< L'Asino (Machiavelli)
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CAPITOLO QUINTO.


VEniva già la fredda notte manco,
     Fuggivansi le stelle ad una ad una,
     3E d’ogni parte il Ciel si facea bianco;
Cedeva al Sole il lume della Luna,
     Quando la donna mia disse: E’ bisogna,
     6Poichè egli è tale il voler di fortuna,
S’io non voglio acquistar qualche vergogna,
     Tornar alla mia mandra, e menar quella
     9Dove prender l’usato cibo agogna.

Tu ti resterai solo in questa cella,
     E questa sera al tornar menerotti
     12Dove tu possa a tuo modo vedella.
Non uscir fuor, questo ricordo dotti;
     Non risponder, se un chiama; perchè molti
     15Degli altri questo errore ha mal condotti.
Indi partissi; ed io, che aveva volti
     Tutti i pensieri all’amoroso aspetto,
     18Che lucea più che tutti gli altri volti,
Sendo rimaso in camera soletto,
     Per mitigar, del letto i’ mi levai,
     21L’incendio grande, che m’ardeva il petto.
Come prima da lei mi discostai,
     Mi riempiè di pensier la saetta
     24Quella ferita, che per lei sanai.
E stav’io come quello, che sospetta
     Di varie cose, e se stesso confonde,
     27Desiderando il ben che non aspetta.
E perchè all’un pensier l’altro risponde
     La mente alle passate cose corse,
     30Che il tempo per ancor non ci nasconde;
E qua, e là ripensando discorse,
     Come l’antiche genti alte, e famose,
     33Fortuna spesso or carezzò, e or morse.
E tanto a me parver maravigliose,
     Che meco la cagion discorrer volli
     36Del variar delle mondane cose.
Quel che rovina da’ più alti colli
     Più ch’altro, i Regni, è questo, che i potenti
     39Di lor potenza non son mai satolli.
Da questo nasce, che son mal contenti
     Quei ch’han perduto, e che si desta umore
     42Per ruinar quei, che restan vincenti.

Onde avvien, che l’un sorge, e l’altro muore;
     E quel ch’è surto, sempremai si strugge
     45Per nuova ambizione, o per timore.
Questo appetito gli Stati distrugge;
     E tanto è più mirabil, che ciascuno
     48Conosce questo error, nessun lo fugge.
San Marco impetuoso, ed importuno,
     Credendosi aver sempre il vento in poppa,
     51Non si curò di rovinare ognuno;
Nè vide come la potenza troppa
     Era nociva: e come il me’ sarebbe
     54Tener sott’acqua la coda, e la groppa.
Spesso uno ha pianto lo Stato ch’egli ebbe;
     E dopo il fatto poi s’accorge, come
     57A sua rovina, ed a suo danno crebbe.
Atene, e Sparta, di cui sì gran nome
     Fu già nel mondo, allor sol rovinorno
     60Quand’ebber le potenze intorno dome.
Ma di Lamagna nel presente giorno
     Ciascheduna città vive sicura,
     63Per aver manco di sei miglia intorno.
A la nostra città non fe paura
     Arrigo già con tutta la sua possa,
     66Quando i confini avea presso alle mura;
Ed or ch’ella ha sua potenza promossa
     Intorno, e diventata è grande, e vasta,
     69Teme ogni cosa, non che gente grossa.
Perchè quella virtute, che soprasta
     Un corpo a sostener quand’egli è solo,
     72A regger poi maggior peso non basta.
Chi vuol toccare l’uno, e l’altro polo,
     Si trova rovinato in sul terreno;
     75Com’Icar già dopo suo folle volo.

Vero è, che suol durar o più o meno
     Una potenza, secondo che più
     78O men sue leggi buone, ed ordin fieno.
Quel Regno che sospinto è da virtù
     Ad operare, o da necessitate,
     81Si vedrà sempre mai gire a l’insù.
E per contrario fia quella cittate
     Piena di sterpi silvestri, e di dumi,
     84Cangiando seggio dal verno alla state,
Tanto che al fin convien che si consumi,
     E ponga sempre la sua mira in fallo,
     87Chi ha buone leggi, e cattivi costumi.
Chi le passate cose legge, sallo
     Come gli imperj comincian da Nino,
     90E poi finiscono in Sardanapallo.
Quel primo fu tenuto un uom divino,
     Quell’altro fu trovato fra l’ancille
     93Con una donna dispensar il lino.
La virtù fa le region tranquille;
     E da tranquillità poi ne risolta
     96L’ozio, e l’ozio arde i paesi, e le ville.
Poi quando una provincia è stata involta
     Ne’ disordini un tempo tornar suole
     99Virtute ad abitarvi un’altra volta.
Quest’ordine così permette, e vuole
     Chi ci governa, acciocchè nulla stia,
     102E possa star mai fermo sotto ’l Sole.
Ed è, e sempre fu, e sempre fia
     Che il mal succeda al bene, il bene al male,
     105E l’un sempre cagion dell’altro sia.
Vero è, ch’io credo sia cosa mortale
     Pe’ regni, e sia la lor distruzione
     108L’usura, o qualche peccato carnale;

E della lor grandezza la cagione,
     E che alti, e potenti gli mantiene,
     111Sian digiuni, limosine, orazione.
Un altro, più discreto, e savio tiene,
     Che a rovinargli questo mal non basti,
     114Nè basti a conservargli questo bene.
Creder, che senza te per te contrasti
     Dio, standoti ozioso, e ginocchioni,
     117Ha molti Regni, e molti Stati guasti.
E’ son ben necessarie l’orazioni:
     E matto al tutto è quel che al popol vieta
     120Le ceremonie, e le sue divozioni;
Perchè da quelle in ver par che si mieta
     Unione, e buono ordine; e da quello
     123Buona fortuna poi dipende, e lieta.
Ma non sia alcun di sì poco cervello,
     Che creda, se la sua casa rovina
     126Che Dio la salvi senz’altro puntello;
Perchè e’ morrà sotto quella rovina.

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