< Istorie fiorentine
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Proemio


AL SANTISSIMO ET BEATISSIMO PADRE

SIGNOR NOSTRO

CLEMENTE VII.

LO UMIL SERVO

NICCOLÒ MACHIAVELLI.


P
Oichè da la Vostra Santità, Beatissimo e Santissimo Padre, sendo ancora in minore fortuna constituta, mi fu commesso ch’io scrivessi le cose fatte dal Popolo Fiorentino, io ho usata tutta quella diligenza et arte che mi è stata dalla natura e dalla isperienzia prestata, per sodisfarle. Ed essendo pervenuto scrivendo a quelli tempi, i quali per la morte del Magnifico Lorenzo de’ Medici fecero mutare forma alla Italia, e avendo le cose che di poi sono seguite, sendo più alte e maggiori, con più alto e maggiore spirito a descriversi, ho giudicato essere bene tutto quello che insino a quelli tempi ho descritto ridurlo in uno volume e alla Santissima V.B. presentarlo, acciò che Quella, in qualche parte, i frutti de’ semi Suoi e delle fatiche mie cominci a gustare. Leggendo adunque quelli, la V.S. Beatitudine vedrà in prima, poi che lo imperio romano cominciò in occidente a mancare della potenzia sua, con quante rovine e con quanti principj per più seculi, la Italia variò gli stati suoi; vedrà come il pontefice, i Viniziani, il regno di Napoli e ducato di Milano presono i primi gradi e imperii di quella provincia; vedrà come la Sua patria, levatasi per divisione dalla ubidienzia degli imperadori, infino che la si cominciò sotto l’ ombra della Casa Sua a governare, si mantenne divisa. E perchè dalla V.S. Beatitudine mi fu imposto particolarmente e comandato che io scrivessi in modo le cose fatte dai suoi Maggiori, che si vedesse che io fussi da ogni adulazione discosto; perchè quanto le piace di udire degli uomini le vere lodi, tanto le finte e con grazia descritte le dispiacciono; dubito assai nel descrivere la bontà di Giovanni, la sapienzia di Cosimo, la umanità di Piero e la magnificenzia e prudenza di Lorenzo, che non paja alla V.S. che abbia trapassati i comandamenti Suoi. Di che io mi scuso a quella e a qualunque simili descrizioni come poco fedeli dispiacessero. Perchè trovando io delle loro lode piene le memorie di coloro che in varii tempi le hanno descritte, mi conveniva, o quali io le trovavo descriverle, o come invido tacerle. E se sotto a quelle loro egregie opere era nascosa una ambizione alla utilità comune, come alcuni dicono, contraria, io che non ve la conosco non sono tenuto a scriverla; perchè in tutte le mie narrazioni io non ho mai voluto una disonesta opera con una onesta cagione ricoprire, nè una lodevole opera, come fatta a uno contrario fine, oscurare. Ma quanto io sia discosto dalle adulazioni si cognosce in tutte le parti della mia istoria, e massimamente nelle concioni e ne’ ragionamenti privati, così retti come obliqui, i quali, con le sentenze e con l’ordine, il decoro dello umore di quella persona che parla, sanza alcuno riservo, mantengono. Fuggo bene, in tutti i luoghi, i vocaboli odiosi come alla dignità e verità della istoria poco necessari. Non puote adunque alcuno che rettamente consideri gli scritti miei come adulatore riprendermi, massimamente veggendo come della memoria del padre di V.S. io non ne ho parlato molto; di che ne fu cagione la sua breve vita, nella quale egli non si potette fare conoscere, ne io con lo scrivere l’ho potuto illustrare. Nondimeno assai grandi e magnifiche furono le opere sue, avendo generato la S. V. la quale opera con tutte quelle de’ suoi maggiori di gran lunga contrappesa, e più secoli gli aggiugnerà di fama, che la malvagia sua fortuna non gli tolse anni di vita. Io mi sono pertanto ingegnato, Santissimo e Beatissimo Padre, in queste mie descrizioni, non maculando la verità, di soddisfare a ciascuno; e forse non avrò soddisfatto a persona. Ne quando questo fusse, me ne maraviglierei; perchè io giudico che sia impossibile senza offendere molti descrivere le cose de’ tempi suoi. Nondimeno io vengo allegro in campo, sperando che come io sono dalla umanità di V. B. onorato e nutrito, così sarò dalle armate legioni del suo santissimo giudicio ajutato e difeso, e con quello animo e confidenza che io ho scritto infino a ora, sarò per seguitare l’impresa mia, quando da me la vita non si scompagni, e la V. S. non mi abbandoni.


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