< Italiani illustri
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Cola di Renzo
Cecco d'Ascoli Ovidio


Stagione infelicissima per l’Italia furono i settant’anni che i papi, abbandonata Roma, trasferirono la sede qua e là e finalmente in Avignone. Di là mal governavano la Stato pontifizio: sebbene sovrani, restavano o almeno pareano ligi ai re, in mezzo a’ cui paesi abitavano: onde meno ascoltata era la loro voce nell’insinuar la pace e regolare le pretensioni de’ varj principi. Nelle Romagne intanto i baroni aveano preso baldanza, e mancando il dominator supremo, ciascuno si licenziava ad atti violenti. Il popolo ne soffriva orribilmente, oltre trovarsi ridotto a miseria dall’essere scomparsa l’aurea ricchezza de’ prelati e de’ forestieri. Le bande di ventura, unica milizia di quel tempo, guastavano gli amici non men che i nemici: sicchè la povera Italia era corsa da genti d’ogni nazione, guerreggiando per l’anticesare Carlo di Boemia Boemi, Schiavoni, Polacchi, Croati, Bernesi; pel papa Spagnuoli, Bretoni, Guaschi, Provenzali; Tedeschi, Inglesi, Borgognoni pei Visconti. Roma sopratutto soffriva dalla lontananza dei papi, unica sua vita; trascurata la giustizia e l’amministrazione, le vie ingombre da rovine di rovine, le chiese cascanti, spogliati gli altari, i sacerdoti senza il necessario decoro de’ paramenti; signori romani faceano traffico de’ monumenti antichi, di cui si abbellivano le città vicine e la indolente Napoli1. Intanto inviperivano le fazioni dei Colonna e degli Orsini, tra i quali sceglievasi ordinariamente il senatore. Per prendere parte con loro o per non restarne oppressi, anche gli altri signorotti aveano mutato in fortezze i palazzi e il Coliseo e gli altri avanzi della magnificenza romana; la campagna era corsa e guastata da masnade; i baroni minacciavano e rapivano, deturpavano gli asili delle vergini sacre, traevano a disonore le zitelle, involavano la moglie dalla casa maritale; i lavoranti, quando andavano fuori a opera, erano derubati fin sulle porte di Roma2.

Nella lontananza dei papi il popolo aveva introdotto un governo municipale, divisa la città in tredici rioni, ciascuno con un banderale; quattro membri per rione componevano il consiglio del popolo, che aveva anche un altro collegio di venticinque membri, con un capitano per comandare le forze, senza rappresentanza negli interessi civili. A capo del popolo come politica comunità stava il prefetto di Roma, mentre il senatore rappresentava la legge, superiore anche ai nobili: e qualora un nuovo papa fosse eletto, mandavansi deputati ad Avignone a prestargli l’omaggio ligio.

All’elezione di Clemente VI era fra questi Nicola figlio di Lorenzo3, un de’ ciucciari che portavano l’acqua in città, prima che Sisto V vi conducesse la Felice, e che Roma diventasse la città delle fontane. Cola di Renzo (come lo chiamavano) dalla lettura de’ classici e massime dalle magnificenzie di Giulio Cesare, avea ricavato l’ammirazione per la repubblica romana, ed accorato di vederla allora abbandonata dai papi in balia di masnadieri (1347), pensò rinnovarne l’antico lustro4; come spesso facciamo noi Italiani, scambiando le memorie per speranze. Ai degeneri figli di quelli che aveano udito Gracco e Cicerone, egli parlava delle glorie vetuste; ponea sottocchio iscrizioni e simboli, atti a lusingarne la vanità e scandagliarne la risolutezza, e meditava i diritti del popolo. L’uccisione d’un suo fratello, fatta dai Colonna impunemente, viepiù esecrata gli rese quella nobiltà, non meno faziosa e più prepotente e compatta che l’antica; sicchè pensava restituire i tribuni della plebe; ed associando alle classiche le ricordanze di Crescenzio e di Arnaldo5, fantasticava reprimere come i nobili, così i pontefici, disertori dell’ovile.

Il popolo romano, le cui idee liberali sono, come l’orizzonte della loro città, circoscritte fra i sette colli, dà orecchio volenteroso a chi gli rammemora le grandezze di quelli che considera come suoi avi; i letterati, che allora cominciavano a leggere in Livio e Sallustio, piacevansi di riudire gli antichi nomi; Cola sale in credito come chiunque offre un rimedio a gravissima malattia; poi, côlta l’occasione che i baroni erano fuori, invita il popolo ad un’adunanza ov’egli favellerà. Passa la notte precedente in chiesa ad orare; poi sentito messa, armato tutto fuorchè la testa, sale al Campidoglio, cinto da giovani infervorati e da una pompa di bandiere, pennoni, emblemi, di tutto insomma quel chiassoso tripudio che in niun luogo si conosce quanto a Roma; dalla gradinata non discorre come dee un riformatore, ma declama come sogliono i demagoghi, ed acquistandogli autorità il vescovo d’Orvieto, vicario del papa, che venivagli a fianco, lesse un regolamento

per la riforma del buono stato, assicurando agli altri, e fors’egli stesso persuadendosi che il papa gli saprebbe grado di sottrar Roma sua alla tirannide de’ baroni.

Consistevano le riforme di lui in garantire la persona de’ cittadini contro gli arbitrj della nobiltà, ordinare milizie urbane in Roma e vascelli sulle coste, sicurare ponti e vie, abbattere le fortezze e gli steccati da cui i baroni esercitavano la prepotenza; pronta giustizia; granaj perchè il povero non patisse fame; provvidenze pubbliche per le vedove e gli orfani, massime di uccisi in battaglia. Invitò ciascun Comune a spedire due sindaci al congresso generale di Roma, il che è il primo esempio d’un parlamento rappresentativo: sicchè con questo e colla federazione italiana ch’egli proponeva, un’êra nuova poteasi aprire all’Italia, posta a capo dell’Europa un’altra volta.

Queste ultime finezze non le intendeva il popolo; bensì la sicurezza, il buon mercato, i sussidj, il ritorno del papa: incaricò Cola di effettuar quella costituzione col titolo di tribuno, e gli diede braccia per ridurre in fatto i provvedimenti: ed esso s’impadronisce delle porte, e fa appiccare alcuni masnadieri côlti in città. Stefano Colonna, che alle prime avea stracciato l’ordine mandatogli d’uscire di Roma, udendo che Cola raccoglieva le compagnie del popolo, n’ebbe assai a salvarsi; e poichè egli era il più potente fra i nobili, gli altri ne rimasero sgomenti, e se n’andarono, abbandonando i loro bravacci alla giustizia.

Rimessa quiete in città, Cola spedì corrieri alle inaccessibili rôcche dei Colonna, degli Orsini, dei Savelli, citandoli a comparire e giurare la pace; ed essi il fecero, promettendo non turbar le strade, non nuocere al popolo o ai tribuni, non ricettare malfattori; sicchè i Cristiani, che d’ogni parte venivano alle soglie de’ santi apostoli, trovavano un’isolita sicurezza; e reduci in patria, magnificavano la robustezza del tribuno.

Ad Avignone avea messo sgomento quel primo moto, quando giunsero lettere di «Nicola, severo e clemente, di libertà, di pace e di giustizia tribuno, della santa romana repubblica liberatore illustre», ove prometteva fedeltà alla santa sede; altre ne spedì ai potentati di tutta Italia, di Francia, di Germania. Il tentativo parve lodevole a quei molti che pasceansi di rimembranze più che d’opportunità: gli applausi, che il Petrarca diede al cavaliero che onorava tutta Italia, lo fecero sulla parola di lui ammirare dal mondo letterato6. Molte città gli si sottoposero, altre il sostennero, alcune invece il trattarono da pazzo; Giovan di Vico signore di Viterbo, e quel d’Orvieto furono costretti all’omaggio; Firenze, Siena, Perugia mandarongli forze, le città dell’Umbria deputati, Gaeta diecimila fiorini d’oro; Venezia e Luchino Visconti se gli chiarirono alleati; Giovanna di Napoli onorò i suoi messi; l’imperatore Lodovico non meno; mentre i Pepoli, gli Estensi, gli Scala, i Gonzaga, i Carrara, gli Ordelaffi, i Malatesti lo prendevano in beffa.

Ed egli parve giustificare quest’ultimi dacchè, avendo nel carattere più vanità che vigore, a que’ cominciamenti così leali, così disinteressati lasciò tener dietro puerilità ambiziose.

Cominciò a circondarsi di fasto, forse per allettare il popolo; vivea di costosissime splendidezze; si fece ornar cavaliere con una solennità che mai la maggiore, lavandosi nella conca di Costantino; assumeva anche la dalmatica, usata dagli antichi imperadori alla loro coronazione; e col bastone del comando e sette corone in capo, simbolo delle sette virtù, brandendo la spada verso le quattro plaghe del cielo, diceva: Io giudicherò il globo della terra secondo la giustizia e i popoli secondo l’equità. In virtù di questo dominio, che pretendeva sul mondo, citò Luigi re d’Ungheria e Giovanna di Napoli, Lodovico il Bavaro imperatore e Carlo anticesare perchè producessero al suo tribunale i titoli di loro elezione, «la quale, come sta scritto, non appartiene che al popolo romano»; intimò al papa di tornar alla sua sede; dichiarò libere tutte le città d’Italia, alle quali, «volendo imitare la benignità e libertà romana7» concesse la romana cittadinanza e il diritto di eleggere gl’imperatori; agli Stati italiani, al papa, all’imperatore intimava mandassero legati a Roma onde convenire della pace e del bene di tutta Europa.

Il papa, che dapprincipio l’avea nominato rettore pontifizio, s’irritò del vederlo trascendere in poteri e pretensioni; il vicario di lui, che sin allora l’aveva secondato, protestò contro l’intimata fatta al pontefice e ai principi; l’opinione, che l’appoggiò sinchè trattavasi di benificare il popolo e di riformare, andavalo abbandonando; e gli rinfacciavano le disordinate spese, di cui dicevansi conseguenza le tasse che ogni governo nuovo è obbligato imporre.

Allora Cola pensò atterrire, e procacciarsi tesori col mandare a morte i maggiori baroni; ma le grida popolari gl’impedirono il misfatto, e lo costrinsero a restituirli in libertà. Essi, non respirando che vendetta, s’afforzarono nelle castella, raggomitolarono gli scontenti, e fecero guerra ai contorni, guastando i ricolti, vicini alla falce. Il buon letterato, il pacifico tribuno, indarno chiamatili a scusarsi in giudizio, si vide obbligato a prendere le armi; e sul luogo, ove combattendo erano periti il vecchio Colonna con un figlio ed altri signori, armò il proprio figliuolo cavaliere della vittoria.

Ma al popolo che giovavano più questi trionfi? Il tribuno trovavasi assottigliato del denaro e della rendita; i mezzi di procurarsene irritavano; onde il cardinal legato, ripresa fermezza, sentenziò Cola traditore ed eretico, e s’accordò coi baroni per affamare Roma. Colla voce e colla campana a stormo tentò Cola ravvivare l’entusiasmo del popolo; ma non gli bastò il coraggio per sostenere la pena mag- giore, quella dell’abbandono: pregò, pianse, tremò, infine rinunziò, e andossi a chiudere in castel Sant’Angelo coi parenti e i pochi fedeli (1348) sinchè fuggì. I suoi nemici rimbalditi, e quei che tremavano di esserglisi mostrati amici, lo fecero appiccare in effigie, e distrussero in un fiato quanto in sette mesi aveva operato.

Il tribuno, errante ma non malvagio, vissuto alcuni anni tra gli eremiti francescani di Monte Majella negli Appennini, ove serpeggiavano le idee de’ Fraticelli, contrarie all’autorità de’ pontefici e al fasto de’ prelati, nell’entusiasmo della solitudine si credette chiamato a cooperare ad una riforma universale, che Dio stava per effettuare onde correggere la ribalda vita del mondo. Per avacciare l’opera si presentò a Carlo di Boemia, dicendo avergli a confidare gravi segreti, e incoraggiarlo alla liberazione d’Italia, e a fornirlo d’armi, senza di cui la giustizia non vale. Ma questi il fece prendere e recare ad Avignone, ove trovò grazia, e per intromessa anche del Petrarca fu assolto della scomunica e lasciato vivere in pace.

Roma riprese freno di temperanza sotto al legato e a due senatori; e il giubileo del 1350 vi attirò gente e danaro8. Ma per reprimere la rimbaldanzita nobiltà erasi messo tribuno del popolo Francesco Baroncelli, col quale accordatosi l’Albornoz legato pontifizio costrinse il prefetto Giovanni di Vico a cedere le molte terre che aveva occupate, e unì in sè la signoria delle città. Il popolo gli chiese allora per rettore Cola Rienzi che seco era venuto (1354); ed egli in fatto lo istituì senatore, perchè colla sua popolarità rimettesse la quiete. Vi riuscì, e fatto cogliere e processare frà Moriale che da molti anni devastava l’Italia con una sua banda di venturieri, il mandò sul palco. Cola fu dal papa riconosciuto nobile cavaliero; ma esercitando la potenza a nome del pontefice, cessava di essere caro al popolo: le imposte sul sale e sul vino colmarono lo scontento de’ Romani, che sollevatisi e gridando, Mora il traditore che ha fatto la gabella, assalironlo in palazzo. Non credendo gli minacciassero la vita, egli aspettò quella furia in abito senatorio e col gonfalone del popolo in mano; ma come vide piovere sassi e fuoco cercò trafugarsi, e scoperto fu trucidato e appeso alle forche (8 ottobre). Così il popolo spezza i proprj idoli.



  1. «De vestris marmoreis columnis, de liminibus templorum.... de imaginibus sepulcrorum, sub quibus patrum vestrorum venerabilis cinis erat, ut reliquas sileam, desidiosa Neapolis adornatur». Così il Petrarca, dalle cui lettere desumo questa dipintura.
  2. «La citiate di Roma stava in grannissimo travaglio. Rettori non avea. Onne di se commettea. Da onne parte se derobbava. Dove era loco de vergini, se detorpavano. Non ce era reparo. Le piccole zitelle se ficcavano, e menavanose a deshonore. La moglie era tolta a lo marito ne lo proprio lietto. Li lavoratori, quando ievano fora a lavorare, erano derobbati. Dove? fin su la porta di Roma. Li pellegrini, li quali viengo pe merito de le loro anime a le sante chiesie, non erano defesi, ma erano scannati e derobbati. Li preti stavano per male fare. Onne lascivia, onne male, nulla justitia, nulla freno: non c’era più remedio. Onne perzona periva. Quello più havea ragione, lo quale più potea co la spada. Non c’era altra salvezza, se nò che ciascheduno se defenneva con parienti, e con amici. Onne die se faceva addunanza». Tomaso Fortifiocca, Vita di Cola di Rienzi, tribuno del popolo romano, scritta in lingua vulgare romana di quella età. Bracciano, 1624.
  3. Du Cerceau, Conjuration de Nicolas Gabrini dit de Rienzi, tyran de Rome, Parigi, 1733. — Papencordt, Cola de Rienzo, und seine Zeit, besonders nach ungedruckten Quellen dargestellt. Amburgo e Gotha, 1841. I documenti inediti sono lettere di Cola a Carlo IV e all’arcivescovo di Praga, cui racconta in latino tutta la sua storia. In esse lettere, Cola pretende essere generato da Enrico VII, cui sua madre in una bettola di Roma «ministrabat, nec forsitan minus quam sancto David et justo Abrahæ per dilectas extitit ministratum».
  4. Nihil actum fore putavi si, quæ legende diceram, non adgrederer exercendo. Epist.
  5. Arnaldo di Brescia o forse di Brixen, avea studiato a Parigi alla scuola di Abelardo, e venuto a Roma cominciò a predicare per ridurre la Chiesa e il papa alla semplicità apostolica, a vivere di decime e di spontanee oblazioni. Non intendendo la libertà nuova, vagheggiava quella che apparivagli ne’ libri classici, blandendo idee che sempre diedero per lo genio al popol nostro. Piaceva a questo pel dolce suono di repubblica che annunziava; piaceva ai signori laici, che teneano feudi dagli ecclesiastici, e speravano emanciparsene; e formò una fazione detta de’ Politici, che dal dir ingiurie al pontefice passava a negargli obbedienza.
    Malgrado l’opposizione di san Bernardo, Arnaldo riusci a ribellare la città (1141), che gridò la repubblica, e pose un senato di 56 membri, decretando in nome di questo e del popolo. E un amico di Arnaldo fu scelto per nuovo papa col nome di Celestino II, ma questi cessò ben presto dal favorirlo; ed anche il popolo recosselo in sinistro, dimodochè dovette fuggire, e ricoverarsi a Zurigo. Quivi anticipate le declamazioni di Zuinglio contro la Chiesa, passò in Francia e in Germania, sempre inseguito dall’occhio e dalla voce di san Bernardo.
    Coi sussidj, che mai non mancano a chi osteggia la Chiesa, soldò 2000 Svizzeri, e con questa forza venale tornato a Roma, ripristinò la magistratura repubblicana; e invasato da reminiscenze di libri, rinnovò i consoli e i tribuni; ideava un ordine equestre, che fosse medio fra il popolano e il senatorio; al papa non lasciava che i giudizj ecclesiastici, mentre supremava l’autorità imperiale.
    Bastano le più vicine memorie per ricordarci come il popolo romano s’inebbrii di siffatte idee; e come all’entusiasmo dell’applauso si accopii l’entusiasmo dell’ira. Mentre osannavano quell’intempestiva restaurazione, i Romani gettavansi a furia sulle torri dei baroni, sui palazzi degli avversi e de’ cardinali, e anche sulle loro persone; abolivano il prefetto della città; negavano obbedienza al nuovo papa Eugenio III (1145), il quale dovette coll’armi domar quella gente, che san Bernardo qualificava proterva e fastosa, disavvezza alla pace, avvezza al tumulto, immite, intrattabile, non sottomessa se non quando le manchi forza di resistere. E questa prevalse, e cacciò il papa e invitò l’imperatore Corrado III, vantando d’avere operato solo per restituire a Roma l’ecclissato splendore; e secondo la storia, le prediche d’Arnaldo e il voto de’ giureconsulti classici, voleano riformare lo Stato, assicurando illimitata autorità al principe. Ma ai nobili premea di conservar le loro prerogative a fronte dell’imperatore come del papa; e quando il popolo trucidò il cardinale di Santa Prudenziana, il nuovo papa Adriano IV diede l’insolito esempio di metter all’interdetto la capitale del cristianesimo, finchè non ne fosse espulso Arnaldo. Commosso dal vedersi negati i sacramenti all’avvicinar della Pasqua, il popolo cacciò Arnaldo, che rifuggì presso un conte di Campania.
    Intanto era venuto imperatore di Germania Federico Barbarossa, risoluto di ripristinar l’autorità imperiale, scassinata in Italia dal costituirsi de’ Comuni, riformare il sistema ecclesiastico, il feudale, il municipale. Mosso a Roma per esser coronato, vi trovò in piedi la repubblica istituita da Arnaldo, la quale, ristretto il papa nella città Leonina, gl’intimava rinunziasse ad ogni podestà temporale, e s’accontentasse del regno che non è di questo mondo. I repubblicani speravano prevarrebbe in Federico l’antica nimicizia contro i papi; ma egli, uom dell’ordine, astiava le rivoluzioni, e questo slancio della gran città verso la forma che fu sempre prediletta in Italia, ma che ridurrebbe al nulla la prerogativa imperiale. Pertanto (1153) avuto nelle mani Arnaldo, lo consegnò al prefetto imperiale della città. A questo l’esser presente l’imperatore conferiva pieni poteri, elidendo ogni contrasto de’ preti; sicchè egli fece, come eretico e ribelle, strangolare Arnaldo, ardere in piazza del Popolo, e gettarne le ceneri nel Tevere. La turba accorse come ad ogni spettacolo; gli scrittori applaudirono; Goffredo di Viterbo canta (Pantheon 464)

    Dogmata cujus erant quasi pervertentia mundum
    Strangulat hunc laqueus, ignis et unda vehunt:

    Gunter nel Ligurino dice s’era fatto reo contro ambedue le maestà:

    sic læsus stultus utraque
    Majestate reum geminæ se fecerat aulæ;
    Assumpta sapientis fronte, diserto
    Fallebat sermone rudes, clerumque procaci
    Insectans odio, monachorum acerrimus hostis...
    Impia mellifluis admissens toxica verbis.

    nè alcun contemporaneo lo compiange, o nega gli aberramenti suoi. Solo nel secolo passato si cominciò a presentarlo come una vittima della tirannide papale, come un precursore de’ riformatori del Cinquecento, o dei Giansenisti del Seicento: principalmente a’ nostri tempi chi lo difendesse viene stampato eretico dagli esagerati d’una parte, gesuitante dagli esagerati dell’altra chi l’incolpasse: arti abituali colle quali il secolo nostro pretende arrivare alla verità. Metter nè un Lutero nè un Ciciruacchio al XII secolo è anacronismo, quanto il metter all’età nostra un Pietro Eremita o un san Francesco d’Assisi. I nostri Ghibellini che volevano umiliare il papa, non per questo erano ligi all’imperatore germanico; che se a questo si attaccavano i tirannelli per prepotere nelle città e per uccidere la libertà comunale, i pensatori volevano, o almeno ideavano, un imperatore romano che stesse in Italia. Lo dice chiaro anche Dante, che pure si appassionò per Enrico VII; perchè sempre gli Italiani, da Narsete sino a Felice Orsini, sperarono liberarsi dagli stranieri per mezzo degli stranieri. Forse i Romani, e Arnaldo con essi, avevano sperato di sbalzar il papa coll’opera di Federico, il quale, come se ne vanta il suo cugino e storico Ottone di Frisinga, qui portò «pro auro arabico teutonicum ferrum; sic emitur a Francis imperium»; ma il prefetto della città, che in occasione delle prediche di Arnaldo era stato insultato e peggio, fe prendere Arnaldo, e giustiziare.
    Il contemporaneo Geroldo di Reichersperg (nel libro I De investigat. Antichrist. ap. Gretser, Prolegomena ad scriptores adversus Waldenses, cap. 4) dice: — Quam ego vellem pro tali doctrina sua, quamvis prava, vel exilio vel carcere, aut alia pœna præter mortem punitum esse, vel saltem taliler occisum, ut romana Ecclesia sive curia ejus necis quæstione careret! Nam, ut ajunt, absque ipsorum scientia et consensu a præfecto urbis Romæ, de eorum custodia in qua tenebatur ereptus, ac pro speciali causa occisus ab ejus servis est. Maximam siquidem cladem ex occasione ejusdem doctrinæ idem præfectus a romanis civibus perpessus fuerat; quare non saltem ab occisi crematione et submersione ejus occisores metuerunt quatenus a domo sacerdotali quæstio sanguinis remota esset. Sed de his ipsi viderint, sane de doctrina et nece Arnaldi idcirco inserere præsenti loco volui, ne vel doctrinæ ejus pravæ, etsi zelo forte bono, sed minori scientia prolata est, vel ejus necis perperam actæ videar assensum præbere».
    Del resto, in quei giorni il papa ed i cardinali erano affatto in arbitrio del Barbarossa, che giunse fin a portarli via: e il suddetto Ottone di Frisinga scrive: — Mane facto, quia victualia nobis defecerant, assumpto papa et cardinalibus cum triumpho victoriæ læti discessimus» (p. 989 dell’edizione del Muratori).
    Meglio del Tamburini e d’altre meschinità dei Giansenisti del secolo passato, vedi H. Franke, Arnold von Brescia und seine Zeit. Zurigo, 1852.

  6. È singolare s’abbia a disputare a chi dirette la più bella ode del Petrarca e le speranze di Dante. De Sade sostenne che lo spirto gentil, il cavalier che tutta Italia onora non può essere Cola Rienzi: nel che fu confutata da molti, e ultimamente da Zefirino Re, al quale consente il Papencordt, mentre lo sostiene Salvator Betti, indicando che il Petrarca non potea dire che «nol vide ancor dappresso», mentre fu con lui all’ambasciata in Avignone: che la verga onorata, cioè una specie di scettro, davasi in fatto, e si continuò a dare al senatore di Roma; posto al quale era allora salito il Colonna, cui crede diretta la canzone.
    Senza di essa, si hanno diverse lettere del Petrarca a Cola. — La magnifica tua socrizione annunzia il ristabilimento della libertà; il che mi consola, mi ricrea, m’incanta.... Le tue lettere corrono per man di tutti i prelati; voglionsi leggere, copiare; par che discendano dal cielo o vengano dagli antipodi; appena arriva il corriere, si fa ressa per leggerle, e gli oracoli d’Apollo non ebbero tante diverse interpretazioni. È mirabile quel tuo esperimento, in modo da porti in salvo d’ogni rimprovero, e mostrare la grandezza del tuo coraggio e la maestà del popolo romano, senza offendere il rispetto debito al sommo pontefice. È da uomo savio ed eloquente come tu sei il conciliar cose in apparenza lottanti.... Nulla che indichi basso timore o folle presunzione.... Non si sa se più ammirare le azioni tue o il tuo stile; e dicono che operi come Bruto, parli come Cicerone.... Non lasciar la magnanima tua impresa.... Fondamenta eccellenti ponesti, la verità, la pace, la giustizia, la libertà.... Tutti sanno con che calore io me la prendo contro chiunque osa metter dubbj sulla giustizia del vero tribunato e la sincerità delle tue intenzioni. Io non guardo nè avanti nè dietro, e molti mi si avversarono; il che non mi fa meraviglia, già esperto di quel verso di Terenzio, La condiscendenza fa amici, nemici la verità».
  7. Volentes benignitates et libertates antiquorum Romanoram pacifice, quantum a Deo nobis permittitur, imitari.
  8. «Il dì di natale cominciò la sanla indulgenza a tutti coloro che andarono in pellegrinaggio a Roma, facendo le visitazioni ordinate per la santa Chiesa alla basilica di Santo Pietro e di San Giovanni Laterano e di Santo Paolo fuori di Roma; al quale perdono uomini e femmine d’ogni stato e dignità concorse di Cristiani, con maravigliosa e incredibile moltitudine, essendo di poco tempo innanzi stata la generale mortalità, e ancora essendo in diverse parti d’Europa tra’ fedeli cristiani; e con tanta devozione e umiltà seguivano il romeaggio, che con molta pazienza portavano il disagio del tempo, ch’era uno smisurato freddo, e ghiacci e nevi e acquazzoni, e le vie per tutto disordinate e rotte; e i cammini pieni di dì e di notte d’alberghi, e le case sopra i cammini non eran sofficienti a tenere i cavalli e gli uomini al coperto. Ma i Tedeschi e gli Ungheri, in gregge e a turme grandissime stavano la notte a campo stretti insieme per lo freddo, atandosi con grandi fuochi. E per gli ostellani non si potea rispondere, non che a dare il pane, il vino, la biada, ma di prendere i danari. E molte volte avvenne che i romei, volendo seguire il loro cammino, lasciavano i danari del loro scotto sopra le mense, loro viaggio seguendo: e non era de’ viandanti chi gli togliesse, infino che dell’ostelliere venìa chi gli togliesse.
    «Nel cammino non si facea riotte nè romori, ma comportava e ajutava l’uno all’altro con pazienza e conforto. E cominciando alcuni ladroni in terra a rubare e a uccidere, dai romei medesimi erano morti e presi, ajutando a soccorrere l’uno l’altro. I paesani faceano guardare i cammini, e spaventavano i ladroni: sicchè secondo il fatto assai furono sicure le strade e cammini tutto quell’anno. La moltitudine de’ Cristiani ch’andavano a Roma, era impossibile a numerare: ma per stima di coloro ch’erano risedenti nella città, che il dì di natale e ne’ dì solenni appresso, e nella quaresima fino alla pasqua della santa resurrezione, al continovo fossono in Roma romei dalle mille migliaja alle dodici centinaja di migliaja. E poi per l’ascensione e per la pentecoste più di ottocento migliaja; essendo pieni i cammini il dì e la notte, come detto è. Ma venendo la state, cominciò a mancare la gente per l’occupazione delle ricolte, e per lo disordinato caldo; ma non sì, che da quanto v’ebbe meno romei, non vi fossono continovamente ogni dì più di dugento migliaja d’uomini forestieri. Le visitazioni delle tre chiese, movendosi donde era albergato catuno, e tornando a casa, furono undici miglia di via. Le vie erano sì piene al continovo, che convenia a catuno seguitare la turba a piedi e a cavallo, che poco si potea avanzare; e per tanto era più malagevole.
    «I romei ogni dì della visitazione offerivano a catuna chiesa, chi poco, chi assai, come gli parea. Il santo sudario di Cristo si mostrava nella chiesa di San Pietro, per consolazione de’ romei, ogni domenica e ogni dì di festa solenne: sicchè la maggior parte de’ romei il poterono vedere. La pressa v’era al continovo grande e indiscreta: perchè più volte avvenne, che quando due, quando quattro, quando sei, e talora fu che dodici vi si trovarono morti dalla stretta e dallo scalpitamento delle genti. I Romani tutti erano fatti albergatori, dando le sue case a’ romei a cavallo; togliendo per cavallo il dì uno tornese grosso, e quando uno e mezzo, e talvolta due, secondo il tempo; avendosi a comprare per la sua vita e del cavallo ogni cosa il romeo, fuori che il cattivo letto. I Romani per guadagnare disordinatamente, potendo lasciar avere abbondanza e buono mercato d’ogni cosa da vivere a romei, mantennero carestia di pane, di vino e di carne tutto l’anno, facendo divieto che i mercatanti non vi conducessono vino forestiere, nè grano, nè biada, per vendere più cara la loro.
    «Nell’ultimo dell’anno, come nel cominciamento, v’abbondò le gente, e poco meno. Ma allora vi concorsono più signori e grandi dame e orrevoli uomini, e femine d’oltre ai monti e di lontani paesi, ed eziandio d’Italia, che nel cominciamento o nel mezzo del tempo; e ogni dì presso alla fine si faceano delle dispensagioni del visitare le chiese, maggiori grazie. E nell’ultimo, acciocchè niuno che fosse a Roma, e non avesse tempo a potere fornire le visitacioni, rimanesse senza la grazia, senza indulgenzia de’ meriti della passione di Cristo, fu dispensato infino all’ultimo dì, che catuno avesse pienamente la delta indulgenza». Matteo Villani I, 56.

Note

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