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Niccolò e Matteo Polo veneziani, savj e avveduti mercanti d’antica famiglia proveniente dalla Dalmazia, verso il 1260 passarono da Costantinopoli a Soldadia in Crimea, indi al nord lungo il Volga e alla Corte mongola di Capciak, poi con un persiano ambasciadore raggiunsero a Chemen-fu l’orda di Kublai-kan, successore di quel Chingis-kan, che aveva esteso il suo dominio dal cuore dell’Asia fino alla Cina, e atterrito di ultima rovina tutta la cristianità. Kublai, a differenza dei feroci imperatori musulmani di quel tempo1, era tollerante di tutte le religioni; e per quanto terribile distruttore di molte dinastie, accolse con maniere cortesi i due italiani, deliziandosi d’essere da loro informato de’ costumi e della religione dei loro paesi, e «come l’imperadore mantenea sua signoria, e come mantenea l’impero in giustizia, e de’ modi delle guerre e delle osti e delle battaglie di qua, e di messer lo papa e della condizione della Chiesa romana, e dei re e de’ principi del paese.... E quando il Gran Can ebbe inteso le condizioni de’ Latini, mostrò che molto gli piacessono», e gl’incaricò che, tornando, richiedessero il papa di mandargli persone dotte nelle sette arti liberali, affinchè dirozzassero e ammansissero le sue genti, meglio che non isperasse dai degeneri cristiani di levante, nè dai Lama del Tibet. Volea gl’inviati fossero capaci di dimostrare la superiorità del cristianesimo alle altre religioni, lasciando sperare che, in tal caso, egli e tutta la sua gente lo abbraccerebbero. Chiedeva pure gli recassero un poco dell’olio delle lampade che ardevano al santo sepolcro. Diè loro pertanto lettere e una lastra d’oro o dorata, portante ordine a tutti i sudditi di rispettarli, e fornirli di vetture e di scorte, franchi di spesa per tutte le sue terre.
Traverso all’Asia giunsero essi ad Acri il 1 aprile 1269, d’indi a Venezia, ove Niccolò trovava morta la moglie e di quindici anni il figlio Marco, di cui l’avea lasciata gravida e che prese con sè. Vacando allora la sede romana, nè potendo prolungare gl’indugi, furono di ricapo in Palestina (1271), ove presentarono l’ambasciata a Tibaldo Visconti cardinale legato; e poichè in quell’istante appunto arrivò l’avviso che questo, dopo la vacanza di due anni, era assunto alla tiara, esso li munì di lettere, e della compagnia di Niccolò da Vicenza e Guglielmo da Tripoli carmelitani, letterati e teologi: troppo scarsa risposta alla domanda di Kublai; anzi questi due poco dopo scoraggiati tornarono indietro.
Per mezzo ai pericoli cagionati dall’invasione di Bibars nell’Armenia, passarono i cinque cristiani per Ayas e Sivas, indi per Mossul e Bagdad fino ad Ormus alle bocche del golfo Persico: poi pel Korasan e Balk all’Oxo superiore, per le steppe di Pamer, pel deserto di Gobi, lungo le frontiere della Cina vennero a Kai-ping-fu residenza estiva del Can (maggio 1275) che ragguagliaron dell’ambasciata.
Sedeva Kublai ordinariamente nella nuova città di Ta-fu, oggi chiamata Peking e Cambalù da Marco Polo2, il quale così la descrive: — Lo palagio è di muro quadro per ogni verso un miglio, e in su ciascun canto è molto bel palagio; e quivi si tiene tutti gli arnesi del Gran Cane, cioè archi, turcassi, e selle e freni e corde e tende, e tutto ciò che bisogna ad oste e a guerra.... Il palagio è il maggiore che mai fu veduto; egli non v’ha palco, ma lo ispazzo è alto più che l’altra terra bene dieci palmi; la copritura è molto altissima. Le mura delle sale e delle camere sono tutte coperte d’oro e d’ariento: avvi iscolpite belle istorie di donne, di cavalieri, e d’uccelli e di bestie e di molte altre belle cose; e la copritura è così fatta che non vi si può vedere altro che oro e ariento. La sala è si lunga e sì larga, che bene vi mangiano seimila persone; e avvi tante camere ch’è meraviglia a credere. La copritura di fuori è vermiglia e pavonazza e verde e di tutti altri colori, ed è sì bene inverniciata, che luce come oro o cristallo, sicchè molto dalla lunge si vede lucere lo palagio. Tra l’uno muro e l’altro avvi begli prati e alberi.... e un gran fiume v’entra e esce, ed è si ordinato, che niuno pesce ne puote uscire.... E sappiate che quando è detto al Gran Cane d’uno bello albero, egli lo fa pigliare con tutte le barbe e con molta terra, e fallo piantare in quel monte, e sia grande quanto vuole, ch’egli lo fa portare a leofanti...
«La città di Gambalù ove sono questi palagi... è grande in giro di ventiquattro miglia, cioè sei miglia per ogni canto, ed è tutta quadra.... murata di terra,... e quivi ha dieci porte, e in su ciascuna porta hae un gran palagio;.... ancora in ciascuno quadro di questo muro hae un grande palagio, ove istanno gli uomini che guardano la terra. E sappiate che le rughe della città sono sì ritte, che l’una porta vede l’altra, e di tutte quante incontra così. Nella terra ha molti palagi, e nel mezzo hae uno, ov’è suso una campana molto grande che suona la sera tre volte, che niuno non puote più andare per la terra senza grande bisogno o di femina che partorisse o per alcuno infermo. Sappiate che ciascuno porta guarda mille uomini, e non crediate che vi guardi per paura d’altra gente, ma fassi per riverenza del signore che là entro dimora, e perchè li ladroni non facciano male per la terra....
«E quando il Gran Cane vuole fare una grande corte,... la sua tavola è alta più che l’altre, e siede verso tramontana... per cotal modo che puote vedere ogni uomo; e di fuori di questa sala ne mangia più di quarantamila, perchè vi vengono molti uomini di strane contrade con istrani presenti... E uno grandissimo vaso d’oro fino, che tiene come una gran botte, pieno di buon vino istà nella sala, e da ogni lato di questo vaso ne sono due piccoli; di quel grande si cava di quel vino, e degli due, piccoli beveraggi. Avvi vasella verniciate d’oro, che tiene l’uno tanto vino che n’avrebbeno assai più d’otto uomini, e hanne su per le tavole tra due uno; e hae anche ciascuno una coppa d’oro con manico con che beono, e tutto questo fornimento è di gran valuta... E sappiate che quegli che fanno la credenza al Gran Cane signore, sono grandi baroni, e tengono fasciata la bocca e il naso con begli drappi di seta, acciocchè lo loro fiato non andasse nelle vivande del signore. E quando il Gran Cane dee bere, tutti gli strumenti suonano, che ve n’ha grande quantità, e questo fanno quando hae in mano la coppa, e allora ogni uomo s’inginocchia e baroni e tutta gente, e fanno segno di grande umiltade.
«Lo Gran Cane, il giorno della sua nativitade, si veste di drappi d’oro battuto, e con lui si vestono dodici mila baroni e cavalieri tutti d’un colore e d’una foggia, ma non sono sì cari; e hanno gran cinture d’oro, e queste donò loro il Gran Cane. E sì vi dico che vi ha tale di queste vestimenta, che vagliono le pietre preziose e le perle che sono sopra queste vestimenta, più di dieci mila bisanti d’oro, e di queste v’ha molte: e sappiate che ’l Gran Cane dona tredici volte l’anno ricche vestimenta a quegli dodici mila baroni e vestegli tutti d’un colore con lui»3.
Marco, giovane svegliato, restò attonito di un mondo così differente dal nostro, e cominciò a notare quanto pareagli degno di ricordo e «ch’egli seppe più che nessuno che nascesse al mondo». Assistette alla ruina della dinastia cinese dei Sung: nella quale impresa i Poli giovarono Kublai fabbricando macchine da lanciar pietre di 300 libbre.
Marco fu da Kublai tenuto in gran capitale, e posto fin assessore del consiglio privato, e spedito a raccogliere notizie statistiche dell’impero e ad importantissime legazioni e governi; sicchè visitò le lontane Provincie di Shansi, Shensi e Ssechuen, e il Tibet orientale fino alla provincia di Yannan, paese quasi ignoto anche adesso; e per tre anni tenne il governo di Yangchou.
Come Kublai, col soprannome cinese di Sci-tsu, si trovò signore di tutta la Cina, pensò assoggettare il Giappone che gli aveva ricusato omaggio; ma fiera tempesta dissipò l’armamento, e le guerre che ebbe coi pretendenti impedirono di rinnovarlo. Pubblicò un codice più mite che quello della dinastia dei Sung; fece il censimento del paese, ove trovò tredici milioni di famiglie soggette all’imposte, e cinquantanove milioni di persone; oltre che n’era vassallo il re di Corea, il quale ogni capodanno mandava congratulazioni all’imperatore. Questi, poco fidandosi de’ vinti, conferiva piuttosto le magistrature a Mongoli o Cristiani, con non poco disgusto de’ Cinesi.
Mandati perchè pratici di mare, a condurre una nuova sposa al re di Persia, i Polo con faticosissimo viaggio di due anni vi giunsero (1292). Colà udita la morte di Kublai-kan, colsero quell’occasione per fare quel che da tanto tempo desideravano, cioè tornare in cristianità, e rividero la patria il 1295. Qui ha luogo un romanzesco racconto del Ramusio nel prologo al Milione. — Questi tre gentiluomini, da poi tanti anni che erano stati lontani dalla patria, non furono riconosciuti da alcuno dei loro parenti; i quali fermamente riputarono che fossero già molti anni morti, perchè così anche la fama era venuta. Si trovavano questi gentiluomini, per la lunghezza e sconci del viaggio e per le molte fatiche e travagli dell’animo, tutto tramutati nella effigie, che rappresentavano un non so che del tartaro nel volto e nel parlare, avendosi quasi dimenticata la lingua veneziana. Li vestimenti loro erano tristi e fatti di panni grossi al modo dei Tartari. Andarono alla casa loro, la quale era in questa città e nella contrada di S. Giovanni Grisostomo, come ancora oggidì si può vedere, che a quel tempo era un bellissimo e molto alto palagio, et ora è detta la Corte del Millioni per la cagione che qui sotto si narrerà. E trovarono che in quella erano entrati alcuni suoi parenti, alli quali ebbero grandissima fatica di dar ad intendere che fussero quelli ch’erano; perchè, vedendoli così trasfigurati nella faccia e mal in ordine d’abiti, non potevano mai credere che fossero quei de Cà Polo, ch’avevano tenuti tanti e tanti anni per morti.
«Or questi tre gentiluomini (per quello che io essendo giovanetto n’ho udito molte fiate dire dal chiarissimo messer Gasparo Malipiero, gentilhuomo molto vecchio e senatore di singolare bontà et integrità, ch’aveva la sua casa nel canale di S. Marina e sul cantone ch’è sulla bocca del Rio di S. Giovanni Grisostomo, per mezzo a punto della ditta corte del Millioni, che riferiva d’averlo inteso ancor lui da suo padre et avo e da alcuni altri vecchi uomini suoi vicini) s’immaginarono di far un tratto, col quale in uno stesso tempo ricuperassero e la conoscenza dei suoi e l’onor di tutta la città, che fu in questo modo. Che invitati molti suoi parenti ad un convito, il quale volsero che fosse preparato onoratissimo e con molta magnificenza nella detta sua casa, e venuta l’ora del sedere a tavola, uscirono fuori di camera tutti e tre vestiti di raso cremosino in veste lunghe sino in terra, come solevano standosi in casa usare in quei tempi. E data l’acqua alle mani, e fatti seder gli altri, spogliatesi le dette vesti, se ne misero altre di damasco cremesino, e posti di nuovo a tavola, le vesti seconde furono divise fra li servitori, et infine del convito il simil fecero di quelle di velluto, avendosi poi rivestiti nell’abito dei panni consueti, che usavano tutti gli altri. Questa cosa fece maravigliare, anzi restar come attoniti tutti gl’invitati, ma tolti via li mantili e fatti andar fuori dalla sala tutti i servitori, messer Marco, come il più giovane, levato dalla tavola, andò in una delle camere e portò fuori le vesti di panno grosso consumato, con le quali erano venuti a casa, e quivi con alcuni coltelli taglienti cominciarono a discucir alcuni orli e cuciture doppie, e cavar fuori gioje preciosissime in gran quantità, cioè rubini, saphiri, carbonci, diamanti e smeraldi, che in cadauna di dette vesti erano stati cuciti con molto artificio, et in maniera ch’alcuno non si averia potuto immaginare che ivi fossero state; perchè, al partir dal gran Cane, tutte le ricchezze ch’egli aveva loro donate cambiarono in tanti rubini, smeraldi et altre gioje, sapendo certo che, s’altrimente avessero fatto, per sì lungo, difficile et estremo cammino, non saria mai stato possibile che seco avessero potuto portare tanto oro.
«Hor questa dimostrazione di così grande et infinito tesoro di gioje e pietre preziose, che furono poste sopra la tavola, riempiè di nuovo gli astanti di così fatta meraviglia, che restarono come stupidi e fuori di sè stessi, e conobbero veramente ch’erano quegli onorati e valorosi gentiluomini da Cà Polo, di che prima dubitavano: e fecero loro grandissimo onore e reverenza. Divulgata che fu questa cosa per Venezia, subito tutta la città sì de nobili come de popolani corse a casa loro ad abbracciargli e fare tutte quelle carezze e dimostrazioni d’amorevolezza e riverenzia che si potessero immaginare, e messer Maffio, che era il più vecchio, onorarono d’un magistrato, che nella Città in quei tempi era di molta autorità. E tutta la gioventù ogni giorno andava continuamente a visitare e tratteneva messer Marco ch’era umanissimo e gratiosissimo, e gli dimandavano delle cose del Cattajo e del Cane, il quale rispondeva con tanta benignità e cortesia, che tutti gli restavano in un certo modo obbligati; e perchè nel continuo raccontare ch’egli faceva più e più volte della grandezza del Gran Cane, dicendo l’entrata di quello essere da 10 in 15 millioni d’oro, e così di molte altre ricchezze di quelli paesi riferiva tutto a millioni, lo cognominarono messer Marco Millioni».
Valga questa storiella per quel che può valere. Noi sappiamo che Marco, combattendo alla battaglia di Curzola il 7 settembre 1298, vi fu fatto prigioniero con altri 7000 veneti, e tenuto in dura prigione, consolò la cattività raccontando diverse cose «secondo ch’elli vide cogli occhi suoi; molte altre che non vide ma intese da savj uomini e degni di fede; e però estende le vedute per vedute e le udite per udite, acciocchè il suo libro sia diritto e leale e senza riprensione. E certo credi, da poi che il nostro signor Gesù Cristo creò Adamo primo nostro padre, non fu uomo al mondo che tanto vedesse o cercasse, quanto il detto messer Marco Polo».
Reso alla libertà (1323) e alla patria, morì carico d’anni, istituendo erede la moglie Donata Loredan e tre sue figliuole.
La relazione di Marco parve a molti favolosa, e la tennero di valore niente maggiore che i romanzi allora divulgati su Alessandro Magno, su Carlo Magno, su re Artù; e ad un codice fiorentino è scritto: — Qui finisce il libro di m. Marco Polo di Venezia, scritto colla propria mano da me Amelio Bonaguisi, quand’era podestà di Cieretto Guidi, par passar tempo e malinconia. Il contenuto mi sembrano incredibili cose, non tanto bugie quanto miracoli, e può esser vero tutto quello ch’egli dice, ma io non lo credo, benchè sia sicuro che per il mondo si trovino diverse cose in differenti contrade. Ma queste cose mi parvero nel copiare piacevoli abbastanza ma non degne di fede: tale almeno è la mia opinione. E ho terminato di copiare questo al detto Cierreto il 12 novembre 1392».
Che che opinione ne corresse, invogliò ad altri viaggi, i quali poi confermarono la veridicità di quel libro, che prima erasi creduto esagerazione, a segno che glien’era venuto il nome di Millione.
E appare che egli pel primo attraversò l’Asia in tutta la sua longitudine, nominando e descrivendo i varj regni, i terribili deserti della Persia e della Tartaria Cinese, la pianura di Pamer, le gole inospite di Baldakshan, il Khotan colle riviere cariche di diaspri, le steppe del Mongol, la gran città di Cambalù, oggi Pekino, la residenza estiva di Kublai a Kai-ping-fu. Il tenente Wood della marina britannica nelle Indie il 1829 scoperse le vere sorgenti dell’Oxo nell’altopiano di Pamer, e trovò esattissima la descrizione che il Polo fa di que’ paesi, da nessun altro nè prima nè poi conosciuti.
Benchè della Cina parli assai meno che della Tartaria, forse perchè ne ignorava la lingua, o la considerava solo come d’una gente vinta, Marco ne notò le ricche manifatture, le smisurate città e i possenti fiumi superbi4.
L’esistenza di questo grande impero già era stata rivelata all’Europa da’ missionarj Piano Carpini nel 1246 e Guglielmo Rubruquis nel 1253, ma il nostro fu il primo che potesse scorrerlo liberamente e con autorità. Ivi egli trovò che, per insegnare le strade, piantavansi alberi ramati; che vi si brucia una maniera di «pietre nere che si cavano dalle montagne come vene, che ardono come brace, e tengono più lo fuoco che non fanno le legna.... e per tutta la contrada del Catai non ardono altro». Ecco il carbon fossile5, come già vi si trovavano le bombe e la carta-moneta6; nè andrà fuori del verosimile chi creda che da quei viaggi venisse all’Europa la cognizione della carta, della polvere e della stampa7.
Fu il primo ad informarci delle nazioni alla Cina limitrofe, colle strane loro costumanze e relazioni; del Tibet coi suoi sordidi devoti e i pacifici monasteri; di Burma colle sue pagode d’oro e le loro tintinnanti corone; dell’orientale Thule colle sue perle vermiglie e i palazzi coperti d’oro; fu il primo a parlare di quel museo di bellezza e di maraviglie ancora imperfettamente esplorato che è l’arcipelago Indiano, donde ci vengono quegli aromi di prezzo così alto e d’origine così oscura; di Fava, la perla delle isole di Sumatra coi suoi molti re, gli strani prodotti delle sue coste e le sue razze antropofaghe; degli ignudi selvaggi di Nicobar e Adaman, e di Seylan, isola delle gemme colla sua sacra montagna e la tomba di Adamo; della Grande India, non come una terra fantastica qual è data nelle favole alessandrine, ma come una contrada veduta e parzialmente esplorata, co’ suoi virtuosi bramini, le sue oscenità ascetiche, i suoi diamanti e le curiose storie del loro modo di acquisto, il fondo de’ suoi mari di perle e il suo potente sole. Fu il primo nel medioevo a dare un distinto ragguaglio dell’appartato impero di Abissinia e della semicristiana isola di Socotora, favoleggiati nel Prete Janni; il primo a parlare, benchè oscuramente, di Zanzibar co’ suoi Negri e il suo avorio, e della grande e remota Madagascar, perduta nell’ignoto oceano del Sud, col suo Ruc ed altre mostruosità. Quello che egli racconta per udita dell’estremo settentrione, delle coste del mar Glaciale popolate di orsi bianchi, dove gli uomini si facevano trascinare da cani e cavalcavano delle renne, dovette accogliersi da’ suoi contemporanei siccome parto di fantasia, ma oggi è riconosciuto. Insomma egli fu il primo viaggiatore, che tracciò una via attraverso l’intiera lunghezza dell’Asia, nominando e descrivendo un dopo l’altro più regni ch’egli vide coi propri occhi, i deserti di Persia, i piani fiorenti e le selvatiche gole di Badascian, i fiumi di Cotan che trasportano le nifriti, le steppe di Mongolia, culla di quella potenza che ha minacciato di dominare tutta la cristianità, la nuova e brillante Corte stabilitasi a Cambalù.
Uomo pratico, fine ed abile negoziante, non perdeva mai di vista gl’interessi mercantili; appassionatissimo per la caccia, non ne parla mai senza esaltarsi; lieto d’un certo vino che faceasi col riso e inebbriava piacevolmente; avaro di parole, rispettosissimo per tutti i culti, anche per le superstizioni pagane, salvo che pegli eretici e i patarini.
È dunque il Polo una preziosa fonte di notizie intorno alla politica di Kublai-kan, alla Persia e alla Cina; particolarmente intorno ai Mongoli e al loro governo, ed ai paesi centrali ed orientali dell’Asia. Ai contemporanei suoi quanto non doveva eccitar interesse il ragguaglio della civiltà bizzarra de’ popoli al cui nome tremavano, e delle strane contrade, da cui traevano le gemme, le porcellane, le spezie, le seterie! Certo quelle descrizioni apersero il campo e fantasie nuove, innestandosi le asiatiche alle nostre tradizioni; come di poi le piante della Nuova Olanda ombreggiarono i nostri passeggi; e potentissimo eccitamento diedero ai viaggi di scoperta del secolo XV.
Parrebbe a presumere che il Milione fosse originalmente scritto in veneziano, dialetto dello scrittore. Il padre Spotorno sostiene che, nella lunga lontananza esso doveva aver dimentico l’idioma patrio, e che Andalò Del Negro genovese lo scrisse in latino, sopra relazioni del Polo stesso mentre stava prigione. I migliori ora tengono che Rusticiano da Pisa, suo compagno di carcere (demorant en le charthre de Jene fist retraire toutes cestes chouses as messire Rustacians de Pise que en celle mesme charthre estoit) scrivesse in francese quel che man mano raccoglieva dalla bocca di Marco. Il testo più vero pare quel che pubblicò la Società Geografica di Parigi nel 1824, rozzo di forme ma rettificati i nomi proprj per cura di Klaproth, che non potè però dare i commenti e la carta analizzata de’ paesi visitati. Presto il Milione fu mutato in toscano e in altre lingue, ma interpolandovi passi nuovi; nel che più grande libertà si prese il Ramusio nella famosa sua Collezione di navigazioni. E interpolati sono alcuni dei passi da noi riferiti; ma ce ne valemmo perchè il Ramusio deve averli tratti da qualche altra informazione contemporanea, se non forse da aggiunte che, dopo la prima redazione, vi avesse fatte lo stesso Polo in sua vecchiaja. La prima edizione autorevole è quella che fece Marsden nel 1818 in-4. L’italiana del Baldelli ha merito soltanto per la lingua8. Nel 1844 i viaggi di Polo furono stampati a Edimburgo da Morray, con copiose note illustrative. A. Bürck (die Reisen des venezianer M. Polo, Lipsia, 1845) diede la traduzione tedesca sopra le migliori edizioni, e con aggiunte di F. Neumann che avea viaggiato i luoghi stessi, e che trovò esattissimo il nostro veneziano. Pauthier lo fece conoscere alla Francia. Un’edizione italiana fu fatta a Venezia in occasione del congresso scientifico del 1847 per cura di Vincenzo Lazzari, traducendo quella del 1824, liberando il testo dalle aggiunte ramusiane, e corredandolo di ricche note.
Il colonnello Enrico Yule, del corpo degli ingegneri del Bengala, versatissimo nella geografia del medioevo e conoscente de’ paesi e delle lingue orientali, stampò a Londra nel 1871 The Book of ser Marco Polo the venetian, newly translated and edited with notes; 2 volumi con mappe e figure, con dissertazioni sulla vita, la famiglia il carattere del Polo, i suoi viaggi, la redazione di questi, la loro efficacia, e con giudiziosa scelta, e abbondanti non però ridondanti notizie geografiche, etnografiche, filologiche.
- ↑ Bibars, quarto sultano mammalucco del Cairo, nel 1270, cioè quando i Polo viaggiavano in Asia, scriveva a Boemondo re d’Antiochia: — Siamo entrati in Antiochia, colla scimitarra in pugno, l’ora quarta di sabato, quarto giorno del ramadan. Perchè non fosti tu là a vedere i tuoi cavalieri schiacciati sotto le zampe de’ miei cavalli, i tuoi palazzi saccheggiati e ridotti in cenere, i tuoi tesori presi e pesati, le tue donne vendute a fascio colle tue spoglie? Perchè non fosti là a contemplare i tuoi tempj distrutti, le tue croci rovesciate, i tuoi vangeli bruciati? Avresti veduto l’Islam tuo nemico calpestare il Santo dei Santi; il monaco, il preter il diacono sgozzati sull’altare; i principi del sangue reale trascinati in schiavitù; le chiese di Paolo e Cosma ingojate da un mare di fuoco, e senza dubbio avresti esclamato: — Piacesse al cielo che io fossi ridotto in polvere!» Siccome neppure uno de’ tuoi s’è salvato per poter recarti questo annunzio, te lo mando io stesso».
- ↑ Kan-fu, cioè alla corte. Kan-balich, cioè residenza del re.
- ↑ Milione, n. 69, 70, 71.
- ↑ Egli la chiama Catai, dai Khitan che per 200 anni la dominarono. Probabilmente nella Cina egli frequentava solo i forestieri; difatto i nomi che adopera sono i tartari o persiani: ignora l’uso del thè; dell’incubazione artificiale delle uova; de’ piedi schiacciati delle donne; della pesca fatta coi corvi di mare e la strana scrittura.
- ↑ Anche i primi gesuiti missionarj della Cina ci parlano «d’una cotal pietra bituminosa che ottimamenie si accende, e mena un calor più mordace e più durevole del carbone».
- ↑ «La fabbrica di monete dell’imperatore è in Cambalù, e il modo potria far credere egli abbia il secreto dell’alchimia, poichè fa monete colla corteccia dei gelsi. Ciascuna moneta reca la firma e il suggello di varj ufficiali. Essa allora diventa autentica, e nessuno può rifiutarla, pena la vita».
- ↑ Qualche tempo fa un giornalista cavò da una cronaca del XVII secolo che un tal Pamfilo Castaldi di Feltre, vissuto dal 1398 al 1464 avesse perfezionato i caratteri mobili di vetro, inventati da Pietro Natale vescovo di Equileo, e stampasse con essi alcune pagine, sicchè avrebbe preceduto Faust nell’invenzione della stampa. Vorrebbero vi fosse stato spinto dall’aver veduto alcuni fogli cinesi portati da Marco Polo. Il racconto non ha appoggio nè di autorità nè di ragione, secondo Yule; il nome di Marco Polo vi è mescolato come si fa nei romanzi storici; del resto le. stampe cinesi sono tabelle xilografiche e poteano averne fatte conoscere i missionarj.
- ↑ Quel che di lui dice Malte Brun è scarso e inesatto; e ridicolo il Rampoldi, che negli Annali Musulmani, IX, 174, racconta che Marco viaggiò col fratello e lo zio, visitò Tipango, Java, Ceilan, le Maldive, le due penisole esaminando Socotra, Madagascar, Sofola, e con occhio filosofico studiò le regioni di Zanguebar, Abissinia, Nubia, Egitto.