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Ippolito Pindemonte
Barnaba Oriani Tommaso Campanella


La famiglia veronese dei Pindemonte dev’essere di nobiltà intemerata. Perocchè, volendo il marchese Landi di Piacenza sposare Isotta de’ Pindemonte, come garanzia di puro sangue richiese che un fratello di essa ottenesse la croce di cavaliere di Malta. Questa non conferivasi che a nobili di molte generazioni, e portava un triplice voto, che nei più conduceva a triplice sacrilegio: di povertà, castità e obbedienza. La qual croce fu ottenuta da Ippolito, nato a Verona il 13 novembre 1755; ma questo giovinetto essendo di piccola salute, non potè fare la caravana, cioè le corse marittime contra i pirati barbareschi, e rimasto in patria, riuscì fra i buoni poeti e fra i migliori letterati dell’età nostra, non fra i grandi.

Mentre il piemontese Alfieri lagnavasi che, «nato da Vandali, educato fra Vandali, facea de’ tardivi sforzi per disasinirsi», nella casa del Pindemonte frequentavano Giuseppe Torelli e il Sibilato poeti, Girolamo Pompei traduttor di Plutarco, lo Spolverini cantore del Riso, Eriprando Giuliari autore delle Donne celebri della santa nazione, ed altri di quella società culta, che una volta abbelliva le città ed educava il gusto: anche Scipione Maffei lo vide «pargoleggiar nelle paterne case»; ed ebbe l’educazione, libera di programmi ministeriali e di esami prefettizj, che allora impartivano ai nobili i collegi d’ecclesiastici, dove molto si attendeva pure agli esercizj ginnastici. Ippolito attirò applausi comparendo da ballerino sul palco: e primeggiò in altri svaghi di gioventù; benchè tutta la vita soffrisse gracilità di corpo come di stile.


     Il regno ampio de’ venti
Io corsi a’ miei verdi anni, e il mar sicano
Solcai non una volta, e a quando a quando
Con piè legger dalla mia fida barca
Mi lanciava in quell’isola ove Ulisse
Trovò i Ciclopi: io donne oneste e belle,
Cose ammirande colà vidi;


potè nelle sue poesie celebrare i cimiteri di Palermo, la certosa di Grenoble, la cascata d’Arpenas, il lago di Ginevra, i ghiacciaj, i giardini inglesi, con un sentimento della natura, non comune ai nostri verseggiatori. In Roma, dove,


non che muro ed arco,
Sasso non trovi che non goda un nome,


partecipò alla società brillante e culta; e di quella fittizia Arcadia cantava:


Le felici capanne, il bosco, il prato
Veggo, e gli antri vocali e il sacro rio,
E sedenti qua e là sull’erbe e i fiori,
Tra’ lor cani e monton, ninfe e pastori;


e più che il Muratori e il Cesarotti contribuì a fondare l’Accademia Italiana. Compose allora una tragedia, l’Ulisse, che, sebbene lodatissima dal Metastasio e dal Bertòla1, è affatto dimenticata. Anche della sua tragedia dell’Arminio, poco gradita allora, oggi non serbasi quasi ricordo, eppure ha pregi ben superiori alle spettacolose di Giovanni suo fratello2, tutte effetto e imitazione francese. Oltre il merito di scegliere per eroe non i soliti regicidi, ma un difensore della patria indipendenza, e di non desumerlo dai fatti ricantati, restituiva alla tragedia il fare lirico toltole dall’Alfieri, introduceva i cori3,

e serbava i colori locali. Volle morale anche la conchiusione della tragedia, che finisce col coro:

Dalla breve tirannia,
     Che turbò queste contrade,
     Ecco sorger libertade
     Più gradita e bella più.
Ma durare, o patria mia,
     Sol potrà co’ tuoi costumi;
     Temi sempre, o patria, i numi,
     Ama sempre la virtù.

Ragionando di questa sua produzione, egli definiva la poesia «un’arte di imitare coi versi a fine di diletto», col che la separava e dalla storia e dalla filosofia e dall’eloquenza, e riprovava i poemi didascalici, dovendo il suo linguaggio esser figurato e ad immagini, mancante perciò della precisione, che è necessaria per ammaestrare. Non dunque poesia in prosa; non pretendere dalla poesia il vero, anzichè il verosimile, sino a volerne escludere la mitologia, col che condannava, i romantici d’allora, come anche nel ribellarsi ch’essi facevano alle regole. «Il vero critico nè biasima nè approva assolutamente, ma crede potersi conseguir con più mezzi lo stesso fine».

Già da prima egli avea veduto poeticamente la Libertà, «donna del sole assai più bella», in cima agli elvetici colli, e udendola acclamata in Francia, le domandava:

Dea, ti vedrò colà? — Forse», rispose,
E rispondendo un sospir lungo trasse.

Tenuto poi in Francia,


                                   illustri detti e forti
Bevea l’orecchio cupido, e rinati,
Sovra labbra novelle antichi sensi;
E d’ogni parte del bel regno intanto
Col destin, co’ desiri, e colle scritte
Speranze in man de le provincie intere
Giunger vedeansi i cittadini; accolta
In breve spazio è Francia.
                                   Di tutta
La sua pompa, e de’ suoi vezzi vestita
E di fiamme o di tuoni il braccio armata
La grand’arte del dir, siede e comanda
Il silenzio e l’applauso.

De’ suoi viaggi confezionò un romanzo, l’Abaritte, che nessuno legge, ma donde appare come egli pure vagheggiasse quel rinnovamento della società, che parve effettuarsi coll’aprirsi degli stati generali a Parigi, ch’egli descrisse ma soltanto nelle forme esterne, e colle commissioni date dalle varie provincie a 5 deputati le quali poterono veramente dirsi il testamento dell’antica società, e la fede di nascita della nuova. Quei primordj della rivoluzione eccitarono vive simpatie in tutta Europa; il grand’oratore Fox, capo del partito liberale in Inghilterra, la salutò come il maggiore avvenimento, e il migliore dell’età moderna; Kant, in Germania, ne piangeva di gioja; a Pietroburgo si abbracciavano gli uni gli altri per le vie all’annunzio della distruzione della Bastiglia; altrettanto esultavasi a Brusselle e nei porti d’Olanda, per non dire della Svizzera e degli Stati Uniti; letterati, filosofi, studenti, framassoni vi vedeano i preludj d’un rinnovamento generale, tanto più promettente quanto andava più vago e indeterminato in quelle teoriche utopiste, allora spacciate dalla tribuna e sui giornali. Il Pindemonti coll’Alfieri, ch’egli giudica “il più grande dei grandi ingegni da lui conosciuti”, prese a Parigi entusiasmo per que’ lieti cominciamenti, e raccoglieva con repubblicana devozione i sassi della diroccata Bastiglia.

Ben presto l’agitamento cadde nella peggior plebe, e il Pindemonte ne sbigottì come la più parte; ed egli che, pure aveva a Ferney invocato il sublime spirto, diresse un sonetto all’ombra di Voltaire, evocandola a vedere i frutti de’ semi da lui gettati e il disinganno4. Deplorò la morte di Luigi XVI, di Maria Antonietta, della Lubomirski; e da Parigi guardava i destini delle varie nazioni, e tra queste l’Italia; che piangea forte e gridava:

Sia felice chi ’l può; poca in me resta
Speme che a mutar s’abbia il mio destino.
Che far poss’io finchè su cento piagge
Sovra l’Adda, sul Po, Tebro e Sebeto,
Ed or sul flutto d’Adria, or sul Tirreno
Star deggio, ed in alcun non esser loco?

Finchè tante parlar lingue degg’io, (?)
Tante seguir leggi ed usanze, e tanti
Scettri trattar nè averne alcuno? ed ambe
Le mani, in così dir, mettea nel crine.


Così nelle Epistole, ove piange i disinganni, e sopratutto lo scompiglio, che l’infuriar delle guerre e l’invasione straniera dovè gettare fra que’ placidi Veneti, fra la serenità di quel vivere in villa, delle serene, conversazioni, degli amori non tempestosi che il Pedemonte avea cantato sotto il nome arcadico di Polidete Melpomenio. E avrebbe amato

                                                  celarsi
Sotto l’intreccio ancor di que’ frondosi
Rami ospitali, e udir da lunge appena
Mugghiar del mondo la tempesta, urtarsi
L’un contro l’altro popolo, corone
Spezzarsi e scettri.

Assistette alla fiacca caduta di Venezia, s’indignò quando lo straniero ci rapiva i capi dell’arte nostra, e demoliva edifizj venerati5, ed esclamava: — Quando Gengis-kan entrò in Pekino, non credo i Cinesi s’occupassero nel sentir Marchesi (famoso soprano) e nel giocare a un fortissimo faraone in cento e più luoghi.... Non ho mai veduto il più lieto carnevale; nè mai ho veduta tanta bizzarria, varietà, ricercatezza, licenziosità negli abiti ed ornamenti donneschi Son tanto numerosi quelli in maschera come quei che noi sono in Venezia.... I Francesi pajono disposti a partire: e partono sopra i cavalli ch’erano sulla facciata della chiesa di San Marco. Non essendovi più Veneziani, è chiaro appartener que’ cavalli ai Francesi, che insieme co’ Veneziani li conquistarono”. E cantava

Ove siam, Vittorelli? e che mai visto
     Non abbiam noi? Fu mia delizia i giorni
     Condurre all’ombra de’ tranquilli boschi;
     Ma quale ornai v’ha gleba che il guerriero
     Sangue germano e gallico non lordi,
     O che il pianto del suo cultor non bagni?
     Villa mi biancheggiava in un bel colle
     Che distrutta mi fu. Qual prò se ancora
     Stesse non tocca? i circostanti oggetti
     Per me tutti cangiavansi.
                                        Quai fresche
     Ritrovo io qui memorie acerbe! e quanti
     Mutati dal dolor volti a me noti
     Rincontro, ch’io più non ravviso!

E a ragione deplorava:

Ahi stolta Italia che spogliasti l’armi!
Palla non vedi, cui son l’arti a cuore
Vestire in lor difesa elmo e usbergo?

Le Prose e poesie campestri sono la più spregevole delle sue opere, dove con “gli estri melanconici e cari” parve preludere alle meste armonie moderne; e la Melanconia cantò in una canzoncina, che vivrà fra le buone liriche per tre o quattro belle strofe.

Fonti e colline
     Chiesi agli Dei:
     M’udirò al fine:
     Pago vivrò;
          Nè mai quel fonte
     Co’ desir miei,
     Nè mai quel monte
     Trapasserò....

Melanconia
     Ninfa gentile,
     La vita mia
     Consacro a te.
          I tuoi piaceri
     Chi tiene a vile
     Ai piacer veri,
     Nato non è....6


O sotto un faggio
     Io ti ritrovi
     Al bianco raggio
     Di caldo ciel,
          Mentre il pensoso
     Occhio non movi
     Dal frettoloso
     Noto ruscel,
O che ti piaccia
     Di bianca luna
     L’argentea faccia
     Amoreggiar,

Quando nel petto
     La notte bruna
     Stilla al diletto
     Del meditar....
Mi guardi amica
     La tua pupilla
     Sempre, o pudica
     Ninfa gentil;
          E a te, soave
     Ninfa tranquilla,
     Fia sacro il grave
     Nuovo mio stil.


A lui diresse Ugo Foscolo il carme Sui Sepolcri, chiamandolo dolce amico, e invidiandone “il canto e la mesta armonia che lo governa”; ed egli il ringraziò subito con questa lettera, ignota ai biografi di Foscolo e del Pindemonte.

“Venezia, 15 aprile 1807.


Tale tuum Carmen nobis, divine poëta,
Quale sopor fessis in gramine, quale per æstum
Dulcis aquæ saliente sitim restinguere rivo.

“Comincio dal ringraziarvi dell’onore, che fatto mi avete, e poi mi rallegro con voi di quello, che farete con questo’ vostro nuovo componimento a voi stesso. Ove trovaste quella malinconia sublime, quelle immagini, que’ suoni, quel misto di soave, e di forte, quella dolcezza e quell’ira? È cosa tutta vostra, che star vuole da sè, e che non si può a verun’altra paragonare. Io non vi dirò ch’esser potevate men dotto e antico, e un po più chiaro e moderno, perchè so come voi pensate su questo argomento, e perchè forse mi risponderete, che una certa oscurità al sublime appunto contribuisce. Piuttosto vi accennerei alcune cosette qua e là, che non finiscono di piacermi, ma sono scrupoli, che mi vergogno di consegnare alla carta, benchè questa, secondo Cicerone, non arrossisca, e che invece vi comunicherò a bocca alla prima occasione, se vorrete sentirli, e burlarvi alquanto di me. Tutti gli esemplari sono andati al loro destino, eccetto quello per la Vendramin; poichè essendo sventuratamente per andar nel sepolcro il fratello suo, non mi parve opportuno il mandarle ora i Sepolcri vostri. Non vi parlo d’Isabella (Teotochi-Albrizzi), perchè so che v’ha scritto. Addio, illustre amico; spero che in Brescia vi troverà questa mia, ch’io già termino con assicurarvi della più alta e più affettuosa mia stima”.

Dappoi gli diresse il noto carme, dandogli il ben modesto titolo di “ingegno non mediocre”; risposta ben lontana dal lirismo e dalla forza della proposta, ma anche dalla sua classica empietà. Gli rimprovera che “stenda voli si lungi da noi tra l’ombre della vecchia età”, ben potendosi trarre poetiche scintille da oggetti men lontani che Troja ed Elettra; e come protesta contro quel suo detto che “anche la speme, ultima Dea, fugge i sepolcri”, descrisse i nostri camposanti e la fiducia della risurrezione che li disacerba. Ciò. mitighi l’accusa che gli si fa di non aver appuntata al Foscolo la mancanza di fede.

I suoi Sermoni, non sono nè fieri come quei di Giovenale, nè argutamente semplici come quelli d’Orazio, dileticando non mordendo difetti sociali, come il portar in campagna le abitudini di città, gli scherzi soverchi in società, l’importunar i convitati a mangiare e bere; il viaggiare senza nobili intenti, descrivendo come buon Veneto, e, se non si avesse per ingiuria quel ch’è storico, direi come un buon Pantalone. Pur vide e deplorò i tempi quando,

Spenta del ver la bella luce, i buoni
Quasi tutti restàr taciti e ascosi;
Come, se tutto il solar globo ecclissa,
Tace la schiera tra le frondi ascose
De’ nobili pennuti, ed ai notturni
Augei che sbucan tosto, il campo cede;
E come accade di bollente vaso,
Dove quel ch’è più impuro, alto galleggia.

Non ci ricorda ch’egli abbia mista la sua voce ai mille che insultavano ai caduti e inneggiavano la forza, predominante sotto la terribile maschera di gloria. Di ciò vantaggiavansi non poco i suoi amici per farne raffaccio al Monti, col quale, sebben di tanto inferiore, fu però in tutta la vita messo a un confronto, che pareva suggerito fin dal nome. E la gara crebbe allorchè Ippolito stampò l’Odissea.

Fin quando Foscolo pubblicò il saggio di traduzione dell’Iliade, Pindemonte gli scrivea7:

«Venezia, 2 maggio 1807.

“Leggo e rileggo i versi e la prosa, e sempre più ammiro l’ingegno vostro in così difficile impresa. Il tradurre in tal modo è uno scolpire in porfido: l’opera vostra potrebbe accanto al marmo pario di Monti dilettar meno il più de’ lettori, ma sarà forse ammirata più dagl’intelligenti. Gli altri traduttori osservan più o meno in faccia il signor dell’altissimo canto: ma voi gli andate dentro alle viscere. Voi vorreste ch’io esaminassi e postillassi, ed io volentieri vi servirei; ma in tali cose, quando si viene al particolare, non si finisce più, e per lettera massimamente. Sopra tutto voi volete censure, ed io vi esporrei sinceramente, poichè sinceramente mi par che me li dimandiate, i miei dubbj, ch’io non ardisco chiamar censure. Per darvi un saggio della schiettezza mia, e non già per correggere, osserverò, che Omero si ferma dopo il pestifera, parola importante, e che voi, collocando l’orrenda tra quel che e le parole che il seguono, venite in certa guisa a nasconderlo. Al moversi del Dio sdegnato i dardi strepitavano, ecc. Voi separate il moversi del Dio dallo strepitare de’ dardi. Non vi pare che ciò tolga un po all’evidenza della pittura? Delle navi piantasi in vista disfrenando il dardo; bello il disfrenare del dardo, e bello il verso che segue; ma delle due azioni di Apollo non ne fate voi una sola? Se non si trattasse d’una traduzione, ch’esser vuole inerente, sarei meno t scrupoloso. E tutta chiusa la faretra, non dico che non si possano collocar così tai parole: dico ch’io così non le collocherei. E non direi nemmeno, giacchè siam su la lingua, accennò i sopraccigli. È vero che Alfieri dice se il capo accenni: ma voi sapete, che quel raro ingegno si lasciò tradire, e non una sola volta, dall’amor suo per la brevità. Ma empierei venti fogli, se dovessi notare ciò che mi piacque particolarmente così nella traduzione, come nelle note. Se ci vedremo in luglio, come mi avete fatto sperare, parleremo così di queste cose come de’ Sepolcri, che molti qui leggono e lodano grandemente. Mi rallegro intanto con voi, e vi ringrazio del bellissimo esemplare che ho ricevuto jersera. Gl’indirizzi in greco, in latino ed in italiano degli esemplari diversi furono l’argomento di tutta la conversazione di jersera nella camera d’Isabella. Non ho, ancor veduto il Bettoni. Ho bensì interrogato tosto i miei versi, e questi mi risposero, che si compiaceranno assaissimo di essere da lui ristampati. Per verità il vostro Omero è stampato mirabilmente. Addio, bravissimo Ugo. Salutatemi l’illustre vostro amico ed antagonista omerico (Monti), e credetemi sempre

«il vostro Pindemonte».

Già nel 1809 traduceva egli i primi due libri dell’Odissea e vi allude nel carme sui Sepolcri8: ma vedute le osservazioni che all’Iliade del Monti fecero i tre eruditi, che «le diedero quasi nuova vita» per confessione del Monti stesso, Ippolito prese un modo più severo. Discreta è la conoscenza del greco ch’egli vi mostra; pretese dar fedelmente Omero nella sua semplicità: ma questa è elegantissima, per esempio, come i trecentisti o un toscano, e il verso fluido e limpido, mentre Pindemonte casca nel triviale della lingua, e ha versi duri prosastici:

Tutti s’alzaro nelle risa dando....
Il più scelto liquor bevono a oltraggio....
Sanno i disegni di chi stavvi sopra....
Ma ei mostrommi in pria quanto avea Ulisse....
Terra ire alcuni ad esplorar dall’alto....

E per vero, chi legge i primi dieci libri, memore della vivace eleganza del Monti, li trova freddi e nojosi; ma se procede agli altri, dove anche l’originale divien monotono, s’accorge che s’addice affatto a quell’opera il tono scelto dal Pindemonte.

Gli esuberanti amici del Monti, de’ quali fu detto che aveano due anime, una per conoscere il bene, l’altra per far il male, balestrarono quella traduzione, principalmente nella Biblioteca Italiana, nome che si troverà fra gli aggressori di tutti i migliori contemporanei: e come gli amici di Corneille deprimevano Racine, così costoro oltraggiavano il Pindemonte, come chiunque potesse gettar un’ombra, sul pianeta allora all’apogeo.

Realmente il Pindemonte è troppo lontano dalla splendidezza del Monti e da quell’atticismo, imprestato eppur così bene assimilato. Entrambi innamorati di Virgilio, entrambi accusati di troppo pizzicare la corda medesima; il Monti nelle poesie giovanili parve inferiore al Pindemonte, quanto gli trasvolò in quelle di sua maturità: tutta fantastico il Monti, tutto melanconico l’altro9.

                              D’onde siede
Tra la selva che a lei corre d’intorno10
La gran città che dell’Insubria è capo,
E or tanta di saver luce diffonde,

e propriamente dal Conciliatore venne accusato d’avere scritto, in un sermone, che la felicità de’ popoli dipende non tanto dalle forme di Governo, quanto dalla virtù personale. Egli se ne difese; non aver detto sia indifferente il Governo alla francese o alla turca, ma «che ognuno è del suo bene il primo fabbro», e che un buon reggimento può giovare al bene, ma non crearlo. E pensava giusto.

Se il Monti fu banderuola, come direbbe il popolo, od objettivo, come direbbero i filosofi, Ippolito non credette mai al Cesarotti quando assomigliava il poeta a chi guarda un giuoco di pallone, che può applaudire a chi fa un bel colpo, da qualunque parte stia, e fischiar anche quello cui dianzi avea battuto le mani. Modificò bensì le sue opinioni alla scuola degli eventi, ma non le cambiò: vagheggiò le moderne teorie politiche prima del Monti, ma non se ne ubriacò quando si attuarono, nè vi imprecò quando ne conobbe gli effetti; serbossi indipendente dagli avvenimenti, mentre l’altro mostrossi infedele e a principi e a persone. Questi preconizzò le conquiste; egli le deplora anche in tempi bellicosissimi:

E se in pregio è così quest’arte cruda
Che l’omicidio ed il furor consacra
Non è in gran parte dei poeti colpa?

Ippolito potea vantarsi di non aver mai voluto

     contro il ciel, contro i paterni altari
Vibrar non riverente un solo accento:

contro del Monti stanno il Fanatismo e la traduzione della Pulcella d’Orléans.

Vedemmo come il Monti pompeggiasse e trescasse nell’Istituto Italiano. Il Pindemonte, elettone membro, gradiva l’onore, ma dolevagli portasse seco una pensione; perocché, diceva, «il mancare ad un solo de’ proprj doveri, massime quando si riceve per questi un emolumento, è cosa bruttissima agli occhi miei. Vorrei dunque, se fosse possibile, non ricevere la pensione. Nè già per questo lascerei di dar qualcosa di mio; mi basterebbe aver quest’obbligo solo, e potere agli altri’ mancare senza rimorso»11. Come il Monti le ombre, così egli troppo spesso ha visioni di enti ideali, la Libertà, il Parnaso, Apollo, Talia. Il Monti s’ingloriò de’ non caduchi allori della musa cristiana, eppure difese con impenitenza finale la mitologia. Pindemonte la riprovava già nel carme sui Sepolcri12, poi in un discorso all’Istituto; e Ilario Casarotti (letterato e filologo di qualche nome), in una lettera al professore Antongina, conservò un dialogo su tal proposito tenuto fra lui, il Pindemonte e lo Zuccala in casa Bellisomi a Pavia nel 1827.

Alcuno lo rimproverava il non far altro che citareggiare,

     Sempre la cetra in man? viver cucendo
     Sillabe, e andando con tremante cura
     D’un epiteto in traccia o d’una rima
     E tutta in suoni consumar l’etade?...
     Fosser più allegri almeno i carmi tuoi!
     Tu piangi ognora
     . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Bello o no, dal cor mio viene il mio verso,
     Se molta in lui melanconia ripose
     Natura, e il verso da lui solo io traggo
     Come allegro il trarrò?

Sempre poeta dello stile medio, ma sempre cantando la beltà savia e la virtù gentile, «cercò farsi leggere senza dar in esagerazioni, e rendendo migliori gli uomini» (Abaritte). A chi gli rinfacciava di consolarsi colle lettere dei mali della patria, chiedeva se lo loderebbe del consolarsene con Bacco, Venere e Mercurio. Alludendo al Proteone del Gianni, scrive al Bettinelli: — Mentre altri riempie d’odio i suoi versi, io riempio i miei d’amicizia. Compiango l’autore, parendomi non vi debba essere passione più tormentosa dell’odio: dico parendomi, poiché, grazie al cielo, non l’ho provata giammai».

Accettava i consigli d’amici, come il Parini quei del Passeroni, il Gozzi quei del Seghezzi, l’Alfieri del Galuso e del Calsabigi, il Beccaria del Verri, ed altri che in quell’età, non ancora ossessa di fratellanza, s’aveva la fortuna di trovare. E al barnabita Francesco Fontana scriveva nel 1782: — Oh quanto le sono obbligato dell’ultima sua!’ Così vorrei sempre che mi venisse parlato, cioè con quella ingenuità, unita a quell’armonia e a quell’accortezza; cose rare e la cui unione è ancor più rara. Replicherò solo quanto al costume, che io non intendo mai di offenderlo veramente, e che, se questo mi nasce, mi nasce ^senza ch’io me ne avvegga. Anche ultimamente mi sfuggì pur qualche cosa che avrei volentieri cancellata; anche in queste cose l’amico tranquillo vede assai meglio del compositore riscaldato. Credi di non aver oltrepassato que’ limiti che ti hai prefisso, e t’inganni».

Molte donne nel veneto raccoglievano vivaci conversazioni, lontane dalla maledica ciarla come dal lurido intrigo politico: a Venezia la Isabella Teotochi Albrizzi, Giustina Michiel, Marina Benzon, Lucietta Cicognara, Antonietta Parolini; a Verona Lavinia Montanari Pompej, Anna di Schio Serego, Teresa Albarelli Vordoni, Silvia Verza...: e il Pindemonte, che «non ha mai creduto nelle donne un difetto la bellezza e la gioventù», le frequentava anche dopo che «di Lesbia e di Flaminda accanto» avea cessato di lodare «con molle tenero canto due nere luci e una serena fronte». La Teotochi Albrizzi così ne ritrae il carattere: — L’animo suo, sempre per sè stesso tranquillo, è qual terso specchio che s’avviva ai raggi del sole, o si appanna ai vapori della nebbia: pronto a tingersi del colore lieto o tristo dei pochi ma cari amici del suo cuore. Il suo metodo di vita è così inalterabilmente uniforme, che non si sa ben distinguere s’egli sia fatto schiavo del tempo, o a sè abbia reso il tempo schiavo. Le ore tutte della sua giornata, quelle della notte, sono misurate e ripartite in modo, che si può calcolarle con la stessa sicurezza con cui l’astronomo calcola le successive direzioni degli astri. Questo lo rende un essere alquanto isolato e singolare. Se largamente non ridonasse sè stesso nella maggior parte delle sue molteplici, varie e tutte belle opere, in cui la profonda cognizione del cuore umano, la sensibilità, il candore, i santi e puri costumi del suo cuore ad ogni linea appariscono, giusto sarebbe lagnarsi di possederlo poco; ma tale sicurezza acqueta; quando parte, si dice: «Noi perdo del tutto; egli va a dipingersi; lo rivedrò fra non molto». Nè men ti piace qualora il ridicolo con robusto pennello tratteggia, l’usurpazione fa detestare, il vizio abborrire. L’arte difficilissima di tacere opportunamente, natura pare in lui. Amico fido, sicuro, quasi le chiavi restassero dell’altrui secreto nelle mani di chi glielo affida, liberamente si può aprirgli il cuore. La personale sua indipendenza ama fino alla superstizione. Gli si offre una gita piacevole, un concerto di musica, una riunione aggradevole? non risponde, perchè in sulle prime ne sarebbe tentato; ma tanto bilancia, tanto pesa, tanto calcola e riflette, che alla fine sempre rifiuta. Nulla il rimuove mai da quello che si è proposto di fare, e talvolta soltanto persiste per la semplice ragione d’esserselo proposto: ma si trova docilità somma in lui, là dove quasi mai negli autori non suol trovarsi; nelle idee, nei versi suoi, i quali puoi seco analizzare e censurare quasi fossero d’altrui. Ma ciò che v’ha di più singolare in lui è l’arte difficilissima, che a maraviglia possiede, di farsi perdonare dai malvagi la bontà, dagl’ignoranti la scienza, dai viziosi la virtù, e dalle donne l’indifferenza».

Altri meno indulgenti dissero ch’egli era fervoroso e instabile amante, pacato e costante amico. Fatto è che, fortunato di amici e d’amanti, caro a’ suoi e modello di bontà, senza le protezioni legali, di cui fu accusato il Monti, visse caro nel suo paese colla benevolenza e colle lodi che si ricambiavano quei buoni vecchi, per ciò derisi dalla nuova società, tutta astio e denigrazione. Sua musa la melanconia, non desolata come in Yongh o in Leopardi, bensì ninfa gentile, pudica, dal guardo contemplatore, qual viene infusa dal concentrarsi in sè, piuttosto che dall’aspetto delle miserie umane o dalle grandi disillusioni della storia. Nè essa valeva ad ispirargli alcuno di quegli efficaci canti che accompagnano le vicende d’una nazione e s’imprimono nelle memorie della posterità.

Byron, che allora, bestemmiando la libera patria, viveva nella serva Italia tentando le nostre donne, e ai nostri giovani innestando il voluttuoso querelarsi, l’annojamento sistematico e l’ammirazione dell’eccezionale, scriveva a Murray: — Oggi Pindemonte, il celebre poeta veronese, è venuto a visitarmi. Piccoletto, magro, con lineamenti fini e piacevoli: ha l’apparenza di filosofo: l’età di 60 anni almeno. È uno de’ migliori scrittori odierni. Sa un po d’inglese, onde gli diedi a leggere Forsyth, dove si parla bene di lui.... Alquanto libertino in gioventù, or è divenuto devoto; fa le sue preghiere, e si fa da sè la predica per iscongiurar il diavolo: pure è un vecchietto piacevolissimo».

E di spigolistro volle pungerlo l’altro inglese Hobhouse, e d’abbandonarsi «a quella solitudine logoratrice, che una religione più ragionevole gl’insegnerebbe a scambiare co’ doveri attivi e colle socievoli distrazioni». Pertanto, quando Hobhouse scrisse alla Albrizzi perchè ottenesse la firma del Pindemonte, come già l’avea del Monti e del Göthe, per un monumento a Byron, il nostro rammemorò quelle frasi, e — Vi lascio giudicare se io possa contraddire a me stesso, concorrendo in verun modo a onorare un uomo che oltraggiò la religione fino a meritarsi un pubblico rimprovero dal gran cancelliere d’Inghilterra».

Il vero è che la sua pietà non cadde mai in santocchieria, e lo ajutò ad affrontare serenamente la morte in patria, il 18 novembre 1828, quasi al tempo stesso che il Cesari e il Monti. Subito ne scrisse una lunga vita Bennassù Montanari, suo conterraneo e amico; la quale levò rumore e acerbe critiche pei confronti con altri moderni, e massime col Monti. Se n’ha inoltre elogi pomposi dal Dei Bene e dal Della Riva, e noi conchiuderemo come esordimmo, che fu buon poeta, non grande, ma che l’uomo sta più nel cuore che nell’ingegno.

  1. Il Bertòla cantava:

    O Pindemonte, Italia
    Te pel cadente secolo
    Suo primo vate noma,
    Te per l’età vicina:
    E quei che a Metastasio
    Lauri ombreggiali la chioma,
    Al capo tuo destina.

  2. Giovanni Pindemonte concorse colle sue tragedie al premio, con che la Corte di Parma eccitava gli Italiani a lavori che sostenessero il confronto de’ tragici francesi. Le sue tragedie (stampate a Milano nel 1804, poi nel 1827, con un buon. discorso sul teatro italiano), quanto difettano di stile e versificazione, tanto giovansi delle opportunità sceniche, sia pei caratteri e il maneggio delle passioni, sia per l’invenzione, le situazioni, le crisi. Sono ancora applauditi I Baccanali di Roma. Era egli a Parigi nel 1800, quando fu scoperta la cospirazione, che pagò colla testa lo scultore romano Ceracchi. Parve vi facesse allusione il Pindemonte in una tragedia, che pertanto diede a nascondere a una Jeannette sua amica. Costei, indispettita perch’egli non voleva condurla seco in Italia, la portò alla Polizia, che lo arrestò come conscio della cospirazione. Ma il console Buonaparte sospese la frivola persecuzione, e il lasciò tornare di qua dell’Alpi, dove visse fino al 1812.
  3. Non sul margine d’un rio
         Il cui roco mormorio
         Pare un dolce lamentar,
    Non soliamo all’ombra mesta
         Di patetica foresta
         Ad amor piace abitar.
    Sovra i campi ancor del sangue
         Tra chi spira tra chi langue
         Animoso egli sen va.
    De’ concilj più severi
         Tra i reconditi pensieri
         Penetrar furtivo sa.

    Misero giovinetto!
         Basso ed oscuro il letto
         De’ sonni tuoi sarà,
    Ma fino ai dì più tardi
         Nella canzon dei Bardi
         Il nome tuo vivrà.
    Che sarà dell’infelice
         Genitrice?
         Duol l’assale ancor più rio
         Se ingannata talor erede
         Del tuo piede
         Pur sentire il calpestio.
    Siede a mensa, e te non mira,
         E sospira:
         Sa che più non può trovarti,
         E pur là dove più fosco
         Sorge il bosco
         Muove ancor per ricercarti.

  4. Ombra fatal che sulla negra antenna
    Dal cupo abisso al patrio suol rivarchi,
    Mira e poi dì se alla fatai tua penna
    Dovea la Francia e simulacri ed archi, ecc.

  5. E voi, pennelli della Grecia degni,
    Rafael, Tizïan, Paolo, Correggio,
    Con lavoro sì fin l’ombra e la luce
    Mescolate da voi sulle animate
    Tele fur dunque perchè il vostro ingegno
    Da pareti straniere indi pendesse?...
    Se le immagini sculte o le dipinte
    Tante mura lasciaro ignude e meste.
    Quello almen che la terra in se confitto
    Ritenea ci restò. Folle, che parlo?
    Ecco tremando e rimbombando forte
    Muraglie aprirsi, ecco tremendi massi
    Staccarsi, rovesciarsi, e ondeggiar torri, ecc.

  6. Disse alcuno che il Pindemonte “deve forse alla lima la maggiore sua riputazione”. La lima non può migliorare che un’opera già ben formata, e in tal senso può accettarsi questo giudizio. Di fatto quanto la lima migliorasse questa canzoncina vedasi dal paragone del primo getto, che diceva:

    Colline ed acque
         Chiesi agli Dei:
         Il voto piacque:
         Pago io vivrò.

    Nè quella fonte
         Co’ desir miei,
         Nè questo fonte
         Mai varcherò.

  7. Lettera posseduta con molt’altre dal signor Bianchini.
  8. Del meonio cantor sulle immortali
    Carte io vegghiava, e dalla lor favella
    Traeva io nella nostra i lunghi affanni....
    Ma tu, d’Omero più possente ancora,
    Tu mi stacchi da Omero.

  9. Il Torti, paragonando i due Sepolcri, canta:

         Di costui ne tragge
    Irresistibil forza in quel profondo
    Di sua mesta dolcezza: a tal virtude
    Il ciel formò quest’animo gentile
    Sovra qual altra or ha sua stanza in terra.

  10. Anche il Manzoni disse che Milano «di selva coronate attolle le favolose mura»: eppure selve non c’è attorno ad essa, se non vogliasi intendere la alberata via di circonvallazione. Il Pindemonte, venuto dopo 18 anni a Milano nel 1820, diceva: — Ho ammirato l’Arco, l’Arena, le pitture dell’Appiani; nondimeno lasciato le avrei tutto ciò per alcune centinaja de’ tanti suoi alberi, che volentieri avrei trasportati e piantati a Verona».
  11. Non troviamo cosa sua negli stampati dell’Istituto: ma è bella lezione per quelli che accettarono la pensione, e non adempirono nessuno dei doveri.
  12. Chi d’Ettor non cantò? venero anch’io
    Ilio raso due volte e due risorto....
    L’erba ov’era Micene, e i sassi ov’Argo.
    Ma non potrò da men lontani oggetti
    Trar fuori ancor poetiche faville?

                             Antica l’arte
    Onde vibri il tuo stral, ma non antico
    Sia l’oggetto in cui miri; e al suo poeta
    Non a quel di Cassandra, Ilo ed Elettra
    Dall’Alpi al mare farà plauso Italia.


Note

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