< L'Altrieri (1910)
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Nota bibliografica
L'Altrieri (1910) Lisa

NOTA BIBLIOGRAFICA.


Carlo Dossi non aveva diciannove anni.

La prima edizione di L1 Altrieri, nero su bianco, apparve, nel 1808. in un breve volumetto di 139 pagine di circa cento esemplari fuori commercio, coi tipi Lombardi di Milano.

— L’originalità del lavoro e l’apparente stranezza, che interrompeva la consuetudine della letteratura e l’abitudine calma e facile della critica, accesero subito lo sdegno di un redattore della Perseveranza, l’avvocato Baseggio (articolo U1 19 gennaio lbC9) a cui rispose Alberto Quinterio sul numero del 22 gennaio; e Ruggiero Bonghi, allora direttore di quel foglio, accettava in parte le ragioni a difesa, ma assolveva il collaboratore dall’accusa di parzialità e di livore personale.

— La disputa fu ripresa dalla Crònaca grigia, il 24 gennaio, sul X. 4 dell’anno 9.°: Cletto Arrighi parteggiava apertamente per il Dossi. — Ambrogio Bazzaro, col suo liifìesso azzurro (Milano 1873). fece ììq\V Altrieri una garbata ma evidentissima imitazione, ed insieme porse l’omaggio più appassionato di un primo ed intelligente ammiratore.

La seconda edizione successe per 14 appendici sulla Riforma.

giornale romano, diretto da Luigi Perelli, intimo di farlo Dossi, incominciando dal numero 24 maggio 1881.

La terza, preceduta di uAgli scrittori novelliniuscì a cura dello Stabilimento tipografico italiano (Roma 1881). — Merita un posto in questa bibliografia una lettera che Edmondo De Amicis scriveva airamico autore il 7 aprile 1881: farà sorpresa a molti come lo scrittore così popolare, castigato e manzoniano, ammirasse il Dossi letterato d’eccezione e di tempra anomala, pregiato, allora, soltanto da pochi raffinati.

Ecco il documento: u Alberto carissimo.

’ Ti ringrazio veramente di cuore per Y Altrieri. che rilessi con nuovo piacere nella sua terza edizione. I tuoi consigli agli scrittori novellini sono poi veramente preziosi, e mi duole che altri non me li abbia dati quando avevo anch’io diciotto anni. Rodeva me pure la febbre dello scrivere, ma mi avevano infuso timore della stampa e dei suoi pericoli, e sfiuucia di me stesso. Ter giunta, teneva il precetto oraziano per parola di Vangelo. E così, molto mi tenni in corpo; e qualche cosuccia che scombiccherai, richiusi gelosamente con sette chiavi e sette suggelli. Ora, trentenne, non avrò certamente il coraggio di pubblicare Juvenilia che a diciotto o venti anni non sarebbe poi stato un aran peccato il pubblicare.

Ma i rimpianti sono vani — e lascio lì.

“Quando mi giunse VAltrieri fluivo di leggere La Desinenza in -4. Sei davvero, caro amico, un grande scrittore d un osservatore acutissimo. È questa una opera veramente forte e virile. Tutte le promesse contenute nell\4ftnm* vi sono tenute. Ma nel nero su biatuo giovanile la vita è mostrata come la vedevi: imparzialmente e senza parti pris; mentre in quei Ritratti umani sembri mettere studio a non vederne che il lato cattivo, perverso e moralmente brutto.

Lo scetticismo della Desinenza in A mi ha lasciato un non so che d’amaro; mentre VAltrieri, pieno di sentimento vero, temperato da malizia innocente, — colla Lisa e le banche di scuola, — mi lascia sempre una malinconia dolce e gradita.

La Desinenza in A non sarebbe forse l’opera di un periodo infelice della tua vita? — Fo cercare ora il Dal calarnajo d’un medico. Intanto leggo i Cento Anni di Gius. Rovani che, confesso con rossore di vergogna e di pentimento, non avevo letto sinora. E devo a te il piacere sommo di quella lettura.

Quando saremo riuniti, ti domanderò molte cose che tu certo saprai intorno a quel colosso, a chiedere le quali per iscritto sarebbe lungo e indiscreto. — Abbiamo avuto una serie di visite in villa che mi hanno distolto dallo scrivere. Da ciò il ritardo che ti pregQ perdonarmi. E tu aggiungi gentilezza a gentilezza inviandomi il saggio di nuova critica che hai dato alla Riforma. Non so come farò a ricambiarti tanta bontà a mio riguardo. Non posso per ora se non ringraziartene.

“Addio, mio ottimo amico, una stretta di mano affettuosissima dal tuo Edmondo







ALLA. CARA MIA MAMMA,

PEK I SUÒI LUNGHI BACI,

ACCONTO

ACCOLTO.

L’ A L T R I E R I



I miei dolci ricordi! Vllorchc mi Irovo rincantuccialo sotto la cappa del vasto camino, nella oscurità della stanza — rolla solo da un pàllido e freddo raggio di luna che disegna suirammattonato i circolari piombi della finestra — mentre la gatta pisola accovacciala sulla predella del focolare, ed anche il fuoco, dai roventi carboni, dal leggier crepolio, sonnecchia; oppure quando, seduto sulla scalèa che dà sul giardino, stellàndosi i cieli, sèntomi in faccia alla loro sublime silenziosa immensità, l’anima mia, stanca di febbrilmente tuffarsi in sogni di un lontano avvenire e slanca di battagliare con mille dubbi, colle paure, cogli scoraggiamenti, strìngesi ad un intenso melanconico desiderio per ciò che fu.

Io li evoco allora i miei amati ricordi, io li voglio; li voglio, uno per uno, contare come la nonna fa co’ suoi nipotini. Ma essi, sulle prime, mi si tirano indietro: quatti quatti èrano là sotto un bernòccolo della mia testa; io li annojo, li stuzzico; quindi han ragione se fanno capricci. Pure, a poco a poco, il groppo si disfa; uno, il mcn timoroso, caccia fuori il musetto; un secondo lo imita: essi cominciano ad uscire a sbalzi, a intervalli, come la gorgogliante acqua dal borbottino.

Ed eccomi — a un tratto — bimbo, sovra una sedia alta, a bracciuoli, con al collo un gran tovagliolo. La sala ò calda, inondala dal giallo chiarore di una lucerna a olio e, intorno intorno alla tàvola dalla candidissima mappa, dai lucenti cristalli quà e là arrubinali, dalla scintillante argenteria, vi ha molti visi — di chi, non sovvengo — visi rossi ed allegri, da gente rimpinzila.

E Lì, due mani in bianchi guanti posano nel mezzo, su un piallo turchi no, quel dolce che ò la vera imà*nne dell’inverno, clic O 7 cosi bene rappresenta la neve e le foglie secche.

Io batto le palme, e.... Io mi trovo un cialdone, gonfio di lattemiele, appiccicato al naso....

E tulio rovina. Segue una tenebria: a ine par d’èssere solo, solissimo, in una profonda caverna in cui l’aqua stilla, gelata, lungo le pareli

in cui la terra risuona. E mi fu detto ch’io ebbi molto Irìbì ... Sia! doppiamente presto che sopra un teatro, la scena si muta. Rimpolpalo, rimpenuato, stavolta le rondinelle mi scòrgono in un giardino a capo di una viuzza orlata dall’ima e dall’altra banda con cespi di sempreverdi. 11 cielo è d’un azzurro smagliante
l’àura, fresca, odorosa. I na bambina con i capelli sciolti spunta all’estremo della viuzza e corre spingendo davanti a se un cerchio. Com’ ella mi giunge, si arresta, si sbassa
stringendomi colle sue manine le guancie, m’appicca uno di quelli schietti baci che lasciano il succio. E il cerchio intanto,, abbandonato, traballa, disvia.... giravollando, cade.

Ma, col sangue che questo baciozzo attira, vien, pelle pelle, ogni ricordo dei tempi andati.

È la paletta che sbracia il caldano. Spiccatamente io comincio a vedere, io comincio a sentire.

E tò, in un salone che stanzeltina mi se irbra adesso!) entro una màchina di una seggiola, mia nonna, anunagliando una bianca calzetta eterna, col suo ricco e nero amoerre dal fruscio metàllico e con intorno allo scarno adunco profilo, un cullione a naslri crèmisi e a pizzi: vicino a lei, sul lùcido intavolalo, ruzzola, da Inè lanciata, una trottola.

Strìduli suoni d’un ansante organetto sàlgono o o dalla strada. Io, sùbito, dimenticando il favorito pècoro di cartone e gli abitanti di una gigantesca arca di Noè, delle cui verniciate superfici sèntomi ancora ingommate le mani, balzo% ai pogginolo, arrampico sul balaustrato e giù vedo un microcosmo di cavalieri e di dame che salterellano convulsi sullo sfiatalo istrumento.

Oh i belli! i belli! — grido applaudendo e lascio cadere verso quel cenciosello, che con un berretto, da guardia civica, del padre, corca (fimpietosire impannate e vetriere, il mio più lampante soldo. In questa, uno zoccolare dietro di mè. È Xencia, la bambina ja: sobbrà cciami d’improvviso, mi porla via — mi porta, in làgrime e sgambettando, in una càmera dove stà un tepido bagno. H lì, essa e mamma, mi svestono, mi attùttano, 111’iusapònano da capo a piedi. Imaginate la bizza! Ma il martirio finisce: tocco il paradiso. Sciatto, incipriato, rinfoderato in freschi lini dal senior di lavanda, mamma mi piglia sulle ginocchia....

(iiiiochiamo a chi la il bacio più piccolo. Un barbaglio di quelle graziose paroline, dolce segielo fra ogni madre e il suo mimmo, le nostre labbra, nel baciucchiarsi, pispigliano. E h; bbo sopraviene; ei vuole averne la parte sua, naturalmente! — (’attivo babbino — dico io schermendomi — tu punei, tu....

)h, i mièi amali ricordi, eccovi. Mentre di

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