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XXXIV.1
A GIULIO
Non sempre aquario verna, né assidue
Nubi si addensano, piogge si versano
Malinconicamente
4Sovra il piano squallente:
Non sempre l’arida chioma a le roveri
I torbid’impeti d’euro affaticano,
Né dura artico ghiaccio
8A industri legni impaccio:
Ma tu, o che vespero levi la rosea
Face su l’ampio del ciel silenzio
O fugga al sol d’avanti
12Mal gradito a gli amanti,
Tu sempre in flebili modi elegiaci,
Lamenti, o Giulio, la cara vergine
Che il fren de’ tuoi pensieri
16Reggea con gli occhi neri.
Oh non continue querele e gemiti
Commise a’ dorici metri Simonide;
Né ogn’or gemé in Valchiusa
20Nostra piú dolce musa,
Sí fra le memori tombe romulee
Destò l’italica speme, e del lauro
Di Gracco ornò la chioma
24Al tribuno di Roma;
E anch’oggi splendidi gli sdegni vivono
Ne’ tardi secoli, spirano i fremiti
De le genti latine,
28Ne le armonie divine.
Deh, se pur prèmeti desio di piangere,
Mira la patria; grave d’obbrobrio
Il nome italo mira;
32E qui piangi e ti adira.
Mira: di barbaro lusso le rigide
Torri si vestono, dove già gl’integri
Petti e le forze e i gravi
36Senni crebber de gli avi.
Qui dove i trivii d’urli e domestico
Marte e di fiaccole notturni ardevano
E insanguinò le spade
40Gelosa libertade,
Di specchi fulgido ecco e di lampade
È il luogo, e gli ozii molce di un popolo
A cui diè il cielo in sorte
44Noia pallida e morte.
Torpe degenere la plebe, e lurida
Ammira gli aurei splendori, ed invida
E vil con mano impronta
48I duri Cresi affronta;
Lieta se a’ nobili tetti d’obbrobrio
Saliron avide le plebee vergini
A ricomprar le fami
52De’ genitori infami.
No, di quel valido sangue, che spiriti
Gentili e rapida virtú ne gli animi
De’ parenti fluiva,
56L’onda ahi piú non è viva.
Sacri a la pubblica salute, estranee
Minacce ed impeti di re fiaccarono:
Plebe altera, de’ grandi
60Prostrâr l’orgoglio e i brandi.
Discese il ferreo baron da l’orride
Castella, e al popolo vincente aggiuntosi
Con mano usa al crudele
64Cenno trattò le tele.
Da le patrizie magioni al popolo,
Premio d’industria, benigna copia
Calò; di languid’oro
68Non custodian tesoro
L’arche difficili. Crebbe a la patria
Larga di pubblici doni e di gloria
Ogni studio piú degno
72E di mano e d’ingegno.
E pompe sursero di fòri e portici
Ed are a l’unico signor de’ liberi.
Né a gli ozi allor de’ vili
76Servian l’arti civili;
Ma dal magnanimo voler, da’ semplici
Cuor de gli artefici, sfidando i secoli,
Balzò con franco volo
80Su l’attonito suolo
Di Flora il tempio; dove tra i memori
Padri fremerono d’assenso i giovini
A l’ira e a’ carmi austeri
84Del gran padre Alighieri.
- ↑ [p. 283 modifica]Per gli ultimi versi [pag. 80] ognun ricorda che la Commedia di Dante fu alcuna volta letta al popolo in Santa Maria del fiore.