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Intra gli altri grandi e maravigliosi ordini delle republiche e principati antichi che in questi nostri tempi sono spenti era quello mediante il quale, di nuovo e d’ogni tempo, assai terre e città si edificavano; perché niuna cosa è tanto degna di uno ottimo principe e di una bene ordinata republica, né più utile ad una provincia, che lo edificare di nuovo terre dove gli uomini si possino, per commodità della difesa o della cultura, ridurre; il che quelli potevono facilmente fare, avendo in uso di mandare ne’ paesi o vinti o voti nuovi abitatori, i quali chiamavono colonie. Perché, oltre allo essere cagione questo ordine che nuove terre si edificassero, rendeva il paese vinto al vincitore più securo, e riempieva di abitatori i luoghi voti, e nelle provincie gli uomini bene distribuiti manteneva. Di che ne nasceva che, abitandosi in una provincia più commodamente, gli uomini più vi multiplicavano, ed erano nelle offese più pronti e nelle difese più sicuri. La quale consuetudine sendosi oggi per il malo uso delle republiche e de’ principi spenta, ne nasce la rovina e la debolezza delle provincie; perché questo ordine solo è quello che fa gli imperii più securi, e i paesi, come è detto, mantiene copiosamente abitati: la securtà nasce perché quella colonia la quale è posta da un principe in uno paese nuovamente occupato da lui è come una rocca e una guardia a tenere gli altri in fede; non si può, oltra di questo, una provincia mantenere abitata tutta, né perservare in quella gli abitatori bene distribuiti, senza questo ordine. Perché tutti i luoghi in essa non sono o generativi o sani; onde nasce che in questi abbondono gli uomini, negli altri mancano; e se non vi è modo a trargli donde gli abbondono, e porgli dove e’ mancano, quella provincia in poco tempo si guasta; perché una parte di quella diventa, per i pochi abitatori, diserta, un’altra, per i troppi, povera. E perché la natura non può a questo disordine supplire, è necessario supplisca la industria: perché i paesi male sani diventano sani per una moltitudine di uomini che ad un tratto gli occupi; i quali con la cultura sanifichino la terra e con i fuochi purghino l’aria, a che la natura non potrebbe mai provedere. Il che dimostra la città di Vinegia, posta in luogo paludoso e infermo: nondimeno i molti abitatori che ad un tratto vi concorsono lo renderono sano. Pisa ancora, per la malignità dell’aria, non fu mai di abitatori ripiena, se non quando Genova e le sue riviere furono dai Saraceni disfatte; il che fece che quelli uomini, cacciati da’ terreni patrii, ad un tratto in tanto numero vi concorsono, che feciono quella popolata e potente. Sendo mancato per tanto quello ordine del mandare le colonie, i paesi vinti si tengono con maggiore difficultà, e i paesi voti mai non si riempiano, e quelli troppo pieni non si alleggeriscono. Donde molte parti nel mondo, e massime in Italia, sono diventate, rispetto agli antichi tempi, diserte: e tutto è seguito e segue per non essere ne’ principi alcuno appetito di vera gloria, e nelle republiche alcuno ordine che meriti di essere lodato. Nelli antichi tempi, addunque, per virtù di queste colonie, o e’ nascevano spesso città di nuovo, o le già cominciate crescevano; delle quali fu la città di Firenze, la quale ebbe da Fiesole il principio e da le colonie lo augumento.
Egli è cosa verissima secondo che Dante e Giovanni Villani dimostrano che la città di Fiesole, sendo posta sopra la sommità del monte, per fare che i mercati suoi fussero più frequentati e dare più commodità a quegli che vi volessero con le loro mercanzie venire, aveva ordinato il luogo di quelli, non sopra il poggio, ma nel piano, intra le radice del monte e del fiume d’Arno. Questi mercati giudico io che fussero cagione delle prime edificazioni che in quelli luoghi si facessero, mossi i mercatanti da il volere avere ricetti commodi a ridurvi le mercanzie loro i quali con il tempo ferme edificazioni diventorono; e di poi, quando i Romani avendo vinti i Cartaginesi, renderono dalle guerre forestiere la Italia secura, in gran numero multiplicorono. Perché gli uomini non si mantengono mai nelle difficultà, se da una necessità non vi sono mantenuti; tale che, dove la paura delle guerre costrigne quelli ad abitare volentieri ne’ luoghi forti e aspri, cessata quella, chiamati dalla commodità, più volentieri ne’ luoghi domestici e facili abitano. La securtà adunque, la quale per la reputazione della romana republica nacque in Italia, potette fare crescere le abitazioni già nel modo detto incominciate, in tanto numero che in forma d’una terra si ridussero, la quale Villa Arnina fu da principio nominata. Sursono di poi in Roma le guerre civili, prima intra Mario e Silla, di poi intra Cesare e Pompeo, e apresso intra gli ammazzatori di Cesare e quelli che volevano la sua morte vendicare. Da Silla adunque in prima e di poi da quelli tre cittadini romani i quali dopo la vendetta fatta di Cesare si divisono l’imperio, furono mandate a Fiesole colonie; delle quali o tutte o parte posono le abitazioni loro nel piano, presso alla già cominciata terra; tale che, per questo augumento, si ridusse quello luogo tanto pieno di edifici e di uomini e di ogni altro ordine civile che si poteva numerare intra le città di Italia. Ma donde si derivasse il nome di Florenzia, ci sono varie opinioni: alcuni vogliono si chiamasse da Florino, uno de’ capi della colonia; alcuni non Florenzia, ma Fluenzia vogliono che la fusse nel principio detta, per essere posta propinqua al fluente d’Arno; e ne adducono testimone Plinio, che dice: - i Fluentini sono propinqui ad Arno fluente -. La qual cosa potrebbe essere falsa, perché Plinio nel testo suo dimostra dove i Fiorentini erano posti, non come si chiamavano; e quello vocabolo "Fluentini" conviene che sia corrotto, perché Frontino e Cornelio Tacito, che scrissono quasi che ne’ tempi di Plinio, gli chiamono Florenzia e Florentini; perché di già ne’ tempi di Tiberio secondo il costume delle altre città di Italia si governavano, e Cornelio referisce essere venuti oratori Florentini allo Imperadore, a pregare che l’acque delle Chiane non fussero sopra il paese loro sboccate; né è ragionevole che quella città, in un medesimo tempo, avesse duoi nomi. Credo per tanto che sempre fusse chiamata Florenzia, per qualunque cagione così si nominasse; e così, da qualunque cagione si avesse la origine, la nacque sotto lo Imperio romano, e ne’ tempi de’ primi imperadori cominciò dagli scrittori ad essere ricordata. E quando quello Imperio fu da’ barbari afflitto fu ancora Florenzia da Totila re degli Ostrogoti disfatta, e dopo 250 anni, di poi, da Carlo Magno riedificata. Dal qual tempo infino agli anni di Cristo 1215 visse sotto quella fortuna che vivevano quelli che comandavano ad Italia. Ne’ quali tempi prima signoreggiorono in quella i discesi di Carlo, di poi i Berengari, e in ultimo gli imperadori tedeschi, come nel nostro trattato universale dimostrammo. Né poterono in questi tempi i Florentini crescere, né operare alcuna cosa degna di memoria, per la potenza di quelli allo imperio de’ quali ubbidivano, nondimeno, nel 1010, il dì di santo Romolo giorno solenne a’ Fiesolani, presono e disfeciono Fiesole; il che feciono, o con il consenso degli imperadori, o in quel tempo che dalla morte dell’uno alla creazione dell’altro ciascuno più libero rimaneva. Ma poi che i pontefici presono più autorità in Italia, e gli imperadori tedeschi indebolirono, tutte le terre di quella provincia con minore reverenzia del principe si governarono; tanto che nel 1080, al tempo di Arrigo III, si ridusse la Italia intra quello e la Chiesa in manifesta divisione; la quale non ostante, i Fiorentini si mantennono infino al 1215 uniti, ubbidendo a’ vincitori, né cercando altro imperio che salvarsi. Ma come ne’ corpi nostri quanto più sono tarde le infirmità tanto più sono pericolose e mortali, così Florenzia, quanto la fu più tarda a seguitare le sette di Italia, tanto di poi fu più afflitta da quelle. La cagione della prima divisione è notissima, perché è da Dante e da molti altri scrittori celebrata; pure mi pare brevemente da raccontarla.
Erano in Florenzia, intra le altre famiglie, potentissime Buondelmonti e Uberti; apresso a queste erano gli Amidei e i Donati. Era nella famiglia de’ Donati una donna vedova e ricca, la quale aveva una figliuola di bellissimo aspetto. Aveva costei infra sé disegnato a messer Buondelmonte, cavaliere giovane e della famiglia de’ Buondelmonti capo, maritarla. Questo suo disegno, o per negligenzia, o per credere potere essere sempre a tempo, non aveva ancora scoperto a persona; quando il caso fece che a messer Buondelmonte si maritò una fanciulla degli Amidei; di che quella donna fu malissimo contenta. E sperando di potere, con la bellezza della figliuola, prima che quelle nozze si celebrassero, perturbarle, vedendo messer Buondelmonte, che solo veniva verso la sua casa, scese da basso, e dietro si condusse la figliuola, e nel passare quello, se gli fece incontra, dicendo: - Io mi rallegro veramente assai dello avere voi preso moglie, ancora che io vi avesse serbata questa mia figliuola, - e sospinta la porta, gliene fece vedere. Il cavaliere, veduta la bellezza della fanciulla, la quale era rara, e considerato il sangue e la dote non essere inferiore a quella di colei ch’egli aveva tolta, si accese in tanto ardore di averla, che, non pensando alla fede data, né alla ingiuria che faceva a romperla, né ai mali che dalla rotta fede gliene potevano incontrare, disse: - Poi che voi me la avete serbata, io sarei uno ingrato, sendo ancora a tempo, a rifiutarla; - e senza mettere tempo in mezzo celebrò le nozze. Questa cosa, come fu intesa, riempié di sdegno la famiglia degli Amidei e quella degli Uberti, i quali erano loro per parentado congiunti; e convenuti insieme con molti altri loro parenti, conclusono che questa ingiuria non si poteva sanza vergogna tollerare, né con altra vendetta che con la morte di messer Buondelmonte vendicare. E benché alcuni discorressero i mali che da quella potessero seguire, il Mosca Lamberti disse che chi pensava assai cose non ne concludeva mai alcuna, dicendo quella trita e nota sentenza: «Cosa fatta capo ha». Dettono pertanto il carico di questo omicidio al Mosca, a Stiatta Uberti, a Lambertuccio Amidei e a Oderigo Fifanti. Costoro, la mattina della Pasqua di Resurressione, si rinchiusono nelle case degli Amidei, poste intra il Ponte Vecchio e Santo Stefano; e passando messer Buondelmonte il fiume sopra uno caval bianco, pensando che fusse così facil cosa sdimenticare una ingiuria come rinunziare ad uno parentado, fu da loro a piè del ponte, sotto una statua di Marte, assaltato e morto. Questo omicidio divise tutta la città, e una parte si accostò a’ Buondelmonti, l’altra agli Uberti; e perché queste famiglie erano forti di case e di torri e di uomini, combatterono molti anni insieme sanza cacciare l’una l’altra; e le inimicizie loro, ancora che le non finissero per pace, si componevano per triegue; e per questa via, secondo i nuovi accidenti, ora si quietavano e ora si accendevano.
E stette Florenzia in questi travagli infino al tempo di Federigo II; il quale, per essere re di Napoli, potere contro alla Chiesa le forze sue accrescere si persuase; e per ridurre più ferma la potenza sua in Toscana, favorì gli Uberti e i loro seguaci; i quali, con il suo favore, cacciorono i Buondelmonti, e così la nostra città ancora, come tutta Italia più tempo era divisa, in Guelfi e Ghibellini si divise. Né mi pare superfluo fare memoria delle famiglie che l’una e l’altra setta seguirono. Quelli adunque che seguirono le parti guelfe furono: Buondelmonti, Nerli, Rossi, Frescobaldi, Mozzi, Bardi, Pulci, Gherardini, Foraboschi, Bagnesi, Guidalotti, Sacchetti, Manieri, Lucardesi, Chiaramontesi, Compiobbesi, Cavalcanti, Giandonati, Gianfigliazzi, Scali, Gualterotti, Importuni, Bostichi, Tornaquinci, Vecchietti, Tosinghi, Arrigucci, Agli, Sizi, Adimari, Visdomini, Donati, Pazzi, Della Bella, Ardinghi, Tedaldi, Cerchi. Per la parte ghibellina furono: Uberti, Mannegli, Ubriachi, Fifanti, Amidei, Infangati, Malespini, Scolari, Guidi, Galli, Cappiardi, Lamberti, Soldanieri, Cipriani, Toschi, Amieri, Palermini, Migliorelli, Pigli, Barucci, Cattani, Agolanti, Brunelleschi, Caponsacchi, Elisei, Abati, Tedaldini, Giuochi, Galigai. Oltra di questo all’una e all’altra parte di queste famiglie nobili si aggiunsono molte delle popolari; in modo che quasi tutta la città fu da questa divisione corrotta. I Guelfi adunque, cacciati, per le terre del Valdarno di sopra, dove avevano gran parte delle fortezze loro, si ridussero; e in quel modo potevano migliore contro alle forze delli nimici loro si difendevano. Ma venuto Federigo a morte, quegli che in Florenzia erano uomini di mezzo e avieno più credito con il popolo, pensorono che fusse più tosto da riunire la città, che, mantenendola divisa, rovinarla. Operorono adunque in modo che i Guelfi, deposte le ingiurie, tornorono, e i Ghibellini, deposto il sospetto, gli riceverono; ed essendo uniti, parve loro tempo da potere pigliare forma di vivere libero e ordine da potere difendersi, prima che il nuovo imperadore acquistasse le forze.
Divisono pertanto la città in sei parti, ed elessono dodici cittadini, duoi per sesto, che la governassero; i quali si chiamassero Anziani e ciascuno anno si variassero. E per levare via le cagioni delle inimicizie che dai giudicii nascano, providdono a duoi giudici forestieri, chiamato l’uno Capitano di popolo e l’altro Podestà, che le cause così civili come criminali intra i cittadini occorrenti giudicassero. E perché niuno ordine è stabile senza provedergli il difensore, constituirono nella città venti bandiere, e settantasei nel contado, sotto le quali scrissono tutta la gioventù e ordinorono che ciascuno fusse presto e armato sotto la sua bandiera, qualunque volta fusse o dal Capitano o dagli Anziani chiamato; e variorono in quelle i segni, secondo che variavano le armi, perché altra insegna portavano i balestrieri e altra i palvesari; e ciascuno anno, il giorno della Pentecoste, con grande pompa davano a nuovi uomini le insegne, e nuovi capi a tutto questo ordine assegnavano. E per dare maestà ai loro eserciti, e capo dove ciascuno, sendo nella zuffa spinto, avesse a rifuggire, e rifuggito potesse di nuovo contro al nimico far testa, uno carro grande, tirato da duoi buoi coperti di rosso sopra il quale era una insegna bianca e rossa, ordinorono. E quando e’ volevono trarre fuora lo esercito, in Mercato nuovo questo carro conducevono, e con solenne pompa ai capi del popolo lo consegnavano. Avevano ancora, per magnificenza delle loro imprese, una campana detta Martinella, la quale uno mese continuamente, prima che traessero fuora della città gli eserciti, sonava, acciò che il nimico avesse tempo alle difese: tanta virtù era allora in quegli uomini, e con tanta generosità di animo si governavano che dove oggi lo assaltare il nimico improvisto si reputa generoso atto e prudente, allora vituperoso e fallace si reputava. Questa campana ancora conducevono ne’ loro eserciti, mediante la quale le guardie e l’altre fazioni della guerra comandavano.
Con questi ordini militari e civili fondorono i Fiorentini la loro libertà. Né si potrebbe pensare quanto di autorità e forze in poco tempo Firenze si acquistasse; e non solamente capo di Toscana divenne, ma intra le prime città di Italia era numerata; e sarebbe a qualunque grandezza salita, se le spesse e nuove divisioni non la avessero afflitta. Vissono i Fiorentini sotto questo governo dieci anni, nel qual tempo sforzorono i Pistolesi, Aretini e Sanesi a fare lega con loro; e tornando con il campo da Siena, presono Volterra, disfeciono ancora alcune castella, e gli abitanti condussono in Firenze. Le quali imprese tutte si feciono per il consiglio de’ Guelfi, i quali molto più che i Ghibellini potevano, sì per essere questi odiati da il popolo per li loro superbi portamenti quando al tempo di Federigo governorono, si per essere la parte della Chiesa più che quella dello Imperadore amata; perché con lo aiuto della Chiesa speravono perservare la loro libertà, e sotto lo Imperadore temevano perderla. I Ghibellini per tanto veggendosi mancare della loro autorità, non potevono quietarsi, e solo aspettavano la occasione di ripigliare lo stato. La quale parve loro fusse venuta, quando viddono che Manfredi figliuolo di Federigo si era del regno di Napoli insignorito e aveva assai sbattuta la potenza della Chiesa. Secretamente adunque praticavano con quello di ripigliare la loro autorità; né posserono in modo governarsi, che le pratiche tenute da loro non fussero agli Anziani scoperte. Onde che quelli citorono gli Uberti, i quali, non solamente non ubbidirono, ma prese le armi, si fortificorono nelle case loro; di che il popolo sdegnato, si armò, e con lo aiuto de’ Guelfi gli sforzò ad abbandonare Firenze e andarne con tutta la parte ghibellina a Siena. Di quivi domandorono aiuto a Manfredi re di Napoli, e per industria di messer Farinata degli Uberti furono i Guelfi dalle genti di quel re, sopra il fiume della Arbia, con tanta strage rotti, che quegli i quali di quella rotta camparono, non a Firenze, giudicando la loro città perduta, ma a Lucca si rifuggirono.
Aveva Manfredi mandato a’ Ghibellini, per capo delle sue genti, il conte Giordano, uomo in quelli tempi nelle armi assai reputato. Costui, dopo la vittoria, se ne andò con i Ghibellini a Firenze, e quella città ridusse tutta alla ubbidienza di Manfredi, annullando i magistrati e ogni altro ordine per il quale apparisse alcuna forma della sua libertà. La quale ingiuria, con poca prudenza fatta, fu dallo universale con grande odio ricevuta; e di nimico ai Ghibellini diventò loro inimicissimo; donde al tutto ne nacque, con il tempo, la rovina loro. E avendo, per le necessità del Regno il conte Giordano a tornare a Napoli, lasciò in Firenze per regale vicario il conte Guido Novello, signore di Casentino. Fece costui uno concilio di Ghibellini ad Empoli, dove per ciascuno si concluse che, a volere mantenere potente la parte ghibellina in Toscana, era necessario disfare Firenze, sola atta per avere il popolo guelfo, a fare ripigliare le forze alle parti della Chiesa. A questa sì crudel sentenzia, data contra ad una sì nobile città, non fu cittadino né amico, eccetto che messer Farinata degli Uberti, che si opponesse, il quale apertamente e senza alcuno rispetto la difese, dicendo non avere con tanta fatica corsi tanti pericoli, se non per potere nella sua patria abitare; e che non era allora per non volere quello che già aveva cerco, né per rifiutare quello che dalla fortuna gli era stato dato; anzi per essere non minore nimico di coloro che disegnassero altrimenti, che si fusse stato ai Guelfi; e se di loro alcuno temeva della sua patria, la rovinasse, perché sperava, con quella virtù che ne aveva cacciati i Guelfi, difenderla. Era messer Farinata uomo di grande animo, eccellente nella guerra, capo de’ Ghibellini, e apresso a Manfredi assai stimato: la cui autorità pose fine a quello ragionamento; e pensorono altri modi a volersi lo stato perservare.
I Guelfi, i quali si erano fuggiti a Lucca, licenziati dai Lucchesi per le minacce del Conte, se ne andorono a Bologna. Di quivi furono dai Guelfi di Parma chiamati contro ai Ghibellini; dove, per la loro virtù superati gli avversarii, furno loro date tutte le loro possessioni; tanto che, cresciuti in ricchezze e in onore, sapiendo che papa Clemente aveva chiamato Carlo d’Angiò per torre il Regno a Manfredi, mandorono al Pontefice oratori ad offerirgli le loro forze. Di modo che il Papa, non solamente gli ricevé per amici, ma dette loro la sua insegna; la quale sempre di poi fu portata da’ Guelfi in guerra, ed è quella che ancora in Firenze si usa. Fu di poi Manfredi da Carlo spogliato del Regno, e morto; dove sendo intervenuti i Guelfi di Firenze, ne diventò la parte loro più gagliarda, e quella de’ Ghibellini più debole, donde che quelli che insieme col conte Guido Novello governavono Firenze giudicorono che fussi bene guadagnarsi con qualche benefizio quel popolo che prima avevano con ogni ingiuria aggravato; e quelli rimedi che, avendogli fatti prima che la necessità venisse, sarebbono giovati, facendogli di poi, sanza grado, non solamente non giovorono, ma affrettorono la rovina loro. Giudicorono per tanto farsi amico il popolo e loro partigiano, se gli rendevono parte di quelli onori e di quella autorità gli avevono tolta; ed elessono trentasei cittadini popolani, i quali, insieme con duoi cavalieri fatti venire da Bologna, riformassero lo stato della città. Costoro, come prima convennono, distinsono tutta la città in Arti, e sopra ciascuna Arte ordinorono uno magistrato il quale rendesse ragione a’ sottoposti a quelle; consegnorono, oltre di questo, a ciascuna una bandiera, acciò che sotto quella ogni uomo convenisse armato, quando la città ne avesse di bisogno. Furono nel principio queste Arti dodici, sette maggiori e cinque minori; di poi crebbono le minori infino in quattordici, tanto che tutte furono, come al presente sono, ventuna; praticando ancora i trentasei riformatori delle altre cose a benefizio comune.
Il conte Guido, per nutrire i soldati, ordinò di porre una taglia a’ cittadini; dove trovò tanta difficultà che non ardì di fare forza di ottenerla; e parendogli avere perduto lo stato, si ristrinse con i capi de’ Ghibellini; e deliberorono torre per forza al popolo quello che per poca prudenza gli avevono conceduto. E quando parve loro essere ad ordine con le armi, sendo insieme i trentasei, feciono levare il romore; onde che quelli, spaventati, si ritirorono alle loro case, e subito le bandiere delle Arti furono fuora con assai armati dietro; e intendendo come il conte Guido con la sua parte era a San Giovanni, feciono testa a Santa Trinita, e dierono la ubbidienza a messer Giovanni Soldanieri. Il Conte dall’altra parte, sentendo dove il popolo era, si mosse per ire a trovarlo; né il popolo ancora fuggì la zuffa; e fattosi incontro al nimico, dove è oggi la loggia de’ Tornaquinci si riscontrorono. Dove fu ributtato il Conte, con perdita e morte di più suoi, donde che, sbigottito temeva che la notte i nimici lo assalissero, e trovandosi i suoi battuti e inviliti, lo ammazzassero. E tanta fu in lui potente questa immaginazione, che, senza pensare ad altro rimedio, deliberò, più tosto fuggendo che combattendo, salvarsi; e contro al consiglio de’ Rettori e della Parte, con tutte le genti sue ne andò a Prato. Ma come prima per trovarsi in luogo sicuro, gli fuggì la paura, ricognobbe lo errore suo; e volendolo correggere, la mattina, venuto il giorno, tornò con le sue genti a Firenze, per rientrare in quella città per forza, che egli aveva per viltà abbandonata; ma non gli successe il disegno, perché quel popolo che con difficultà lo arebbe potuto cacciare, facilmente lo potette tenere fuora; tanto che, dolente e svergognato, se ne andò in Casentino; e i Ghibellini si ritirorono alle loro ville. Restato adunque il popolo vincitore, per conforto di coloro che amavano il bene della republica, si deliberò di riunire la città e richiamare tutti i cittadini, così ghibellini come guelfi, i quali si trovassero fuora. Tornorono adunque i Guelfi, sei anni dopo che gli erano stati cacciati, e a’ Ghibellini ancora fu perdonata la fresca ingiuria, e riposti nella patria loro. Non di meno da il popolo e dai Guelfi erano forte odiati, perché questi non potevono cancellare della memoria lo esilio, e quello si ricordava troppo della tirannide loro mentre che visse sotto il governo di quelli; il che faceva che né l’una né l’altra parte posava l’animo. Mentre che in questa forma in Firenze si viveva, si sparse fama che Curradino nipote di Manfredi, con gente, veniva della Magna allo acquisto di Napoli; donde che i Ghibellini si riempierono di speranza di potere ripigliare la loro autorità, e i Guelfi pensavano come si avessero ad assicurare delli loro nimici e chiesono al re Carlo aiuti per potere, passando Curradino, difendersi. Venendo per tanto le genti di Carlo, feciono diventare i Guelfi insolenti, e in modo sbigottirono i Ghibellini, che duoi giorni avanti allo arrivare loro, senza essere cacciati, si fuggirono.
Partiti i Ghibellini, riordinorono i Fiorentini lo stato della città; ed elessono dodici capi, i quali sedessero in magistrato duoi mesi, i quali non chiamorono Anziani, ma Buoni uomini; apresso a questi uno consiglio di ottanta cittadini, il quale chiamavano la Credenza; dopo questo erano cento ottanta popolani, trenta per sesto, i quali, con la Credenza e dodici Buoni uomini, si chiamavano il Consiglio generale. Ordinorono ancora un altro consiglio di cento venti cittadini, popolani e nobili, per il quale si dava perfezione a tutte le cose negli altri consigli deliberate; e con quello distribuivono gli uffici della repubblica. Fermato questo governo, fortificorono ancora la parte guelfa con magistrati e altri ordini, acciò che con maggiori forze si potessero dai Ghibellini difendere, i beni de’ quali in tre parti divisono, delle quali l’una publicorono, l’altra al magistrato della Parte, chiamato i Capitani, la terza a’ Guelfi, per ricompenso de’ danni ricevuti, assegnorono. Il Papa ancora, per mantenere la Toscana guelfa, fece il re Carlo vicario imperiale di Toscana. Mantenendo adunque i Fiorentini, per virtù di questo nuovo governo, dentro con le leggi e fuora con le armi, la reputazione loro, morì il Pontefice; e dopo una lunga disputa, passati duoi anni, fu eletto papa Gregorio X. Il quale, per essere stato lungo tempo in Sorìa, ed esservi ancora nel tempo della sua elezione, e discosto da gli umori delle parti, non stimava quelle nel modo che dagli suoi antecessori erano state stimate. E per ciò, sendo venuto in Firenze per andare in Francia, stimò che fusse ufficio di uno ottimo pastore riunire la città; e operò tanto che i Fiorentini furono contenti ricevere i sindachi de’ Ghibellini in Firenze per praticare il modo del ritorno loro; e benché lo accordo si concludesse, furono in modo i Ghibellini spaventati, che non vollono tornare. Di che il Papa dette la colpa alla città, e, sdegnato, scomunicò quella; nella quale contumacia stette quanto visse il Pontefice; ma dopo la sua morte fu da papa Innocenzio V ribenedetta. Era venuto il pontificato in Niccolò III, nato di casa Orsina; e perché i pontefici temevano sempre colui la cui potenzia era diventata grande in Italia, ancora che la fussi con i favori della Chiesa cresciuta, e perché ei cercavano di abbassarla, ne nascevano gli spessi tumulti e le spesse variazioni che in quella seguivono; perché la paura di uno potente faceva crescere uno debile; e cresciuto ch’egli era, temere, e temuto, cercare di abbassarlo: questo fece trarre il Regno di mano a Manfredi e concederlo a Carlo; questo fece di poi avere paura di lui, e cercare la rovina sua. Niccolao III per tanto, mosso da queste cagioni, operò tanto che a Carlo, per mezzo dello Imperadore, fu tolto il governo di Toscana, e in quella provincia mandò, sotto nome dello Imperio, messer Latino suo legato.
Era Firenze allora in assai mala condizione, perché la nobilità guelfa era diventata insolente e non temeva i magistrati; in modo che ciascuno dì si facevano assai omicidii e altre violenze, sanza essere puniti quegli che le commettevano, sendo da questo e quell’altro nobile favoriti. Pensorono per tanto i capi del popolo, per frenare questa insolenzia, che fusse bene rimettere i fuori usciti; il che dette occasione al Legato di riunire la città; e i Ghibellini tornorono. E in luogo de’ dodici governatori ne feciono quattordici, d’ogni parte sette, che governassero uno anno e avessero ad essere eletti dal papa. Stette Firenze in questo governo duoi anni, infino che venne al pontificato papa Martino, di nazione franzese, il quale restituì al re Carlo tutta quella autorità che da Niccola gli era stata tolta; talché subito risuscitorono in Toscana le parti, perché i Fiorentini presono l’armi contro al governatore dello Imperadore, e per privare del governo i Ghibellini e tenere i potenti in freno, ordinorono nuova forma di reggimento. Era l’anno 1282, e i corpi delle Arti, poi che fu dato loro i magistrati e le insegne, erano assai reputati; donde che quelli per la loro autorità ordinorono che, in luogo de’ quattordici, si creassero tre cittadini, che si chiamassero Priori, e stessero duoi mesi al governo della republica, e potessero essere popolani e grandi, purché fussero mercatanti o facessero arti. Ridussongli, dopo il primo magistrato, a sei, acciò che di qualunque sesto ne fusse uno, il quale numero si mantenne insino al 1342, che ridussono la città a quartieri e i Priori ad otto; non ostante che in quel mezzo di tempo alcuna volta, per qualche accidente, ne facessero dodici. Questo magistrato fu cagione, come con il tempo si vide, della rovina ne’ nobili, perché ne furono da il popolo per varii accidenti esclusi, e di poi sanza alcuno rispetto battuti; a che i nobili, nel principio, acconsentirono per non essere uniti, perché, desiderando troppo torre lo stato l’uno a l’altro, tutti lo perderono. Consegnorono a questo magistrato uno palagio, dove continuamente dimorasse, sendo prima consuetudine che i magistrati e i consigli per le chiese convenissero; e quello ancora con sergenti e altri ministri necessari onororono; e benché nel principio gli chiamassero solamente Priori, nondimeno di poi, per maggiore magnificenza, il nome de’ Signori gli aggiunsero. Stierono i Fiorentini dentro quieti alcun tempo; nel quale feciono la guerra con gli Aretini, per avere quegli cacciati i Guelfi, e in Campaldino felicemente gli vinsono. E crescendo la città di uomini e di ricchezze, parve ancora di accrescerla di mura, e le allargorono il suo cerchio in quel modo che al presente si vede, con ciò sia che prima il suo diametro fusse solamente quello spazio che contiene dal Ponte Vecchio infino a San Lorenzo.
Le guerre di fuora e la pace di dentro avevano come spente in Firenze le parti ghibelline e guelfe; restavano solamente accesi quelli umori i quali naturalmente sogliono essere in tutte le città intra i potenti e il popolo; perché, volendo il popolo vivere secondo le leggi, e i potenti comandare a quelle, non è possibile cappino insieme. Questo umore, mentre che i Ghibellini feciono loro paura, non si scoperse; ma come prima quelli furono domi, dimostrò la potenza sua; e ciascuno giorno qualche popolare era ingiuriato; e le leggi e i magistrati non bastavano a vendicarlo, perché ogni nobile, con i parenti e con gli amici, dalle forze de’ Priori e del Capitano si difendeva. I principi per tanto delle Arti, desiderosi di rimediare a questo inconveniente, provviddono che qualunche Signoria, nel principio dello uficio suo, dovesse creare uno Gonfaloniere di giustizia, uomo popolano, al quale dettono, scritti sotto venti bandiere, mille uomini; il quale, con il suo gonfalone e con gli armati suoi, fusse presto a favorire la giustizia, qualunque volta da loro o da il Capitano fusse chiamato. Il primo eletto fu Ubaldo Ruffoli. Costui trasse fuora il gonfalone, e disfece le case de’ Galletti, per avere uno di quella famiglia morto, in Francia, un popolano. Fu facile alle Arti fare questo ordine, per le gravi inimicizie che intra i nobili vegghiavano; i quali non prima pensorono al provedimento fatto contro di loro, che viddono la acerbità di quella esecuzione; il che dette loro da prima assai terrore: non di meno poco di poi si tornorono nella loro insolenzia; perché, sendone sempre alcuni di loro de’ Signori, avevano commodità di impedire il Gonfaloniere, che non potesse fare l’uficio suo. Oltra di questo, avendo bisogno lo accusatore di testimone quando riceveva alcuna offesa, non si trovava alcuno che contro a’ nobili volesse testimoniare; talché in breve tempo si tornò Firenze ne’ medesimi disordini, e il popolo riceveva dai Grandi le medesime ingiurie, perché i giudicii erano lenti e le sentenzie mancavano delle esecuzioni loro.
E non sapiendo i popolani che partiti si prendere, Giano della Bella di stirpe nobilissimo, ma della libertà della città amatore, dette animo ai capi delle Arti a riformare la città; e per suo consiglio si ordinò che il Gonfaloniere residesse con i Priori, e avesse quattromila uomini a sua ubbidienza; privoronsi ancora tutti i nobili di potere sedere de’ Signori; obligoronsi consorti del reo alla medesima pena che quello; fecesi che la publica fama bastasse a giudicare. Per queste leggi, le quali si chiamorono gli Ordinamenti della iustizia, acquistò il popolo assai reputazione, e Giano della Bella assai odio; perché era in malissimo concetto de’ potenti, come di loro potenza distruttore, e i popolani ricchi gli avevano invidia, perché pareva loro che la sua autorità fusse troppa; il che, come prima lo permisse la occasione, si dimostrò. Fece adunque la sorte che fu morto uno popolano in una zuffa dove più nobili intervennono, intra i quali fu messer Corso Donati; al quale, come più audace che gli altri, fu attribuita la colpa; e per ciò fu da il Capitano del popolo preso; e comunque la cosa si andasse, o che messer Corso non avesse errato, o che il Capitano temesse di condannarlo, e’ fu assoluto. La quale assoluzione tanto al popolo dispiacque, che prese le armi e corse a casa Giano della Bella a pregarlo dovesse essere operatore che si osservassero quelle leggi delle quali egli era stato inventore. Giano, che desiderava che messer Corso fusse punito, non fece posare l’armi, come molti giudicavano che dovesse fare, ma gli confortò ad ire a’ Signori a dolersi del caso e pregarli che dovessero provedervi. Il popolo per tanto, pieno di sdegno, parendogli essere offeso dal Capitano e da Giano abandonato, non a’ Signori, ma al palagio del Capitano itosene, quello prese e saccheggiò. Il quale atto dispiacque a tutti i cittadini; e quelli che amavano la rovina di Giano lo accusavano, attribuendo a lui tutta la colpa, di modo che, trovandosi intra gli Signori che di poi seguirono alcuno suo nimico, fu accusato al Capitano come sollevatore del popolo. E mentre che si praticava la causa sua, il popolo si armò, e corse alle sue case, offerendogli contro ai Signori e suoi nimici la difesa. Non volle Giano fare esperienza di questi populari favori, né commettere la vita sua a’ magistrati, perché temeva la malignità di questi e la instabilità di quelli; tale che, per torre occasione a’ nimici di ingiuriare lui, e agli amici di offendere la patria, deliberò di partirsi, e dare luogo alla invidia, e liberare i cittadini dal timore ch’eglino avevano di lui, e lasciare quella città la quale con suo carico e pericolo aveva libera dalla servitù de’ potenti, e si elesse voluntario esilio.
Dopo la costui partita, la nobilità salse in speranza di ricuperare la sua dignità; e giudicando il male suo essere dalle sue divisioni nato, si unirono i nobili insieme, e mandorono duoi di loro alla Signoria, la quale giudicavano in loro favore, a pregarla fusse contenta temperare in qualche parte la acerbità delle leggi contro a di loro fatte. La quale domanda, come fu scoperta, commosse gli animi de’ popolani, perché dubitavano che i Signori la concedessero loro; e così, tra il desiderio de’ nobili e il sospetto del popolo, si venne alle armi. I nobili feciono testa in tre luoghi: a San Giovanni, in Mercato Nuovo e alla piazza de’ Mozzi; e sotto tre capi: messer Forese Adimari, messer Vanni de’ Mozzi e messer Geri Spini; i popolani in grandissimo numero sotto le loro insegne al palagio de’ Signori convennono, i quali allora propinqui a San Brocolo abitavano. E perché il popolo aveva quella Signoria sospetta, deputò sei cittadini che con loro governassero. Mentre che l’una e l’altra parte alla zuffa si preparava, alcuni, così popolari come nobili, e con quelli certi religiosi di buona fama, si messono di mezzo per pacificarli, ricordando ai nobili che degli onori tolti e delle leggi contro a di loro fatte ne era stata cagione la loro superbia e il loro cattivo governo; e che lo avere prese ora l’armi, e rivolere con la forza quello che per la loro disunione e loro non buoni modi si erano lasciati torre, non era altro che volere rovinare la patria loro e le loro condizioni raggravare; e si ricordassero che il popolo, di numero, di ricchezze e di odio era molto a loro superiore, e che quella nobilità mediante la quale e’ pareva loro avanzare gli altri non combatteva, e riusciva, come e’ si veniva al ferro, uno nome vano, che contro a tanti a difenderli non bastava. Al popolo dall’altra parte ricordavano come e’ non era prudenzia volere sempre l’ultima vittoria, e come e’ non fu mai savio partito fare disperare gli uomini, perché chi non spera il bene non teme il male; e che dovevano pensare che la nobilità era quella la quale aveva nelle guerre quella città onorata, e però non era bene né giusta cosa con tanto odio perseguitarla; e come i nobili il non godere il loro supremo magistrato facilmente sopportavano, ma non potevano già sopportare che fusse in potere di ciascuno, mediante gli ordini fatti, cacciargli della patria loro; e però era bene mitigare quelli, e per questo benefizio fare posare le armi, né volessero tentare la fortuna della zuffa confidandosi nel numero, perché molte volte si era veduto gli assai dai pochi essere stati superati. Erano nel popolo i pareri diversi: molti volevono che si venissi alla zuffa, come a cosa che un giorno di necessità a venire vi si avesse; e però era meglio farlo allora, che aspettare che i nimici fussero più potenti; e se si credesse che rimanessero contenti mitigando le leggi, che sarebbe bene mitigarle; ma che la superbia loro era tanta che non poserieno mai, se non forzati. A molti altri, più savi e di più quieto animo, pareva che il temperare le leggi non importasse molto, e il venire alla zuffa importasse assai; di modo che la opinione loro prevalse; e providono che alle accuse de’ nobili fussero necessari i testimoni.
Posate le armi, rimase l’una e l’altra parte piena di sospetto, e ciascuna con torri e con armi si fortificava; e il popolo riordinò il governo, ristringendo quello in minore numero, mosso dallo essere stati quelli Signori favorevoli a’ nobili: del quale rimaseno principi Mancini, Magalotti, Altoviti, Peruzzi e Cerretani. Fermato lo stato, per maggiore magnificenzia e più sicurtà de’ Signori, l’anno 1298, fondorono il palagio loro; e feciongli piazza delle case che furono già degli Uberti. Comincioronsi ancora in quel medesimo tempo le publiche prigioni; i quali edifici in termine di pochi anni si fornirono. Né mai fu la città nostra in maggiore e più felice stato che in questi tempi, sendo di uomini, di ricchezze e di riputazione ripiena: i cittadini atti alle armi a trentamila, e quelli del suo contado a settantamila aggiugnevano; tutta la Toscana, parte come subietta, parte come amica, le ubbidiva; e benché intra i nobili e il popolo fusse alcuna indignazione e sospetto, non di meno non facevano alcuno maligno effetto, ma unitamente e in pace ciascuno si viveva. La quale pace, se dalle nuove inimicizie dentro non fusse stata turbata, di quelle di fuora non poteva dubitare; perché era la città in termine che la non temeva più lo Imperio né i suoi fuori usciti, e a tutti gli stati di Italia arebbe potuto con le sue forze rispondere. Quello male per tanto che dalle forze di fuora non gli poteva essere fatto, quelle di dentro gli feciono.
Erano in Firenze due famiglie, i Cerchi e i Donati, per ricchezza, nobilità e uomini potentissime. Intra loro, per essere in Firenze e nel contado vicine, era stato qualche disparere, non però si grave che si fusse venuto alle armi; e forse non arebbono fatti grandi effetti, se i maligni umori non fussero stati da nuove cagioni accresciuti. Era intra le prime famiglie di Pistoia quella de’ Cancellieri. Occorse che, giucando Lore di messer Guglielmo e Geri di messer Bertacca, tutti di quella famiglia, e venendo a parole, fu Geri da Lore leggermente ferito. Il caso dispiacque a messer Guglielmo; e pensando con la umanità di torre via lo scandolo, lo accrebbe; perché comandò al figliuolo che andasse a casa il padre del ferito e gli domandasse perdono. Ubbidì Lore al padre: nondimeno questo umano atto non addolcì in alcuna parte lo acerbo animo di messer Bertacca; e fatto prendere Lore dai suoi servidori, per maggiore dispregio sopra una mangiatoia gli fece tagliare la mano, dicendogli: - Torna a tuo padre, e digli che le ferite con il ferro e non con le parole si medicano -. La crudeltà di questo fatto dispiacque tanto a messer Guglielmo, che fece pigliare le armi ai suoi per vendicarlo; e messer Bertacca ancora si armò per difendersi; e non solamente quella famiglia, ma tutta la città di Pistoia si divise. E perché i Cancellieri erano discesi da messer Cancelliere, che aveva aute due mogli, delle quali l’una si chiamò Bianca, si nominò ancora l’una delle parti, per quelli che da lei erano discesi, "Bianca"; e l’altra, per torre nome contrario a quella, fu nominata "Nera". Seguirono infra costoro, in più tempo, di molte zuffe, con assai morte di uomini e rovina di case; e non potendo infra loro unirsi, stracchi nel male, e desiderosi o di porre fine alle discordie loro, o con la divisione d’altri accrescerle, ne vennono a Firenze, e i Neri, per avere famigliarità con i Donati, furono da messer Corso, capo di quella famiglia, favoriti; donde nacque che i Bianchi, per avere appoggio potente che contro ai Donati gli sostenesse, ricorsono a messer Veri de’ Cerchi, uomo per ciascuna qualità non punto a messer Corso inferiore.
Questo umore, da Pistoia venuto, lo antico odio intra i Cerchi e i Donati accrebbe, ed era già tanto manifesto che i Priori e gli altri buoni cittadini dubitavano ad ogni ora che non si venisse infra loro alle armi, e che da quelli, di poi, tutta la città si dividesse. E per ciò ricorsono al Pontefice, pregandolo che a questi umori mossi quello rimedio che per loro non vi potevono porre con la sua autorità vi ponesse. Mandò il Papa per messer Veri, e lo gravò a fare pace con i Donati; di che messer Veri mostrò maravigliarsi, dicendo non avere alcuna inimicizia con quelli; e perché la pace presuppone la guerra, non sapeva, non essendo intra loro guerra, perché fusse la pace necessaria. Tornato adunque messer Veri da Roma senza altra conclusione, crebbono in modo gli umori che ogni piccolo accidente, sì come avvenne, gli poteva fare traboccare. Era del mese di maggio; nel qual tempo, e ne’ giorni festivi, publicamente per Firenze si festeggia. Alcuni giovani, per tanto, de’ Donati, insieme con loro amici, a cavallo, a vedere ballare donne presso a Santa Trinita si fermorono; dove sopraggiunsono alcuni de’ Cerchi, ancora loro da molti nobili accompagnati; e non cognoscendo i Donati, che erano davanti, desiderosi ancora loro di vedere, spinsono i cavagli fra loro, e gli urtorono; donde i Donati, tenendosi offesi, strinsono le armi; a’ quali i Cerchi gagliardamente risposono; e dopo molte ferite date e ricevute da ciascuno, si spartirono. Questo disordine fu di molto male principio; perché tutta la città si divise, così quelli di popolo come i Grandi; e le parti presono il nome dai Bianchi e Neri. Erano capi della parte bianca i Cerchi, e a loro si accostorono gli Adimari, gli Abati, parte de’ Tosinghi, de’ Bardi, de’ Rossi, de’ Frescobaldi, de’ Nerli e de’ Mannelli, tutti i Mozzi, gli Scali, i Gherardini, i Cavalcanti, Malespini, Bostechi, Giandonati, Vecchietti e Arrigucci; a questi si aggiunsono molte famiglie populane, insieme con tutti i Ghibellini che erano in Firenze; tale che, per lo gran numero che gli seguivano, avevono quasi che tutto il governo della città. I Donati da l’altro canto, erano capi della parte nera, e con loro erano quella parte che delle sopranomate famiglie a’ Bianchi non si accostavano, e di più tutti i Pazzi, i Bisdomini, i Manieri, Bagnesi, Tornaquinci, Spini, Buondelmonti, Gianfigliazzi, Brunelleschi. Né solamente questo umore contaminò la città, ma ancora tutto il contado divise; donde che i Capitani di parte e qualunque era de’ Guelfi e della republica amatore temeva forte che questa nuova divisione non facesse, con rovina della città, risuscitare le parti ghibelline. E mandorono di nuovo a papa Bonifazio perché pensasse al rimedio, se non voleva che quella città, che era stata sempre scudo della Chiesa, o rovinasse o diventasse ghibellina. Mandò pertanto il Papa in Firenze Matteo d’Acquasparta, cardinale Portuese, legato; e perché trovò difficultà nella parte bianca, la quale per parergli essere più potente temeva meno, si partì di Firenze sdegnato, e la interdisse; di modo che la rimase in maggiore confusione che la non era avanti la venuta sua.
Essendo per tanto tutti gli animi degli uomini sollevati, occorse che ad uno mortoro trovandosi assai de’ Cerchi e de’ Donati vennono insieme a parole, e da quelle alle armi; dalle quali, per allora, non nacque altro che tumulti. E tornato ciascuno alle sue case, deliberorono i Cerchi di assaltare i Donati, e con gran numero di gente gli andorono a trovare; ma per la virtù di messer Corso furono ributtati e gran parte di loro feriti. Era la città tutta in arme; i Signori e le leggi erano dalla furia de’ potenti vinte; i più savi e migliori cittadini pieni di sospetto vivevano. I Donati e la parte loro temevono più, perché potevono meno; donde che, per provedere alle cose loro, si ragunò messer Corso con gli altri capi neri e i Capitani di parte; e convennono che si domandasse al Papa uno di sangue reale, che venisse a riformare Firenze, pensando che per questo mezzo si potesse superare i Bianchi. Questa ragunata e deliberazione fu a’ Priori notificata, e dalla parte avversa come una congiura contro al viver libero aggravata. E trovandosi in arme ambedue le parti, i Signori, de’ quali era in quel tempo Dante, per il consiglio e prudenza sua presono animo e feciono armare il popolo, al quale molti del contado aggiunsono; e di poi forzorono i capi delle parti a posare le armi, e confinorono messer Corso Donati con molti di parte nera; e per mostrare di essere in questo giudizio neutrali, confinorono ancora alcuni di parte bianca, i quali poco di poi, sotto colore di oneste cagioni, tornorono.
Messer Corso e i suoi, perché giudicavano il Papa alla loro parte favorevole, ne andorono a Roma; e quello che già avevono scritto al Papa alla presenza gli persuasono. Trovavasi in corte del Pontefice Carlo di Valois, fratello del re di Francia, il quale era stato chiamato in Italia dal re di Napoli per passare in Sicilia. Parve per tanto al Papa, sendone massimamente pregato dai Fiorentini fuori usciti, infino che il tempo venisse commodo a navigare, di mandarlo a Firenze. Venne adunque Carlo; e benché i Bianchi, i quali reggevano, lo avessero a sospetto, nondimeno, per essere capo de’ Guelfi e mandato da il Papa, non ardirono di impedirgli la venuta; ma, per farselo amico, gli dettono autorità che potesse secondo lo arbitrio suo disporre della città. Carlo, avuta questa autorità, fece armare tutti i suoi amici e partigiani; il che dette tanto sospetto al popolo che non volesse torgli la sua libertà, che ciascuno prese le armi e si stava alle case sue, per essere presto se Carlo facesse alcuno moto. Erano i Cerchi e i capi di parte bianca, per essere stati qualche tempo capi della republica e portatisi superbamente, venuti allo universale in odio; la qual cosa dette animo a messer Corso e agli altri fuori usciti neri di venire a Firenze, sapiendo massime che Carlo e i Capitani di parte erano per favorirgli. E quando la città, per dubitare di Carlo, era in arme, messer Corso con tutti i fuori usciti e molti altri che lo seguitavano, senza essere da alcuno impediti, entrorono in Firenze; e benché messer Veri de’ Cerchi fusse ad andargli incontra confortato, non lo volse fare, dicendo che voleva che il popolo di Firenze, contro al quale veniva, lo gastigasse. Ma ne avvenne il contrario, perché fu ricevuto, non gastigato da quello; e a messer Veri convenne, volendo salvarsi, fuggire; perché messer Corso, sforzata che gli ebbe la porta a Pinti, fece testa a San Piero Maggiore, luogo propinquo alle sue case; e ragunato assai amici e popolo, che desideroso di cose nuove vi concorse, trasse, la prima cosa, delle carcere qualunque o per publica o per privata cagione vi era ritenuto; sforzò i Signori a tornarsi privati alle case loro, ed elesse i nuovi, popolani e di parte nera; e per cinque giorni si attese a saccheggiare quelli che erano i primi di parte bianca. I Cerchi e gli altri principi della setta loro erano usciti della città e ritirati ai loro luoghi forti, vedendosi Carlo contrario e la maggiore parte del popolo nimico; e dove prima ei non avevano mai voluto seguitare i consigli del Papa, furono forzati a ricorrere a quello per aiuto, mostrandogli come Carlo era venuto per disunire, non per unire Firenze. Onde che il Papa di nuovo vi mandò suo legato messer Matteo d’Acquasparta; il quale fece fare la pace intra i Cerchi e i Donati, e con matrimoni e nuove nozze la fortificò, e volendo che i Bianchi ancora degli uffizi participassino, i Neri, che tenevano lo stato, non vi consentirono; in modo che il Legato non si partì con più sua sodisfazione né meno irato che l’altra volta; e lasciò la città, come disubidiente, interdetta.
Rimase per tanto in Firenze l’una e l’altra parte, e ciascuna malcontenta: i Neri, per vedersi la parte nimica appresso, temevano che la non ripigliasse, con la loro rovina, la perduta autorità e i Bianchi si vedevano mancare della autorità e onori loro. A’ quali sdegni e naturali sospetti s’aggiunsono nuove ingiurie. Andava messer Niccola de’ Cerchi con più suoi amici alle sue possessioni, e arrivato al Ponte ad Affrico, fu da Simone di messer Corso Donati assaltato. La zuffa fu grande, e da ogni parte ebbe lacrimoso fine, perché messer Niccola fu morto e Simone in modo ferito che la seguente notte morì. Questo caso perturbò di nuovo tutta la città; e benché la parte nera vi avesse più colpa, nondimeno era da chi governava difesa. E non essendo ancora datone giudizio, si scoperse una congiura tenuta dai Bianchi con messer Piero Ferrante barone di Carlo, con il quale praticavano di essere rimessi al governo; la qual cosa venne a luce per lettere scritte dai Cerchi a quello, non ostante che fusse opinione le lettere essere false e dai Donati trovate per nascondere la infamia la quale per la morte di messer Niccola si avevono acquistata. Furono per tanto confinati tutti i Cerchi e i loro seguaci di parte bianca, intra i quali fu Dante poeta, e i loro beni publicati e le loro case disfatte. Sparsonsi costoro, con molti Ghibellini che si erano con loro accostati, per molti luoghi, cercando con nuovi travagli nuova fortuna; e Carlo, avendo fatto quello per che venne a Firenze, si parti, e ritornò al Papa per seguire la impresa sua di Sicilia: nella quale non fu più savio né migliore che si fusse stato in Firenze; tanto che vituperato, con perdita di molti suoi, tornò in Francia.
Vivevasi in Firenze, dopo la partita di Carlo, assai quietamente: solo messer Corso era inquieto, perché non gli pareva tenere nella città quel grado quale credeva convenirsegli; anzi, sendo il governo popolare, vedeva la repubblica essere amministrata da molti inferiori a lui. Mosso per tanto da queste passioni, pensò di adonestare con una onesta cagione la disonestà dello animo suo; e calunniava molti cittadini i quali avevano amministrati danari publici, come se gli avessero usati ne’ privati commodi; e che gli era bene ritrovargli e punirgli. Questa sua opinione da molti, che avevano il medesimo desiderio che quello, era seguita; a che si aggiugneva la ignoranzia di molti altri, i quali credevano messer Corso per amore della patria muoversi. Dall’altra parte i cittadini calunniati, avendo favore nel popolo, si difendevano; e tanto transcorse questo disparere, che, dopo ai modi civili, si venne alle armi. Dall’una parte era messer Corso e messer Lottieri vescovo di Firenze, con molti Grandi e alcuni popolani; dall’altra erano i Signori, con la maggiore parte del popolo: tanto che in più parti della città si combatteva. I Signori, veduto il pericolo grande nel quale erano, mandorono per aiuto ai Lucchesi; e subito fu in Firenze tutto il popolo di Lucca; per l’autorità del quale si composono per allora le cose e si fermorono i tumulti; e rimase il popolo nello stato e libertà sua, sanza altrimenti punire i motori dello scandolo. Aveva il Papa inteso i tumulti di Firenze, e per fermargli vi mandò messer Niccolao da Prato suo legato. Costui, sendo uomo, per grado, dottrina e costumi, di grande riputazione, acquistò subito tanta fede che si fece dare autorità di potere uno stato a suo modo fermare; e perché era di nazione ghibellino, aveva in animo ripatriare gli usciti; ma volse prima guadagnarsi il popolo; e per questo rinnovò le antiche Compagnie del popolo; il quale ordine accrebbe assai la potenza di quello, e quella de’ Grandi abbassò. Parendo per tanto al Legato aversi obligata la moltitudine, disegnò di fare tornare i fuori usciti, e nel tentare varie vie, non solamente non gliene successe alcuna, ma venne in modo a sospetto a quelli che reggevano, che fu costretto a partirsi; e pieno di sdegno se ne tornò al Pontefice, e lasciò Firenze piena di confusione e interdetta. E non solo quella città da uno umore ma da molti era perturbata, sendo in essa le inimicizie del popolo e de’ Grandi, de’ Ghibellini e Guelfi, de’ Bianchi e Neri. Era adunque tutta la città in arme e piena di zuffe; perché molti erano per la partita del Legato mal contenti, sendo desiderosi che i fuori usciti tornassero. E i primi di quelli che movieno lo scandolo erano i Medici e i Giugni, i quali in favore de’ ribelli si erano con il Legato scoperti: combattevasi per tanto in più parti in Firenze. Ai quali mali si aggiunse un fuoco, il quale si appiccò prima da Orto San Michele, nelle case degli Abati; di quivi saltò in quelle de’ Capo in sacchi, e arse quelle con le case de’ Macci, degli Amieri, Toschi, Cipriani, Lamberti, Cavalcanti e tutto Mercato nuovo; passò di quivi in Porta Santa Maria, e quella arse tutta, e girando dal Ponte Vecchio, arse le case de’ Gherardini, Pulci, Amidei e Lucardesi, e con queste tante altre che il numero di quelle a mille settecento o più aggiunse.Questo fuoco fu opinione di molti che a caso, nello ardore della zuffa, si appiccasse: alcuni altri affermano che da Neri Abati priore di San Piero Scheraggio, uomo dissoluto e vago di male, fusse acceso; il quale, veggendo il popolo occupato a combattere, pensò di poter fare una sceleratezza alla quale gli uomini, per essere occupati, non potessero rimediare; e perché gli riuscisse meglio, misse fuoco in casa i suoi consorti, dove aveva più commodità di farlo. Era lo anno 1304 e del mese di luglio, quando Firenze dal fuoco e da il ferro era perturbata. Messer Corso Donati solo, intra tanti tumulti, non si armò; perché giudicava più facilmente diventare arbitro di ambedue le parti, quando, stracche nella zuffa, agli accordi si volgessero. Posoronsi non di meno le armi, più per sazietà del male che per unione che infra loro nascesse: solo ne seguì che i rebelli non tornorono, e la parte che gli favoriva rimase inferiore.
Il Legato, tornato a Roma e uditi i nuovi scandoli seguiti in Firenze, persuase al Papa che, se voleva unire Firenze, gli era necessario fare a sé venire dodici cittadini de’ primi di quella città; donde poi, levato che fusse il nutrimento al male, si poteva facilmente pensare di spegnerlo. Questo consiglio fu da il Pontefice accettato; e i cittadini chiamati ubbidirono; intra i quali fu messer Corso Donati. Dopo la partita de’ quali, fece il Legato a’ fuori usciti intendere come allora era il tempo, che Firenze era privo de’ suoi capi, di ritornarvi: in modo che gli usciti, fatto loro sforzo vennono a Firenze, e nella città per le mura ancora non fornite entrarono, e infino alla piazza di San Giovanni transcorsono. Fu cosa notabile che coloro i quali poco davanti avevano per il ritorno loro combattuto, quando disarmati pregavano di essere alla patria restituiti, poi che gli viddono armati, e volere per forza occupare la città, presono l’armi contro a di loro (tanto fu più da quelli cittadini stimata la comune utilità che la privata amicizia) e unitisi con tutto il popolo, a tornarsi donde erano venuti gli forzorono. Perderono costoro la impresa per avere lasciate parte delle genti loro alla Lastra, e per non avere aspettato messer Tolosetto Uberti, il quale doveva venire da Pistoia con trecento cavagli; perché stimavano che la celerità più che le forze avesse a dare loro la vittoria: e così spesso in simili imprese interviene che la tardità ti toglie la occasione, e la celerità le forze. Partiti i ribelli, si tornò Firenze nelle antiche sue divisioni; e per torre autorità alla famiglia de’ Cavalcanti, gli tolse il popolo per forza le Stinche, castello posto in Val di Grieve e anticamente stato di quella; e perché quelli che dentro vi furono presi furono i primi che fussero posti nelle carcere di nuovo edificate, si chiamò di poi quel luogo, dal castello donde venivano, e ancora si chiama, le Stinche. Rinnovorono ancora, quelli che erano i primi nella republica, le Compagnie del popolo, e dettono loro le insegne, ché prima sotto quelle delle Arti si ragunavano; e i capi Gonfalonieri delle compagnie e Collegi de’ Signori si chiamorono, e vollono che, negli scandoli con le armi e nella pace con il consiglio, la Signoria aiutassero; aggiunsono ai duoi rettori antichi uno esecutore, il quale, insieme con i gonfalonieri, doveva contro alla insolenzia de’ Grandi procedere. In questo mezzo era morto il Papa, e messer Corso e gli altri cittadini erano tornati da Roma; e sarebbesi vivuto quietamente, se la città dallo animo inquieto di messer Corso non fusse stata di nuovo perturbata. Aveva costui, per darsi reputazione, sempre opinione contraria ai più potenti tenuta; e dove ei vedeva inclinare il popolo, quivi, per farselo più benivolo, la sua autorità voltava, in modo che di tutti i dispareri e novità era capo, e a lui rifuggivono tutti quelli che alcuna cosa estraordinaria di ottenere desideravano: tale che molti reputati cittadini lo odiavano; e vedevasi crescere in modo questo odio, che la parte de’ Neri veniva in aperta divisione, perché messer Corso delle forze e autorità private si valeva, e gli avversarii dello stato; ma tanta era l’autorità che la persona sua seco portava, che ciascuno lo temeva. Pure nondimeno per torgli il favore popolare, il quale per questa via si può facilmente spegnere, disseminorono che voleva occupare la tirannide: il che era a persuadere facile, perché il suo modo di vivere ogni civile misura trapassava. La quale opinione assai crebbe poi che gli ebbe tolta per moglie una figliuola di Uguccione della Faggiuola, capo di parte ghibellina e bianca e in Toscana potentissimo.
Questo parentado, come venne a notizia, dette animo ai suoi avversarii; e presono contro a di lui le armi; e il popolo, per le medesime cagioni, non lo difese; anzi la maggior parte di quello con gli nimici suoi convenne. Erano capi de suoi avversarii messer Rosso della Tosa, messer Pazzino de’ Pazzi messer Geri Spini e messer Berto Brunelleschi. Costoro, con i loro seguaci e la maggior parte del popolo, si raccozzorono armati a piè del palagio de’ Signori, per l’ordine de’ quali si dette una accusa a messer Piero Branca capitano del popolo contro a messer Corso, come uomo che si volesse con lo aiuto di Uguccione fare tiranno: dopo la quale fu citato, e di poi, per contumace, giudicato ribello: né fu più dalla accusa alla sentenzia che uno spazio di due ore. Dato questo giudizio, i Signori, con le Compagnie del popolo sotto le loro insegne, andorono a trovarlo. Messer Corso dall’altra parte, non per vedersi da molti de’ suoi abbandonato, non per la sentenzia data, non per la autorità de’ Signori né per la moltitudine de’ nimici sbigottito, si fece forte nelle sue case, sperando potere difendersi in quelle tanto che Uguccione, per il quale aveva mandato, a soccorrerlo venisse. Erano le sue case e le vie intorno a quelle state sbarrate da lui, e di poi di uomini suoi partigiani affortificate; i quali in modo le difendevano, che il popolo, ancora che fusse gran numero, non poteva vincerle. La zuffa per tanto fu grande, con morte e ferite d’ogni parte; e vedendo il popolo di non potere dai luoghi aperti superarlo, occupò le case che erano alle sue propinque; e quelle rotte, per luoghi inaspettati gli entrò in casa. Messer Corso per tanto veggendosi circundato da’ nimici, né confidando più negli aiuti di Uguccione, deliberò, poi che gli era disperato della vittoria, vedere se poteva trovare rimedio alla salute; e fatta testa egli e Gherardo Bordoni, con molti altri de’ suoi più forti e fidati amici, feciono impeto contro a’ nimici; e quelli apersono in maniera che poterono, combattendo, passargli; e della città per la Porta alla Croce si uscirono. Furono non di meno da molti perseguitati; e Gherardo in su l’Affrico da Boccaccio Cavicciuli fu morto; messer Corso ancora fu a Rovezzano da alcuni cavagli catelani soldati della Signoria sopraggiunto e preso; ma nel venire verso Firenze, per non vedere in viso i suoi nimici vittoriosi ed essere straziato da quelli, si lasciò da cavallo cadere; ed essendo in terra, fu da uno di quelli che lo menavano scannato, il corpo del quale fu dai monaci di San Salvi ricolto, e senza alcuno onore sepulto. Questo fine ebbe messer Corso dal quale la patria e la parte de’ Neri molti beni e molti mali ricognobbe; e se gli avessi avuto lo animo più quieto, sarebbe più felice la memoria sua; non di meno merita di essere numerato intra i rari cittadini che abbi avuti la nostra città. Vero è che la sua inquietudine fece alla patria e alla parte non si ricordare degli oblighi avieno con quello e nella fine a sé partorì la morte, e all’una e all’altra di quelle di molti mali. Uguccione, venendo al soccorso del genero, quando fu a Remoli intese come messer Corso era da il popolo combattuto; e pensando non potere fargli alcuno favore, per non fare male a sé sanza giovare a lui, se ne tornò adietro.
Morto messer Corso, il che seguì l’anno 1308, si fermorono i tumulti; e vissesi quietamente infino a tanto che si intese come Arrigo imperadore con tutti i rebelli fiorentini passava in Italia, a’ quali aveva promesso di restituirgli alla patria loro. Donde a’ capi del governo parve che fusse bene, per avere meno nimici, diminuire il numero di quelli; e per ciò deliberorono che tutti i rebelli fussero restituiti, eccetto quelli a chi nominatamente nella legge fusse il ritorno vietato. Donde che restorono fuora la maggior parte de’ Ghibellini e alcuni di quelli di parte bianca, intra i quali furono Dante Aldighieri, i figliuoli di messer Veri de’ Cerchi e di Giano della Bella. Mandorono oltra di questo, per aiuto, a Ruberto re di Napoli; e non lo potendo ottenere come amici, gli dierono la città per cinque anni, acciò che come suoi uomini gli difendesse. Lo Imperadore, nel venire, fece la via da Pisa, e per le maremme ne andò a Roma, dove prese la corona l’anno 1312; e di poi, deliberato di domare i Fiorentini, ne venne, per la via di Perugia e di Arezzo, a Firenze; e si pose con lo esercito suo al munistero di San Salvi, propinquo alla città ad un miglio, dove cinquanta giorni stette senza alcun frutto; tanto che, disperato di potere perturbare lo stato di quella città ne andò a Pisa, dove convenne con Federigo re di Sicilia di fare la impresa del Regno; e mosso con le sue genti, quando egli sperava la vittoria, e il re Ruberto temeva la sua rovina, trovandosi a Buonconvento, morì.
Occorse, poco tempo di poi, che Uguccione della Faggiuola diventò signore di Pisa, e poi apresso di Lucca, dove dalla parte ghibellina fu messo; e con il favore di queste città gravissimi danni a’ vicini faceva, dai quali i Fiorentini per liberarsi domandorono ad il re Ruberto Piero suo fratello, che i loro eserciti governasse. Uguccione da l’altra parte di accrescere la sua potenzia non cessava, e per forza e per inganno aveva in Val d’Arno e in Val di Nievole molte castella occupate, ed essendo ito allo assedio di Montecatini, giudicorono i Fiorentini che fusse necessario soccorrerlo, non volendo che quello incendio ardesse tutto il paese loro. E ragunato un grande esercito, passorono in Val di Nievole, dove vennono con Uguccione alla giornata; e dopo una gran zuffa furono rotti, dove morì Piero fratello del Re, il corpo del quale non si ritrovò mai, e con quello più che dumila uomini furono ammazzati. Né dalla parte di Uguccione fu la vittoria allegra, perché vi morì un suo figliuolo, con molti altri capi dello esercito. I Fiorentini, dopo questa rotta, afforzorono le loro terre allo intorno; e il re Ruberto mandò per loro capitano il conte d’Andria, detto il Conte Novello, per i portamenti del quale, o vero perché sia naturale a’ Fiorentini che ogni stato rincresca e ogni accidente gli divida, la città, non ostante la guerra aveva con Uguccione, in amici e nimici del Re si divise. Capi degli nimici erano messer Simone della Tosa, i Magalotti, con certi altri, popolani, i quali erano agli altri nel governo superiori. Costoro operorono che si mandasse in Francia, e di poi nella Magna, per trarne capi e genti, per potere poi, allo arrivare loro, cacciarne il Conte governatore per il Re, ma la fortuna fece che non poterono averne alcuno. Non di meno non abbandonorono la impresa loro; e cercando di uno per adorarlo, non potendo di Francia né della Magna trarlo, lo trassono di Agobio: e avendone prima cacciato il Conte, feciono venire Lando d’Agobio per esecutore, o vero per bargello; al quale pienissima potestà sopra i cittadini dettono. Costui era uomo rapace e crudele, e andando con molti armati per la terra, la vita a questo e a quell’altro, secondo la volontà di coloro che lo avevano eletto, toglieva; e in tanta insolenzia venne, che batté una moneta falsa del conio fiorentino, sanza che alcuno opporsegli ardisse: a tanta grandezza lo avieno condotto le discordie di Firenze! Grande veramente e misera città; la quale né la memoria delle passate divisioni, né la paura di Uguccione, né l’autorità di uno Re avevano potuto tenere ferma, tanto che in malissimo stato si trovava, sendo fuora da Uguccione corsa, e dentro da Lando d’Agobio saccheggiata. Erano gli amici del Re, e contrari a Lando e suoi seguaci, famiglie nobili e popolani grandi, e tutti Guelfi; non di meno, per avere gli avversarii lo stato in mano, non potevono, se non con loro grave pericolo, scoprirsi; pure, deliberati di liberarsi da sì disonesta tirannide, scrissono secretamente al re Ruberto che facesse suo vicario in Firenze il conte Guido da Battifolle. Il che subito fu da il Re ordinato; e la parte nimica, ancora che i Signori fussero contrari ad il Re, non ardì, per le buone qualità del Conte opporsegli; non di meno non aveva molta autorità, perché i Signori e gonfalonieri delle Compagnie Lando e la sua parte favorivano. E mentre che in Firenze in questi travagli si viveva, passò la figliuola del re Alberto della Magna, la quale andava a trovare Carlo, figliuolo del re Ruberto, suo marito. Costei fu onorata assai dagli amici del Re, e con lei delle condizioni della città e della tirannide di Lando e suoi partigiani si dolfono; tanto che prima che la partisse, mediante i favori suoi e quelli che da il Re ne furono porti, i cittadini si unirono, e a Lando fu tolta l’autorità, e pieno di preda e di sangue rimandato ad Agobio. Fu, nel riformare il governo la signoria ad il Re per tre anni prorogata; e perché di già erano eletti sette Signori di quelli della parte di Lando, se ne elessono sei di quelli del Re; e seguirono alcuni magistrati con tredici Signori; di poi, pure secondo lo antico uso, a sette si ridussono.
Fu tolta, in questi tempi, a Uguccione la signoria di Lucca e di Pisa, e Castruccio Castracani, di cittadino di Lucca, ne divenne signore, e perché era giovane, ardito e feroce, e nelle sue imprese fortunato, in brevissimo tempo principe de’ Ghibellini di Toscana divenne. Per la qual cosa i Fiorentini, posate le civili discordie, per più anni pensorono, prima, che le forze di Castruccio non crescessero, e di poi, contro alla voglia loro cresciute, come si avessero a difendere da quelle. E perché i Signori con migliore consiglio deliberassero, e con maggiore autorità esequissero, creorono dodici cittadini, i quali Buoni uomini nominorono, senza il consiglio e consenso de’ quali i Signori alcuna cosa importante operare non potessero. Era, in questo mezzo, il fine della signoria del re Ruberto venuto; e la città, diventata principe di se stessa, con i consueti rettori e magistrati si riordinò; e il timore grande che la aveva di Castruccio la teneva unita. Il quale dopo molte cose fatte da lui contro ai signori di Lunigiana, assaltò Prato donde i Fiorentini, deliberati a soccorrerlo serrorono le botteghe e popolarmente vi andorono; dove ventimila a piè e millecinquecento a cavallo convennono. E per torre a Castruccio forze e aggiugnerle a loro, i Signori per loro bando significorono che qualunque rebelle guelfo venisse al soccorso di Prato sarebbe dopo la impresa, alla patria restituito: donde più che quattromila ribelli vi concorsono. Questo tanto esercito, con tanta prestezza a Prato condotto, sbigottì in modo Castruccio che, sanza volere tentare la fortuna della zuffa, verso Lucca si ridusse. Donde nacque nel campo de’ Fiorentini, intra i nobili e il popolo, disparere: questo voleva seguitarlo e combatterlo, per spegnerlo; quelli volevano ritornarsene, dicendo che bastava avere messo a pericolo Firenze per liberare Prato: il che era stato bene sendo costretti dalla necessità; ma ora che quella era mancata, non era, potendosi acquistare poco e perdere assai, da tentare la fortuna. Rimessesi il giudicio, non si potendo accordare, a’ Signori, quali trovorono ne’ Consigli, intra il popolo e i Grandi, i medesimi dispareri; la qual cosa, sentita per la città, fece ragunare in Piazza assai gente, la quale contro ai Grandi parole piene di minacce usava: tanto che i Grandi, per timore, cederono. Il quale partito, per essere preso tardi, e da molti mal volentieri, dette tempo al nimico di ritirarsi salvo a Lucca.
Questo disordine in modo fece contro ai Grandi il popolo indegnare, che i Signori la fede data agli usciti per ordine e conforti loro osservare non vollono. Il che presentendo gli usciti, deliberorono di anticipare, e innanzi al campo, per entrare i primi in Firenze, alle porte della città si presentorono; la qual cosa, perché fu preveduta, non successe loro, ma furono da quelli che in Firenze erano rimasi ributtati. Ma per vedere se potevono avere d’accordo quello che per forza non avevono potuto ottenere, mandorono otto uomini, ambasciadori, a ricordare a’ Signori la fede data e i pericoli sotto quella da loro corsi, sperandone quel premio che era stato loro promesso. E benché i nobili, a’ quali pareva essere di questo obligo debitori, per avere particularmente promesso quello a che i Signori si erano obligati, si affaticassero assai in benefizio degli usciti, non di meno, per lo sdegno aveva preso la universalità, che non si era in quel modo che si poteva contro a Castruccio vinta la impresa, non lo ottennero: il che seguì in carico e disonore della città. Per la qual cosa sendo molti de’ nobili sdegnati, tentorono di ottenere per forza quello che pregando era loro negato; e convennono con i fuori usciti venissero armati alla città, e loro, drento, piglierebbono l’armi in loro aiuto. Fu la cosa avanti al giorno deputato scoperta, tale che i fuori usciti trovorono la città in arme, e ordinata a frenare quelli di fuora e in modo quelli di drento sbigottire, che niuno ardisse di prendere l’armi: e così, senza fare alcuno frutto, si spiccorono dalla impresa. Dopo la costoro partita, si desiderava punire quelli che dello avergli fatti venire avessero colpa; e benché ciascuno sapessi quali erano i delinquenti, niuno di nominargli, non che di accusargli, ardiva. Per tanto, per intenderne il vero sanza rispetto, si provide che ne’ Consigli ciascuno scrivesse i delinquenti, e gli scritti al capitano secretamente si presentassero: donde rimasono accusati messer Amerigo Donati, messer Teghiaio Frescobaldi e messer Lotteringo Gherardini; i quali, avendo il giudice più favorevole che forse i delitti loro non meritavano, furono in danari condennati.
I tumulti che in Firenze nacquono per la venuta de’ ribelli alle porte mostrorono come alle Compagnie del popolo uno capo solo non bastava; e però vollono che per lo avvenire ciascuna tre o quattro capi avesse; e ad ogni gonfaloniere duoi o tre, i quali chiamorono pennonieri, aggiunsono, acciò che, nelle necessità dove tutta la compagnia non avesse a concorrere, potesse parte di quella sotto uno capo adoperarsi. E come avviene in tutte le republiche, che sempre dopo uno accidente alcune leggi vecchie si annullano e alcune altre se ne rinnuovano, dove prima la Signoria si faceva di tempo in tempo, i Signori e i Collegi che allora erano, perché avevano assai potenzia, si feciono dare autorità di fare i Signori che dovevano per i futuri quaranta mesi sedere; i nomi de’ quali missono in una borsa, e ogni duoi mesi gli traevano. Ma prima che de’ mesi quaranta il termine venisse, perché molti cittadini di non essere stati imborsati dubitavano, si feciono nuove imborsazioni. Da questo principio nacque lo ordine dello imborsare per più tempo tutti i magistrati, così d’entro come di fuora; dove prima nel fine de’ magistrati, per i Consigli i successori si eleggevano; le quali imborsazioni si chiamorono di poi squittini. E perché ogni tre, o al più lungo ogni cinque anni si facevano, pareva che togliessino alla città noia, e la cagione de’ tumulti levassino i quali alla creazione di ogni magistrato, per gli assai competitori, nascevano; e non sapiendo altrimenti correggergli, presono questa via, e non intesono i difetti che sotto questa poca commodità si nascondevano.
Era lo anno 1325, e Castruccio, avendo occupata Pistoia, era divenuto in modo potente che i Fiorentini, temendo la sua grandezza, deliberorono, avanti che gli avessi preso bene il dominio di quella, di assaltarlo, e trarla di sotto la sua ubbidienza. E fra di loro cittadini e di amici ragunorono ventimila pedoni e tremila cavalieri, e con questo esercito si accamporono ad Altopascio, per occupare quello e per quella via impedirgli il potere soccorrere Pistoia. Successe a’ Fiorentini prendere quello luogo; di poi ne andorono verso Lucca guastando il paese; ma per la poca prudenza e meno fede del capitano, non si fece molti progressi. Era loro capitano messer Ramondo di Cardona: costui, veduto i Fiorentini essere stati per lo adietro della loro libertà liberali, e avere quella ora al Re, ora ai Legati, ora ad altri di minore qualità uomini concessa, pensava, se conducessi quelli in qualche necessità, che facilmente potrebbe accadere che lo facessino principe. Né mancava di ricordarlo spesso; e chiedeva di avere quella autorità nella città, che gli avevano negli eserciti data, altrimenti mostrava di non potere avere quella ubbidienza che ad uno capitano era necessaria; e perché i Fiorentini non gliene consentivono, egli andava perdendo tempo, e Castruccio lo acquistava. Perché gli vennono quelli aiuti che da’ Visconti e dagli altri tiranni di Lombardia gli erano stati promessi, ed essendo fatto forte di genti, messer Ramondo, come prima per la poca fede non seppe vincere, così di poi per la poca prudenza non si seppe salvare; ma procedendo con il suo esercito lentamente, fu da Castruccio, propinquo ad Altopascio, assaltato, e dopo una gran zuffa rotto: dove restarono presi e morti molti cittadini, e con loro insieme messer Ramondo, il quale della sua poca fede e de’ suoi cattivi consigli dalla fortuna quella punizione ebbe, che gli aveva dai Fiorentini meritato. I danni che Castruccio fece, dopo la vittoria, a’ Fiorentini, di prede, prigioni, rovine e arsioni, non si potrebbono narrare; perché, senza avere alcuna gente allo incontro, più mesi dove e’ volle cavalcò e corse; e a’ Fiorentini, dopo tanta rotta, fu assai il salvare la città.
Né però si invilirono in tanto che non facessero grandi provedimenti a danari, soldassero gente e mandassero ai loro amici per aiuto. Non di meno a frenare tanto nimico niuno provedimento bastava; di modo che furono forzati eleggere per loro signore Carlo duca di Calavria e figliuolo del re Ruberto, se vollono che venisse alla difesa loro; perché quelli, sendo consueti a signoreggiare Firenze, volevono più tosto la ubbidienza che l’amicizia sua. Ma per essere Carlo implicato nelle guerre di Sicilia, e per ciò non potendo venire a prendere la signoria, vi mandò Gualtieri di nazione franzese e duca di Atene. Costui, come vicario del signore, prese la possessione della città, e ordinava i magistrati secondo lo arbitrio suo. Furono non di meno i portamenti suoi modesti, e in modo contrari alla natura sua, che ciascuno lo amava. Carlo composte che furono le guerre di Sicilia, con mille cavalieri ne venne a Firenze, dove fece la sua entrata di luglio l’anno 1326; la cui venuta fece che Castruccio non poteva liberamente il paese fiorentino saccheggiare. Non di meno quella reputazione che si acquistò di fuora si perdé dentro, e quelli danni che dai nimici non furono fatti, dagli amici si sopportorono: perché i Signori senza il consenso del Duca alcuna cosa non operavano, e in termine di uno anno trasse della città quattrocentomila fiorini, non ostante che, per le convenzioni fatte seco, non si avesse a passare dugentomila: tanti furono i carichi con i quali ogni giorno o egli o il padre la città aggravavano. A questi danni si aggiunsono ancora nuovi sospetti e nuovi nimici; perché i Ghibellini di Lombardia in modo per la venuta di Carlo in Toscana insospettirono, che Galeazzo Visconti e gli altri tiranni lombardi, con danari e promesse, feciono passare in Italia Lodovico di Baviera, stato contro alla voglia del Papa eletto imperadore. Venne costui in Lombardia, e di quivi in Toscana; e con lo aiuto di Castruccio si insignorì di Pisa; dove, rinfrescato di danari, se ne andò verso Roma; il che fece che Carlo si partì di Firenze, temendo del Regno, e per suo vicario lasciò messer Filippo da Saggineto. Castruccio, dopo la partita dello Imperadore, si insignorì di Pisa; e i Fiorentini per trattato gli tolsono Pistoia; alla quale Castruccio andò a campo; dove con tanta virtù e ostinazione stette, che, ancora che i Fiorentini facessero più volte prova di soccorrerla, e ora il suo esercito ora il suo paese assalissero, mai non posserono, né con forza né con industria, dalla impresa rimuoverlo: tanta sete aveva di gastigare i Pistolesi e i Fiorentini sgarare! di modo che i Pistolesi furono a riceverlo per signore constretti. La qual cosa, ancora che seguisse con tanta sua gloria, seguì anche con tanto suo disagio che, tornato in Lucca, si morì. E perché gli è rade volte che la fortuna un bene o un male con un altro bene o con un altro male non accompagni, morì ancora, a Napoli, Carlo duca di Calavria e signore di Firenze, acciò che i Fiorentini in poco di tempo, fuori d’ogni loro opinione, dalla signoria dell’uno e timore dell’altro si liberassino. I quali, rimasi liberi, riformorono la città, e annullorono tutto l’ordine de’ Consigli vecchi, e ne creorono duoi, l’uno di trecento cittadini popolani, l’altro di ducento cinquanta grandi e popolani; il primo dei quali Consiglio di Popolo, l’altro di Comune chiamorono.
Lo Imperadore, arrivato a Roma, creò uno antipapa, e ordinò molte cose contro alla Chiesa, molte altre senza effetto ne tentò; in modo che alla fine se ne partì con vergogna, e ne venne a Pisa; dove, o per sdegno, o per non essere pagati, circa ottocento cavagli tedeschi da lui si ribellorono, e a Montechiaro, sopra il Ceruglio, si afforzorono. Costoro, come lo Imperadore fu partito da Pisa per andare in Lombardia, occuporono Lucca, e ne cacciorono Francesco Castracani, lasciatovi dallo Imperadore, e pensando di trarre di quella preda qualche utilità, quella città ai Fiorentini per ottanta mila fiorini offersono; il che fu, per consiglio di messer Simone della Tosa, rifiutato. Il quale partito sarebbe stato alla città nostra utilissimo, se i Fiorentini sempre in quella volontà si mantenevano; ma perché poco di poi mutorono animo fu dannosissimo; perché, se allora per sì poco prezzo avere pacificamente la potevono e non la vollono, di poi, quando la vollono, non la ebbono, ancora che molto maggiore prezzo la comperassero; il che fu cagione che più volte Firenze il suo governo, con suo grandissimo danno, variasse. Lucca adunque, rifiutata dai Fiorentini, fu da messer Gherardino Spinoli genovese per fiorini trenta mila comperata. E perché gli uomini sono più lenti a pigliare quello che possono avere, che non sono a desiderare quello a che non possono aggiugnere, come prima si scoperse la compera da messer Gherardino fatta, e per quanto poco pregio la aveva avuta, si accese il popolo di Firenze di un estremo desiderio di averla, riprendendo se medesimo e chi ne lo aveva sconfortato; e per averla per forza, poi che comperare non l’avevano voluta, mandò le genti sue a predare e scorrere sopra i Lucchesi. Erasi partito, in questo mezzo, lo imperadore di Italia; e lo Antipapa, per ordine de’ Pisani, ne era andato prigione in Francia; e i Fiorentini, dalla morte di Castruccio, che seguì nel 1328, infino al 1340, stettono dentro quieti, e solo alle cose dello stato loro di fuora attesono, e in Lombardia, per la venuta del re Giovanni di Buemia, e in Toscana, per conto di Lucca, di molte guerre feciono. Ornorono ancora la città di nuovi edifici; perché la torre di Santa Reparata, secondo il consiglio di Giotto dipintore in quelli tempi famosissimo, edificorono; e perché, nel 1333, alzorono, per uno diluvio, le acque d’Arno in alcuno luogo in Firenze più che dodici braccia, donde parte de’ ponti e molti edifici rovinorono, con grande sollecitudine e spendio le cose rovinate instaurorono.
Ma venuto l’anno 1340, nuove cagioni di alterazioni nacquono. Avevano i cittadini potenti due vie ad accrescere o mantenere la potenza loro: l’una era ristringere in modo le imborsazioni de’ magistrati, che sempre o in loro o in amici loro pervenissero, l’altra lo essere capi della elezione de’ rettori, per averli di poi ne’ loro giudicii favorevoli. E tanto questa seconda parte stimavano, che, non bastando loro i rettori ordinari, uno terzo alcuna volta ne conducevano: donde che, in questi tempi, avevono condotto estraordinariamente, sotto titolo di Capitano di guardia, messer Iacopo Gabrielli d’Agobio, e datogli sopra i cittadini ogni autorità. Costui, ogni giorno, a contemplazione di chi governava, assai ingiurie faceva; e intra gli ingiuriati messer Piero de’ Bardi e messer Bardo Frescobaldi furono. Costoro, sendo nobili e naturalmente superbi, non potevono sopportare che uno forestiere, a torto e a contemplazione di pochi potenti, gli avesse offesi; e per vendicarsi, contro a lui e chi governava congiurorono: nella quale congiura molte famiglie nobili con alcune di popolo furono, ai quali la tirannide di chi governava dispiaceva. L’ordine dato infra loro era che ciascuno ragunasse assai gente armata in casa, e la mattina dopo il giorno solenne di Tutti i Santi, quando ciascuno si truova per i templi a pregare per i suoi morti, pigliare le armi, ammazzare il Capitano e i primi di quelli che reggevano, e di poi, con nuovi Signori e con nuovo ordine, lo stato riformare. Ma perché i partiti pericolosi quanto più si considerano tanto peggio volentieri si pigliano, interviene sempre che le congiure che danno spazio di tempo alla esecuzione si scuoprono. Sendo intra i congiurati messer Andrea de’ Bardi, poté più in lui, nel ripensare la cosa, la paura della pena che la speranza della vendetta, e scoperse il tutto a Iacopo Alberti suo cognato; il che Iacopo ai Priori, e i Priori a quelli del reggimento significorono. E perché la cosa era presso al pericolo, sendo il giorno di Tutti i Santi propinquo, molti cittadini in Palagio convennono, e giudicando che fusse pericolo nel differire, volevono che i Signori sonassero la campana, e il popolo alle armi convocassero. Era gonfalonieri Taldo Valori, e Francesco Salviati uno de’ Signori: a costoro, per essere parenti de’ Bardi, non piaceva il sonare, allegando non essere bene per ogni leggier cosa fare armare il popolo, perché la autorità data alla moltitudine non temperata da alcuno freno non fece mai bene; e che gli scandoli è muovergli facile, ma frenargli difficile; e però essere migliore partito intendere prima la verità della cosa, e civilmente punirla, che volere, con la rovina di Firenze, tumultuariamente, sopra una semplice relazione, correggerla. Le quali parole non furono in alcuna parte udite; ma con modi ingiuriosi e parole villane furono i Signori a sonare necessitati: al quale suono tutto il popolo alla Piazza armato corse. Dall’altra parte, i Bardi e Frescobaldi, veggendosi scoperti, per vincere con gloria o morire sanza vergogna, presono le armi, sperando potere la parte della città di là dal fiume, dove avevano le case loro, difendere; e si feciono forti ai ponti, sperando nel soccorso che dai nobili del contado e altri loro amici aspettavano. Il quale disegno fu loro guasto dai popolani i quali quella parte della città con loro abitavano, i quali presono le armi in favore de’ Signori: di modo che, trovandosi tramezzati, abbandonorono i ponti e si ridussono nella via dove i Bardi abitavano, come più forte che alcuna altra, e quella virtuosamente difendevano. Messer Iacopo d’Agobio, sappiendo come contro a lui era tutta questa congiura, pauroso della morte, tutto stupido e spaventato, propinquo al palagio de’ Signori, in mezzo di sue genti armate si posava; ma negli altri rettori, dove era meno colpa, era più animo; e massime nel podestà, che messer Maffeo da Carradi si chiamava. Costui si presentò dove si combatteva; e senza avere paura di alcuna cosa, passato il ponte Rubaconte, intra le spade de’ Bardi si misse, e fece segno di volere parlare loro: donde che la reverenzia dell’uomo, i suoi costumi e le altre sue grandi qualità feciono ad un tratto fermare le armi, e quietamente ascoltarlo. Costui, con parole modeste e gravi, biasimò la congiura loro; mostrò il pericolo nel quale si trovavano, se non cedevono a questo popolare impeto; dette loro speranza che sarebbono di poi uditi e con misericordia giudicati; promisse di essere operatore che alli ragionevoli sdegni loro si arebbe compassione. Tornato di poi a’ Signori, persuase loro che non volessero vincere con il sangue de’ suoi cittadini, e che non gli volessero, non uditi, giudicare; e tanto operò, che, di consenso de’ Signori, i Bardi e i Frescobaldi, con i loro amici, abbandonarono la città, e senza essere impediti alle castella loro si ritornarono. Partitisi costoro e disarmatosi il popolo, i Signori solo contro a quelli che avevano della famiglia de’ Bardi e Frescobaldi prese le armi procederono; e per spogliarli di potenza, comperorono dai Bardi il castello di Mangona e di Vernia, e per legge providono che alcuno cittadino non potesse possedere castella propinque a Firenze a venti miglia. Pochi mesi di poi fu decapitato Stiatta Frescobaldi, e molti altri di quella famiglia fatti ribelli. Non bastò a quelli che governavano avere i Frescobaldi e i Bardi superati e domi; ma come fanno quasi sempre gli uomini, che quanto più autorità hanno peggio la usano e più insolenti diventano, dove prima era uno capitano di guardia che affliggeva Firenze, ne elessono uno ancora in contado, e con grandissima autorità, acciò che gli uomini a loro sospetti non potessero né in Firenze né di fuora abitare; e in modo si concitorono contro tutti i nobili, ch’eglino erano apparecchiati a vendere la città e loro, per vendicarsi, e aspettando la occasione, la venne bene, e loro la usorono meglio.
Era, per i molti travagli i quali erano stati in Toscana e in Lombardia, pervenuta la città di Lucca sotto la signoria di Mastino della Scala, signore di Verona; il quale, ancora che per obligo la avesse a consegnare ai Fiorentini, non la aveva consegnata, perché, essendo signore di Parma, giudicava poterla tenere, e della fede data non si curava. Di che i Fiorentini per vendicarsi, si congiunsono con i Viniziani, e gli feciono tanta guerra che fu per perderne tutto lo stato suo. Non di meno non ne risultò loro altra commodità che un poco di sodisfazione d’animo d’avere battuto Mastino, perché i Viniziani, come fanno tutti quelli che con i meno potenti si collegono, poi che ebbono guadagnato Trevigi e Vicenza, senza avere a’ Fiorentini rispetto, si accordorono. Ma avendo poco di poi i Visconti, signori di Milano, tolto Parma a Mastino, e giudicando egli per questo non potere più tenere Lucca, deliberò di venderla. I competitori erano i Fiorentini e i Pisani; e nello strignere le pratiche, i Pisani vedevano che i Fiorentini, come più ricchi, erano per ottenerla, e per ciò si volsono alla forza, e con lo aiuto de’ Visconti vi andorono a campo. I Fiorentini per questo non si ritirorono indietro dalla compera, ma fermorono con Mastino i patti, pagorono parte de’ denari e d’un’altra parte dierono statichi, e a prendere la possessione Naddo Rucellai, Giovanni di Bernardino de’ Medici e Rosso di Ricciardo de’ Ricci vi mandorono, i quali passorono in Lucca per forza, e dalle genti di Mastino fu quella città consegnata loro. I Pisani non di meno seguitorono la loro impresa, e con ogni industria di averla per forza cercavano, e i Fiorentini dallo assedio liberare la volevono; e dopo una lunga guerra ne furono i Fiorentini, con perdita di denari e acquisto di vergogna, cacciati, e i Pisani ne diventorono signori. La perdita di questa città, come in simili casi avviene sempre, fece il popolo di Firenze contro a quelli che governavano sdegnare; e in tutti i luoghi e per tutte le piazze publicamente gli infamavano accusando la avarizia e i cattivi consigli loro. Erasi, nel principio di questa guerra, data autorità a venti cittadini di amministrarla, i quali messer Malatesta da Rimini per capitano della impresa eletto avevano. Costui con poco animo e meno prudenza la aveva governata; e perché eglino avevano mandato a Ruberto re di Napoli per aiuti, quel re aveva mandato loro Gualtieri duca di Atene, il quale, come vollono i cieli che al male futuro le cose preparavano, arrivò in Firenze in quel tempo appunto che la impresa di Lucca era al tutto perduta. Onde che quelli venti, veggendo sdegnato il popolo, pensorono, con eleggere nuovo capitano, quello di nuova speranza riempiere, e con tale elezione, o frenare, o torre le cagioni del calunniargli; e perché ancora avesse cagione di temere e il duca di Atene gli potesse con più autorità difendere, prima per conservadore, di poi per capitano delle loro genti d’arme lo elessono. I Grandi, i quali, per le cagioni dette di sopra, vivevono mal contenti, e avendo molti di loro conoscenza con Gualtieri, quando altre volte in nome di Carlo duca di Calavria aveva governato Firenze, pensorono che fusse venuto tempo da potere, con la rovina della città, spegnere lo incendio loro; giudicando non avere altro modo a domare quel popolo che gli aveva afflitti, che ridursi sotto un principe, il quale, conosciuta la virtù dell’una parte e la insolenzia dell’altra, frenasse l’una, e l’altra remunerasse: a che aggiugnevono la speranza del bene che ne porgevono i meriti loro, quando per loro opera egli acquistasse il principato. Furono per tanto in secreto più volte seco, e lo persuasono a pigliare la signoria del tutto, offerendogli quelli aiuti potevono maggiori. Alla autorità e conforti di costoro si aggiunse quella di alcune famiglie popolane; le quali furono Peruzzi, Acciaiuoli, Antellesi e Buonaccorsi; i quali, gravati di debiti, non potendo del loro, desideravano di quello d’altri ai loro debiti sodisfare, e con la servitù della patria dalla servitù de’ loro creditori liberarsi. Queste persuasioni accesono lo ambizioso animo del Duca di maggiore desiderio del dominare; e per darsi riputazione di severo e di giusto, e per questa via accrescersi grazia nella plebe, quelli che avevano amministrata la guerra di Lucca perseguitava, e a messer Giovanni de’ Medici, Naddo Rucellai e Guglielmo Altoviti tolse la vita, e molti in esilio, e molti in denari ne condannò.
Queste esecuzioni assai i mediocri cittadini sbigottirono, solo ai Grandi e alla plebe sodisfacevano: questa perché sua natura è rallegrarsi del male, quelli altri per vedersi vendicare di tante ingiurie dai popolani ricevute. E quando e’ passava per le strade, con voce alta la franchezza del suo animo era lodata, e ciascuno publicamente a trovare le fraude de’ cittadini e gastigarle lo confortava. Era l’uffizio de’ venti venuto meno, e la reputazione del Duca grande, e il timore grandissimo; tale che ciascuno, per mostrarsegli amico, la sua insegna sopra la sua casa faceva dipignere: né gli mancava ad essere principe altro che il titolo. E parendogli potere tentare ogni cosa securamente, fece intendere a’ Signori come e’ giudicava, per il bene della città, necessario gli fusse concessa la signoria libera; e perciò desiderava, poi che tutta la città vi consentiva, che loro ancora vi consentissero. I Signori, avvenga che molto innanzi avessero la rovina della patria loro preveduto, tutti a questa domanda si perturborono, e con tutto che ei conoscessero il loro pericolo, non di meno per non mancare alla patria, animosamente gliene negorono. Aveva il Duca, per dare di sé maggior segno di religione e di umanità, eletto per sua abitazione il convento de’ Fra’ Minori di Santa Croce; e desideroso di dare effetto al maligno suo pensiero, fece per bando publicare che tutto il popolo, la mattina seguente, fusse alla piazza di Santa Croce, davanti a lui. Questo bando sbigottì molto più i Signori, che prima non avevono fatto le parole; e con quelli cittadini i quali della patria e della libertà giudicavano amatori si ristrinsono; né pensorono, cognosciute le forze del Duca, di potervi fare altro rimedio che pregarlo, e vedere, dove le forze non erano suffizienti, se i preghi o a rimuoverlo dalla impresa o a fare la sua signoria meno acerba bastavano. Andorono per tanto parte de’ Signori a trovarlo, e uno di loro gli parlò in questa sentenza: - Noi vegniamo, o Signore, a voi, mossi prima da le vostre domande, di poi dai comandamenti che voi avete fatti per ragunare il popolo; perché ci pare essere certi che voi vogliate estraordinariamente ottenere quello che per lo ordinario noi non vi abbiamo acconsentito. Né la nostra intenzione è con alcuna forza opporci ai disegni vostri; ma solo per dimostrarvi quanto sia per esservi grave il peso che voi vi arrecate adosso e pericoloso il partito che voi pigliate; acciò che sempre vi possiate ricordare de’ consigli nostri, e di quelli di coloro i quali altrimenti, non per vostra utilità, ma per sfogare la rabbia loro, vi consigliono. Voi cercate fare serva una città la quale è sempre vivuta libera; perché la signoria che noi concedemmo già ai reali di Napoli fu compagnia e non servitù: avete voi considerato quanto, in una città simile a questa, importi e quanto sia gagliardo il nome della libertà, il quale forza alcuna non doma, tempo alcuno non consuma e merito alcuno non contrappesa? Pensate, Signore, quante forze sieno necessarie a tenere serva una tanta città: quelle che, forestiere, voi potete sempre tenere, non bastano; di quelle di dentro voi non vi potete fidare, perché quelli che vi sono ora amici e che a pigliare questo partito vi confortano, come eglino aranno battuti, con la autorità vostra, i nimici loro, cercheranno come e’ possino spegnere voi e fare principi loro; la plebe, in la quale voi confidate, per ogni accidente benché minimo si rivolge: in modo che, in poco tempo, voi potete temere di avere tutta questa città nimica; il che fia cagione della rovina sua e vostra. Né potrete a questo male trovare rimedio; perché quelli signori possono fare la loro signoria sicura che hanno pochi nimici, i quali o con la morte o con lo esilio e facile spegnere; ma negli universali odi non si trova mai sicurtà alcuna, perché tu non sai donde ha a nascere il male, e chi teme di ogni uomo non si può assicurare di persona, e se pure tenti di farlo, ti aggravi ne’ pericoli, perché quelli che rimangono si accendono più nello odio e sono più parati alla vendetta. Che il tempo a consumare i desideri della libertà non basti è certissimo: perché s’intende spesso quella essere in una città da coloro riassunta che mai la gustorono, ma solo per la memoria che ne avevano lasciata i padri loro la amavano, e perciò, quella ricuperata, con ogni ostinazione e pericolo conservano; e quando mai i padri non la avessero ricordata, i palagi publici, i luoghi de’ magistrati, le insegne de’ liberi ordini la ricordano: le quali cose conviene che sieno con massimo desiderio dai cittadini cognosciute. Quali opere volete voi che sieno le vostre che contrappesino alla dolcezza del vivere libero, o che facciano mancare gli uomini del desiderio delle presenti condizioni? Non se voi aggiugnessi a questo imperio tutta la Toscana, e se ogni giorno tornassi in questa città trionfante de’ nimici nostri: perché tutta quella gloria non sarebbe sua, ma vostra, e i cittadini non acquisterebbono sudditi, ma conservi, per i quali si vederebbono nella servitù raggravare. E quando i costumi vostri fussero santi, i modi benigni, i giudizi retti, a farvi amare non basterebbono; e se voi credessi che bastassero v’inganneresti, perché ad uno consueto a vivere sciolto ogni catena pesa e ogni legame lo strigne: ancora che trovare uno stato violento con un principe buono sia impossibile, perché di necessità conviene o che diventino simili, o che presto l’uno per l’altro rovini. Voi avete adunque a credere o di avere a tenere con massima violenza questa città (alla qual cosa le cittadelle, le guardie, gli amici di fuora molte volte non bastano), o di essere contento a quella autorità che noi vi abbiamo data. A che noi vi confortiamo, ricordandovi che quello dominio è solo durabile che è voluntario: né vogliate, accecato da un poco di ambizione, condurvi in luogo dove non potendo stare, né più alto salire, siate, con massimo danno vostro e nostro, di cadere necessitato.
Non mossono in alcuna parte queste parole lo indurato animo del Duca; e disse non essere sua intenzione di torre la libertà a quella città, ma rendergliene: perché solo le città disunite erano serve, e le unite libere; e se Firenze, per suo ordine, di sette, ambizione e nimicizie si privasse, se le renderebbe, non torrebbe la libertà; e come a prendere questo carico non la ambizione sua, ma i prieghi di molti cittadini lo conducevano; per ciò farebbono eglino bene a contentarsi di quello che gli altri si contentavano; e quanto a quelli pericoli in ne’ quali per questo poteva incorrere, non gli stimava, perché gli era ufizio di uomo non buono per timore del male lasciare il bene, e di pusillanime per un fine dubio non seguire una gloriosa impresa; e che credeva portarsi in modo che in breve tempo avere di lui confidato poco e temuto troppo cognoscerebbono. Convennono adunque i Signori, vedendo di non potere fare altro bene, che la mattina seguente il popolo si ragunasse sopra la piazza loro; con la autorità del quale si desse per uno anno al Duca la signoria, con quelle condizioni che già a Carlo duca di Calavria si era data. Era l’ottavo giorno di settembre e lo anno 1342, quando il Duca, accompagnato da messer Giovanni della Tosa e tutti i suoi consorti e da molti altri cittadini, venne in Piazza; e insieme con la Signoria salì sopra la ringhiera, che così chiamano i Fiorentini quelli gradi che sono a piè del palagio de’ Signori; dove si lessono al popolo le convenzioni fatte intra la Signoria e lui. E quando si venne, leggendo, a quella parte dove per uno anno se gli dava la signoria, si gridò per il popolo: A VITA. E levandosi messer Francesco Rustichelli, uno de’ Signori, per parlare e mitigare il tumulto, furono con le grida le parole sue interrotte; in modo che, con il consenso del popolo, non per uno anno, ma in perpetuo fu eletto signore, e preso e portato intra la moltitudine, gridando per la Piazza il nome suo. È consuetudine che quello che è preposto alla guardia del Palagio stia, in assenzia de’ Signori, serrato dentro; al quale uffizio era allora deputato Rinieri di Giotto: costui, corrotto dagli amici del Duca, sanza aspettare alcuna forza, lo messe dentro, e i Signori, sbigottiti e disonorati, se ne tornorono alle case loro, e il Palagio fu dalla famiglia del Duca saccheggiato, il gonfalone del popolo stracciato, e le sue insegne sopra il Palagio poste. Il che seguiva con dolore e noia inestimabile degli uomini buoni, e con piacere grande di quelli che, o per ignoranza o per malignità, vi consentivano.
Il Duca, acquistato che ebbe la signoria, per torre la autorità a quelli che solevono della libertà essere defensori, proibì ai Signori ragunarsi in Palagio, e consegnò loro una casa privata; tolse le insegne ai gonfalonieri delle Compagnie del popolo; levò gli ordini della giustizia contro ai Grandi; liberò i prigioni delle carcere; fece i Bardi e i Frescobaldi dallo esilio ritornare; vietò il portare arme a ciascuno, e per potere meglio difendersi da quelli di dentro, si fece amico a quelli di fuora. Benificò per tanto assai gli Aretini e tutti gli altri sottoposti ai Fiorentini; fece pace con i Pisani, ancora che fusse fatto principe perché facesse loro guerra; tolse gli assegnamenti a quegli mercatanti che nella guerra di Lucca avevano prestato alla republica denari. Accrebbe le gabelle vecchie e creò delle nuove; tolse a’ Signori ogni autorità; e i suoi rettori erano messer Baglione da Perugia e messer Guglielmo da Scesi, con i quali, e con messer Cerrettieri Bisdomini, si consigliava. Le taglie che poneva a’ cittadini erano gravi, e i giudicii suoi ingiusti; e quella severità e umanità che gli aveva finta, in superbia e crudeltà si era convertita: donde molti cittadini grandi e popolani nobili, o con danari o morti, o con nuovi modi tormentati erano. E per non si governare meglio fuora che dentro, ordinò sei rettori per il contado, i quali battevano e spogliavano i contadini. Aveva i Grandi a sospetto, ancora che da loro fusse stato benificato e che a molti di quelli avesse la patria renduta: perché non poteva credere che i generosi animi, quali sogliono essere nella nobilità, potessero sotto la sua ubbidienza contentarsi; e per ciò si volse a benificare la plebe, pensando, con i favori di quella e con le armi forestiere, potere la tirannide conservare. Venuto per tanto il mese di maggio, nel qual tempo i popoli sogliono festeggiare, fece fare alla plebe e popolo minuto più compagnie, alle quali, onorate di splendidi tituli, dette insegne e danari; donde una parte di loro andava per la città festeggiando, e l’altra con grandissima pompa i festeggianti riceveva. Come la fama si sparse della nuova signoria di costui, molti vennono del sangue franzese a trovarlo; ed egli a tutti, come a uomini più fidati, dava condizione; in modo che Firenze in poco tempo divenne, non solamente suddita ai Franzesi, ma a’ costumi e agli abiti loro; perché gli uomini e le donne, sanza avere riguardo al vivere civile, o alcuna vergogna, gli imitavano. Ma sopra ogni cosa quello che dispiaceva era la violenza che egli e i suoi, sanza alcuno rispetto, alle donne facevano. Vivevano adunque i cittadini pieni di indegnazione, veggendo la maiestà dello stato loro rovinata, gli ordini guasti, le leggi annullate, ogni onesto vivere corrotto, ogni civile modestia spenta: perché coloro che erano consueti a non vedere alcuna regale pompa non potevono sanza dolore quello di armati satelliti a piè e a cavallo circundato riscontrare. Per che, veggendo più da presso la loro vergogna, erano colui che massimamente odiavano di onorare necessitati: a che si aggiugneva il timore, veggendo le spesse morti e le continue taglie con le quali impoveriva e consumava la città. I quali sdegni e paure erano dal Duca cognosciute e temute; non di meno voleva mostrare a ciascuno di credere di essere amato: onde occorse che, avendogli rivelato Matteo di Morozzo, o per gratificarsi quello o per liberare sé dal pericolo, come la famiglia de’ Medici con alcuni altri aveva contro di lui congiurato, il Duca, non solamente non ricercò la cosa, ma fece il rivelatore miseramente morire: per il quale partito tolse animo a quelli che volessero della sua salute avvertirlo, e lo dette a quelli che cercassero la sua rovina. Fece ancora tagliare la lingua con tanta crudeltà a Bettone Cini che se ne morì, per aver biasimate le taglie che a’ cittadini si ponevano: la qual cosa accrebbe a’ cittadini lo sdegno e al Duca l’odio; perché quella città che a fare e parlare d’ogni cosa e con ogni licenza era consueta, che gli fussono legate le mani e serrata la bocca sopportare non poteva. Crebbono adunque questi sdegni in tanto e questi odi, che, non che i Fiorentini, i quali la libertà mantenere non sanno e la servitù patire non possono, ma qualunque servile popolo arebbono alla recuperazione della libertà infiammato. Onde che molti cittadini, e di ogni qualità, di perdere la vita o di riavere la loro libertà deliberorono; e in tre parti, di tre sorte di cittadini, tre congiure si feciono: Grandi, popolani e artefici; mossi, oltre alle cause universali, da parere ai Grandi non avere riavuto lo stato, a’ popolani averlo perduto, e agli artefici de’ loro guadagni mancare. Era arcivescovo di Firenze messer Agnolo Acciaiuoli, il quale con le prediche sue aveva già le opere del Duca magnificato e fattogli appresso al popolo grandi favori: ma poi che lo vide signore, e i suoi tirannici modi cognobbe, gli parve avere ingannato la patria sua; e per emendare il fallo commesso, pensò non avere altro rimedio se non che quella mano che aveva fatta la ferita la sanasse; e della prima e più forte congiura si fece capo; nella quale erano i Bardi, Rossi, Frescobaldi, Scali, Altoviti, Magalotti, Strozzi e Mancini. Dell’una delle due altre erano principi messer Manno e Corso Donati; e con questi i Pazzi, Cavicciuli, Cerchi e Albizzi. Della terza era il primo Antonio Adimari; e con lui Medici, Bordoni, Rucellai e Aldobrandini. Pensorono costoro di ammazzarlo in casa gli Albizzi, dove andasse il giorno di Santo Giovanni a vedere correre i cavagli credevano; ma non vi essendo andato, non riuscì loro. Pensorono di assaltarlo andando per la città a spasso; ma vedevono il modo difficile, perché bene accompagnato e armato andava, e sempre variava le andate, in modo che non si poteva in alcuno luogo certo aspettarlo. Ragionorono di ucciderlo ne’ Consigli: dove pareva loro rimanere, ancora che fusse morto, a discrezione delle forze sue. Mentre che intra i congiurati queste cose si praticavano, Antonio Adimari con alcuni suoi amici sanesi, per avere da loro gente, si scoperse, manifestando a quelli parte de’ congiurati, affermando tutta la città essere a liberarsi disposta: onde uno di quelli comunicò la cosa a messer Francesco Brunelleschi, non per scoprirla, ma per credere che ancora egli fussi de’ congiurati. Messer Francesco, o per paura di sé, o per odio aveva contro ad altri, rivelò il tutto al Duca; onde che Pagolo del Mazzeca e Simone da Monterappoli furono presi; i quali, rivelando la qualità e quantità de’ congiurati, sbigottirono il Duca; e fu consigliato più tosto gli richiedesse che pigliasse, perché, se se ne fuggivono, se ne poteva sanza scandolo, con lo esilio, assicurare. Fece per tanto il Duca richiedere Antonio Adimari; il quale, confidandosi ne’ compagni, subito comparse. Fu sostenuto costui: ed era da messer Francesco Brunelleschi e messer Uguccione Buondelmonti consigliato corresse armato la terra, e i presi facesse morire; ma a lui non parve, parendogli avere a tanti nimici poche forze; e però prese un altro partito, per il quale, quando gli fusse successo, si assicurava de’ nimici e alle forze provedeva. Era il Duca consueto richiedere i cittadini, che ne’ casi occorrenti lo consigliassero: avendo per tanto mandato fuora a provedere di gente, fece una listra di trecento cittadini, e gli fece da’ suoi sergenti, sotto colore di volere consigliarsi con loro, richiedere: e poi che fussero adunati, o con la morte o con le carcere spegnerli disegnava. La cattura di Antonio Adimari e il mandare per le genti, il che non si potette fare secreto, aveva i cittadini, e massime i colpevoli, sbigottito; onde che da’ più arditi fu negato il volere ubbidire. E perché ciascuno aveva letta la listra, trovavano l’uno l’altro, e s’inanimivano a prendere le armi, e volere più tosto morire come uomini, con le armi in mano, che come vitelli essere alla beccheria condotti: in modo che in poco di ora tutte a tre le congiure l’una all’altra si scoperse, e deliberorono il dì seguente, che era il 26 di luglio 1343, fare nascere un tumulto in Mercato Vecchio, e dopo quello armarsi e chiamare il popolo alla libertà.
Venuto adunque l’altro giorno, al suono di nona, secondo l’ordine dato, si prese le armi; e il popolo tutto, alla boce della libertà, si armò; e ciascuno si fece forte nelle sue contrade, sotto insegne con le armi del popolo, le quali dai congiurati secretamente erano state fatte. Tutti i capi delle famiglie, così nobili come popolane, convennono, e la difesa loro e la morte del Duca giurorono, eccetto che alcuni de’ Buondelmonti e de’ Cavalcanti e quelle quattro famiglie di popolo che a farlo signore erano concorse, i quali, insieme con i beccai e altri della infima plebe, armati, in Piazza, in favore del Duca concorsono. A questo romore armò il Duca il Palagio, e i suoi, che erano in diverse parti alloggiati, salirono a cavallo per ire in Piazza, e per la via furono in molti luoghi combattuti e morti; pure circa trecento cavagli vi si condussono. Stava il Duca dubio s’egli usciva fuori a combattere i nimici, o se, dentro, il Palagio difendeva. Dall’altra parte i Medici, Cavicciuli, Rucellai e altre famiglie state più offese da quello, dubitavano che, s’egli uscisse fuora, molti che gli avieno preso l’armi contro non se gli scoprissero amici, e desiderosi di torgli la occasione dello uscire fuora e dello accrescere le forze, fatto testa, assalirono la Piazza. Alla giunta di costoro, quelle famiglie popolane che si erano per il Duca scoperte, veggendosi francamente assalire, mutorono sentenza, poi che al Duca era mutata fortuna, e tutte si accostorono a’ loro cittadini, salvo che messer Uguccione Buondelmonti, che se ne andò in Palagio, e messer Giannozzo Cavalcanti il quale, ritiratosi con parte de’ suoi consorti in Mercato Nuovo, salì alto sopra un banco, e pregava il popolo che armato andava in Piazza, che in favore del Duca vi andasse; e per sbigottirgli accresceva le sue forze, e gli minacciava che sarebbono tutti morti, se, ostinati, contro al Signore seguissero la impresa: né trovando uomo che lo seguitasse, né che della sua insolenza lo gastigasse veggendo di affaticarsi invano, per non tentare più la fortuna, dentro alle sue case si ridusse. La zuffa intanto, in Piazza, intra il popolo e le genti del Duca, era grande; e benché questa il Palagio aiutasse, furono vinte; e parte di loro si missono nella podestà de’ nimici, parte, lasciati i cavagli, in Palagio si fuggirono. Mentre che la Piazza si combatteva, Corso e messer Amerigo Donati, con parte del popolo, ruppono le Stinche, le scritture del podestà e della publica camera arsono, saccheggiorono le case de’ rettori, e tutti quelli ministri del Duca che poterono avere ammazzorono. Il Duca da l’altro canto, vedendosi avere perduta la Piazza, e tutta la città nimica, e sanza speranza di alcuno aiuto, tentò se poteva con qualche umano atto guadagnarsi il popolo; e fatto venire a sé i prigioni, con parole amorevoli e grate gli liberò; e Antonio Adimari, ancora che con suo dispiacere, fece cavaliere; fece levare le insegne sue sopra il Palagio e porvi quelle del popolo: le quali cose, fatte tardi e fuora di tempo, perché erano forzate e senza grado, gli giovorono poco. Stava per tanto mal contento, assediato in Palagio, e vedeva come, per avere voluto troppo, perdeva ogni cosa; e di avere a morire fra pochi giorni o di fame o di ferro temeva. I cittadini, per dare forma allo stato, in Santa Reparata si ridussono, e creorono quattordici cittadini, per metà grandi e popolani, i quali, con il Vescovo, avessero qualunque autorità di potere lo stato di Firenze riformare. Elessono ancora sei, i quali l’autorità dei podestà, tanto che quello che era eletto venisse, avessero. Erano in Firenze, al soccorso del popolo, molte genti venute, intra i quali erano Sanesi con sei ambasciadori, uomini assai nella loro patria onorati. Costoro intra il popolo e il Duca alcuna convenzione praticorono; ma il popolo recusò ogni ragionamento d’accordo, se prima non gli era nella sua potestà dato messer Guglielmo d’Ascesi, e il figliuolo insieme con messer Cerrettieri Bisdomini, consegnato. Non voleva il Duca acconsentirlo; pure, minacciato dalle genti che erano rinchiuse con lui, si lasciò sforzare. Appariscono senza dubbio gli sdegni maggiori, e sono le ferite più gravi, quando si recupera una libertà che quando si difende: furono messer Guglielmo e il figliuolo posti intra le migliaia de’ nimici loro; e il figliuolo non aveva ancora diciotto anni, non di meno la età, la forma, la innocenza sua non lo poté dalla furia della moltitudine salvare; e quelli che non poterono ferirgli vivi, gli ferirono morti; né saziati di straziargli con il ferro, con le mani e con i denti gli laceravano. E perché tutti i sensi si sodisfacessero nella vendetta avendo udito prima le loro querele, veduto le loro ferite, tocco le loro carni lacere, volevono ancora che il gusto le assaporasse, acciò che, come tutte le parti di fuora ne erano sazie, quelle di dentro ancora se ne saziassero. Questo rabbioso furore quanto egli offese costoro, tanto a messer Cerrettieri fu utile; perché, stracca la moltitudine nelle crudeltà di questi duoi, di quello non si ricordò: il quale, non essendo altrimenti domandato, rimase in Palagio, donde fu la notte poi, da certi suoi parenti e amici, a salvamento tratto. Sfogata la moltitudine sopra il sangue di costoro si concluse lo accordo: che il Duca se ne andasse, con i suoi e sue cose, salvo; e a tutte le ragioni aveva sopra Firenze renunziasse; e di poi, fuora del dominio, nel Casentino, alla renunzia ratificasse. Dopo questo accordo, a dì 6 di agosto, partì di Firenze da molti cittadini accompagnato; e arrivato in Casentino, alla renunzia, ancora che mal volentieri, ratificò; e non arebbe osservata la fede, se dal conte Simone non fusse stato di ricondurlo in Firenze minacciato. Fu questo Duca, come i governi suoi dimostrorono, avaro e crudele, nelle audienze difficile, nel rispondere superbo: voleva la servitù, non la benivolenza degli uomini; e per questo più di essere temuto che amato desiderava. Né era da essere meno odiosa la sua presenza, che si fussero i costumi; perché era piccolo, nero, aveva la barba lunga e rada: tanto che da ogni parte di essere odiato meritava: onde che, in termine di dieci mesi, i suoi cattivi costumi gli tolsono quella signoria che i cattivi consigli d’altri gli avevono data.
Questi accidenti seguiti nella città dettono animo a tutte le terre sottoposte ai Fiorentini di tornare nella loro libertà; in modo che Arezzo, Castiglione, Pistoia, Volterra, Colle, San Gimignano si ribellorono: talché Firenze, in un tratto, del tiranno e del suo dominio priva rimase, e nel recuperare la sua libertà insegnò a’ subietti suoi come potessero recuperare la loro. Seguita adunque la cacciata del Duca e la perdita del dominio loro, i quattordici cittadini e il Vescovo pensorono che fusse più tosto da placare i sudditi loro con la pace che farsegli inimici con la guerra, e mostrare di essere contenti della libertà di quelli come della propria. Mandorono per tanto oratori ad Arezzo, a renunziare allo imperio che sopra quella città avessero e a fermare con quelli accordo, acciò che, poi che come sudditi non potevano, come amici della loro città si valessero. Con l’altre terre ancora in quel modo che meglio poterono convennono, pure che se le mantenessero amiche, acciò che loro liberi potessero aiutare la loro libertà mantenere. Questo partito, prudentemente preso, ebbe felicissimo fine; perché Arezzo, non dopo molti anni, tornò sotto lo imperio de’ Fiorentini, e l’altre terre, in pochi mesi, alla pristina ubbidienza si ridussono. E così si ottiene molte volte più presto e con minori pericoli e spesa le cose a fuggirle, che con ogni forza e ostinazione perseguitandole.
Posate le cose di fuora, si volsono a quelle di dentro, e dopo alcuna disputa fatta intra i Grandi e i popolani, conclusono che i Grandi nella Signoria la terza parte e negli altri ufici la metà avessero. Era la città, come di sopra dimostrammo, divisa a sesti, donde che sempre sei Signori, d’ogni sesto uno, si erano fatti; eccetto che, per alcuni accidenti, alcuna volta dodici o tredici se ne erano creati, ma poco di poi erano tornati a sei. Parve per tanto da riformarla in questa parte, sì per essere i sesti male distribuiti, sì perché, volendo dare la parte ai Grandi, il numero de’ Signori accrescere conveniva. Divisono per tanto la città a quartieri, e di ciascuno creorono tre Signori; lasciorono indietro il gonfalonieri della giustizia e quelli delle Compagnie del popolo, e in cambio de’ dodici buoni uomini, otto consiglieri, quattro di ciascuna sorte, creorono. Fermato, con questo ordine, questo governo, si sarebbe la città posata, se i Grandi fussero stati contenti a vivere con quella modestia che nella vita civile si richiede; ma eglino il contrario operavano; perché, privati, non volevono compagni, e ne’ magistrati volevono essere signori; e ogni giorno nasceva qualche esemplo della loro insolenzia e superbia: la qual cosa al popolo dispiaceva; e si doleva che, per uno tiranno che era spento, n’erano nati mille. Crebbono adunque tanto da l’una parte le insolenzie e da l’altra gli sdegni, che i capi de’ popolani mostrorono al Vescovo la disonestà de’ Grandi e la non buona compagnia che al popolo facevano, e lo persuasono volesse operare che i Grandi di avere la parte negli altri ufici si contentassero, e al popolo il magistrato de’ Signori solamente lasciassero. Era il Vescovo naturalmente buono, ma facile ora in questa ora in quell’altra parte a rivoltarlo: di qui era nato che, ad instanzia de’ suoi consorti, aveva prima il Duca di Atene favorito, di poi, per consiglio d’altri cittadini, gli aveva congiurato contro; aveva, nella riforma dello stato, favorito i Grandi, e così ora gli pareva di favorire il popolo, mosso da quelle ragioni gli furono da quelli cittadini popolani riferite. E credendo trovare in altri quella poca stabilità che era in lui, di condurre la cosa d’accordo si persuase, e convocò i quattordici, i quali ancora non avevono perduta l’autorità, e con quelle parole seppe migliori gli confortò a volere cedere il grado della Signoria al popolo, promettendone la quiete della città, altrimenti la rovina e il disfacimento loro. Queste parole alterorono forte l’animo de’ Grandi; e messer Ridolfo de’ Bardi con parole aspre lo riprese, chiamandolo uomo di poca fede, e rimproverandogli l’amicizia del Duca come leggieri e la cacciata di quello come traditore; e gli concluse che quelli onori ch’eglino avevono con loro pericolo acquistati volevono con loro pericolo difendere. E partitosi alterato, con gli altri, dal Vescovo, ai suoi consorti e a tutte le famiglie nobili lo fece intendere. I popolani ancora agli altri la mente loro significorono, e mentre i Grandi si ordinavano, con gli aiuti, alla difesa de’ loro Signori, non parve al popolo di aspettare che fussero ad ordine, e corse armato al Palagio, gridando che voleva che i Grandi rinunziassero al magistrato. Il romore e il tumulto era grande: i Signori si vedevono abbandonati, perché i Grandi, veggendo tutto il popolo armato, non si ardirono a pigliare le armi, e ciascuno si stette dentro alle case sue; di modo che i Signori popolani, avendo fatto prima forza di quietare il popolo, affermando quelli loro compagni essere uomini modesti e buoni, e non avendo potuto per meno reo partito alle case loro gli rimandorono, dove con fatica salvi si condussono. Partiti i Grandi di Palagio, fu tolto ancora l’uficio ai quattro consiglieri grandi, e fecionne infino in dodici popolani; e gli otto Signori che restorono feciono uno gonfaloniere di giustizia e sedici gonfalonieri delle Compagnie del popolo, e riformorono i Consigli in modo che tutto il governo nello arbitrio del popolo rimase.
Era, quando queste cose seguirono, carestia grande nella città; di modo che i Grandi e il popolo minuto erano mal contenti, questo per la fame, quelli per avere perdute le dignità loro: la qual cosa dette animo a messer Andrea Strozzi di potere occupare la libertà della città. Costui vendeva il suo grano minore pregio che gli altri, e per questo alle sue case molte genti concorrevano; tanto che prese ardire di montare una mattina a cavallo, e con alquanti di quelli dietro, chiamare il popolo alle armi; e in poco di ora ragunò più di 4000 uomini insieme, con i quali se n’andò in piazza de’ Signori, e che fusse loro aperto il Palagio domandava. Ma i Signori, con le minacce e con le armi, dalla Piazza gli discostorono; di poi talmente con i bandi gli sbigottirono, che a poco a poco ciascuno si tornò alle case sue, di modo che messer Andrea, ritrovandosi solo potette con fatica, fuggendo, dalle mani de’ magistrati salvarsi. Questo accidente, ancora che fusse temerario e che gli avesse avuto quel fine che sogliono simili moti avere, dette speranza ai Grandi di potere sforzare il popolo, veggendo che la plebe minuta era in discordia con quello; e per non perdere questa occasione, armarsi di ogni sorte aiuti conclusono, per riavere per forza ragionevolmente quello che ingiustamente, per forza, era stato loro tolto. E crebbono in tanta confidenza del vincere, che palesemente si provedevono d’armi, affortificavano le loro case, mandavano ai loro amici, infino in Lombardia, per aiuti. Il popolo ancora, insieme con i Signori, faceva i suoi provedimenti, armandosi e a Perugini e a Sanesi chiedendo soccorso. Già erano degli aiuti e all’una e all’altra parte comparsi: la città tutta era in arme: avevano fatto i Grandi di qua d’Arno testa in tre parti: alle case de’ Cavicciuli propinque a San Giovanni, alle case de’ Pazzi e de’ Donati a San Piero Maggiore, a quelle de’ Cavalcanti in Mercato Nuovo; quegli di là d’Arno s’erano fatti forti ai ponti e nelle strade delle case loro: i Nerli il ponte alla Carraia, i Frescobaldi e Mannegli Santa Trinità, i Rossi e Bardi il Ponte Vecchio e Rubaconte difendevano. I popolani, da l’altra parte, sotto il gonfalone della giustizia e le insegne delle Compagnie del popolo si ragunorono.
E stando in questa maniera, non parve al popolo di differire più la zuffa; e i primi che si mossono furono i Medici e i Rondinegli i quali assalirono i Cavicciuli da quella parte che, per la piazza di San Giovanni, entra alle case loro. Quivi la zuffa fu grande, perché dalle torri erano percossi con i sassi, e da basso con le balestre feriti. Durò questa battaglia tre ore; e tuttavia il popolo cresceva, tanto che i Cavicciuli, veggendosi dalla moltitudine sopraffare, e mancare di aiuti, si sbigottirono e si rimissono nella podestà del popolo; il quale salvò loro le case e le sustanze; solo tolse loro le armi, e a quelli comandò che per le case de’ popolani loro parenti e amici, disarmati, si dividessero. Vinto questo primo assalto, furono i Donati e i Pazzi ancora loro facilmente vinti per essere meno potenti di quelli. Solo restavano, di qua d’Arno, i Cavalcanti i quali di uomini e di sito erano forti: non di meno, vedendosi tutti i gonfaloni contro, e gli altri da tre gonfaloni soli essere stati superati, senza fare molta difesa si arrenderono. Erano già le tre parti della città nelle mani del popolo: restavane una nel potere de’ Grandi ma la più difficile, sì per la potenza di quelli che la difendevano, sì per il sito, sendo dal fiume d’Arno guardata; talmente che bisognava vincere i ponti, i quali ne’ modi di sopra dimostri erano difesi. Fu per tanto il Ponte Vecchio il primo assaltato; il quale fu gagliardamente difeso, perché le torri armate, le vie sbarrate e le sbarre da ferocissimi uomini guardate erano: tanto che il popolo fu con grave suo danno ributtato. Conosciuto per tanto come quivi si affaticavano invano, tentorono di passare per il ponte Rubaconte; e trovandovi le medesime difficultà, lasciati alla guardia di questi duoi ponti quattro gonfaloni, con gli altri il ponte alla Carraia assalirono. E benché i Nerli virilmente si difendessero, non potettono il furore del popolo sostenere, sì per essere il ponte (non avendo torri che lo difendessero) più debole, sì perché i Capponi e l’altre famiglie popolane loro vicine gli assalirono: talché, essendo da ogni parte percossi, abbandonorono le sbarre e dettono la via al popolo; il quale, dopo questi, i Rossi e i Frescobaldi vinse: per che tutti i popolani di là d’Arno con i vincitori si congiunsono. Restavano adunque solo i Bardi, i quali né la rovina degli altri, né l’unione del popolo contro di loro, né la poca speranza degli aiuti poté sbigottire; e vollono più tosto, combattendo, o morire o vedere le loro case ardere e saccheggiare, che volontariamente allo arbitrio de’ loro nimici sottomettersi. Defendevonsi per tanto in modo che il popolo tentò più volte invano, o dal Ponte Vecchio o dal ponte Rubaconte, vincerli; e sempre fu con la morte e ferite di molti ributtato. Erasi, per i tempi adietro, fatto una strada per la quale si poteva dalla Via Romana, andando intra le case de’ Pitti, alle mura poste sopra il colle di San Giorgio pervenire: per questa via il popolo mandò sei gonfaloni, con ordine che dalla parte di dietro le case de’ Bardi assalissero. Questo assalto fece a’ Bardi mancare di animo e al popolo vincere la impresa; perché, come quelli che guardavano le sbarre delle strade sentirono le loro case essere combattute, abbandonorono la zuffa e corsono alla difesa di quelle. Questo fece che la sbarra del Ponte Vecchio fu vinta e i Bardi da ogni parte messi in fuga; i quali da’ Quaratesi, Panzanesi e Mozzi furono ricevuti. Il popolo intanto, e di quello la parte più ignobile, assetato di preda, spogliò e saccheggiò tutte le loro case, e i loro palagi e torri disfece e arse con tanta rabbia che qualunque più al nome fiorentino crudele nimico si sarebbe di tanta rovina vergognato.
Vinti i Grandi, riordinò il popolo lo stato; e perché gli era di tre sorte popolo, potente, mediocre e basso, si ordinò che i potenti avessero duoi Signori, tre i mediocri e tre i bassi; e il gonfaloniere fusse ora dell’una ora dell’altra sorte. Oltra di questo, tutti gli ordini della giustizia contro ai Grandi si riassunsono; e per fargli più deboli, molti di loro intra la popolare moltitudine mescolorono. Questa rovina de’ nobili fu sì grande e in modo afflisse la parte loro, che mai poi a pigliare le armi contro al popolo si ardirono, anzi continuamente più umani e abietti diventorono. Il che fu cagione che Firenze, non solamente di armi, ma di ogni generosità si spogliasse. Mantennesi la città, dopo questa rovina, quieta infino all’anno 1353; nel corso del qual tempo seguì quella memorabile pestilenza da messer Giovanni Boccaccio con tanta eloquenzia celebrata, per la quale in Firenze più che novantaseimila anime mancarono. Feciono ancora i Fiorentini la prima guerra con i Visconti, mediante la ambizione dello Arcivescovo, allora principe in Milano; la quale guerra come prima fu fornita, le parti dentro alla città cominciorono; e benché fusse la nobilità distrutta, non di meno alla fortuna non mancorono modi a fare rinascere, per nuove divisioni, nuovi travagli.