipile. Né vuoi...
Giasone. Né voglio udirti.
Issipile. E credi...
Giasone. E credo
che son reo, se t’ascolto.
Issipile. Dunque...
Giasone. Parti.
Issipile. E l’amore?
Giasone. Con rossor lo rammento.
Issipile. E sono...
Giasone. E sei
oggetto dí spavento agli occhi miei.
di quest’orride sponde, intendo, intendo:
l’innocenza è delitto. È poco il sangue
di cui miro vermiglio il suol natio:
saziatevi una volta; eccovi il mio. (vuol ferirsi)
Giasone. Férmati. (la trattiene)
Issipile. Che pretendi?
Chi la mia morte a trattener ti muove?
Giasone. Mori, se vuoi morir; ma mori altrove.
(le toglie e getta lo stile)
Issipile. Almen...
Giasone. Lasciami in pace.
Issipile. Ascoltami.
Giasone. Non voglio.
Issipile. Uccidimi.
Giasone. Non posso.
Issipile. Un sguardo solo.
Giasone. È delitto il mirarti.
Issipile. Idol mio, caro sposo.
Giasone. O parto, o parti.
Issipile. Parto, se vuoi cosí;
ma questa crudeltá
forse ti costerá
qualche sospiro.
Conoscerai l’error;
ma il tardo tuo dolor
ristoro non sará
del mio martíro. (parte)
SCENA XIII
Giasone, poi Toante.
Vi seducea quel pianto
durando anche un momento, affetti miei.
vadasi ornai. La lontananza estingua
un vergognoso amor.
Toante. Principe! amico!
Giasone. Signor! M’inganno, o sei
tu di Lenno il regnante?
Toante. Almen lo fui.
Giasone. Son fuor di me. Come risorgi? Estinto
nell’albergo real ti vidi io stesso:
o sognava in quel punto, o sogno adesso.
Toante. Vedesti un infelice
avvolto in regie spoglie; e quel sembiante,
poco dal mio diverso,
altri ingannò. Questa pietosa frode
Issipile inventò per mia difesa.
Giasone. Ah, di tutto innocente
dunque è la sposa mia! Toante, or ora
ritorno a te. (in atto di partire con fretta)
Toante. Perché mi lasci?
Giasone. Io voglio
raggiungere il mio ben. Saprai, saprai
quanto, ingiusto, l’offesi. (come sopra)
Toante. Odi: che fai?
Le femminili schiere,
cui l’evento felice orgoglio accresce,
scorron per ogni loco; e, se t’inoltri
cosí senza seguaci,
né il tuo sangue risparmi,
né difendi la sposa.
Giasone. All’armi! all’armi! (verso le tende)
Destatevi, sorgete,
seguitemi, o compagni!
Toante. A’ vostri passi
io servirò di scorta.
Giasone. Ah, no! Saresti
impaccio e non difesa. In mezzo all’ire,
troncate le dimore. (con impazienza e fretta)
Oh sposa! Oh amico! Oh tenerezze! Oh amore!
Io ti lascio; e questo addio
se sia l’ultimo non so.
Tornerò coll’idol mio,
o mai piú non tornerò.
(Giasone parte, seguito dagli argonauti, che, nel tempo dell’aria, si vedono uscir dalle tende e radunarsi)
SCENA XIV
Toante solo.
d’Issipile al periglio
placido spettator. L’amor di padre
alle tremule membra
vigore accrescerá. Forte diviene
ogni timida fiera
in difesa de’ figli: altrui minaccia,
depone il suo timore
e l’istessa viltá cangia in valore.
Tortora, che sorprende
chi le rapisce il nido,
di quell’ardir s’accende
che mai non ebbe in sen.
Col rostro e con l’artiglio,
se non difende il figlio,
l’insidiator molesta
con le querele almen.