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CAPITOLO SECONDO.
QUando ritorna la Stagione aprica,
Allor che Primavera il Verno caccia,
3A’ ghiacci, al freddo, alle nevi nimica,
Dimostra il Cielo assai benigna faccia,
E suol Diana con le Ninfe sue
6Ricominciar pe’ boschi andar a caccia.
E il giorno chiaro si dimostra piue,
Massime se tra l’uno, e l’altro corno
9Il Sol fiammeggia del celeste bue.
Sentonsi gli Asinelli, andando attorno,
Romoreggiar insieme alcuna volta
12La sera, quando a casa fan ritorno.
Tal che chiunque parla mal, si ascolta;
Onde che per antica usanza è suta
15Dire una cosa la seconda volta.
Perchè con voce tonante, ed arguta
Alcun di loro spesso, o raglia, o ride,
18Se vede cosa che gli piaccia, o fiuta.
In questo tempo, allor che si divide
Il giorno dalla notte, io mi trovai
21In un luogo aspro quanto mai si vide.
Io non vi so ben dir, com’io v’entrai,
Nè so ben la cagion, perch’io cascassi
24Là dove al tutto libertà lasciai.
Io non poteva muover i miei passi
Pel timor grande, e per la notte oscura,
27Ch’io non vedeva punto ov’io m’andassi.
Ma molto più m’accrebbe la paura
Un suon di un corno sì feroce, e forte,
30Che ancor la mente non se ne assicura,
E mi parea veder intorno morte
Con la sua falce, e d’un color dipinta,
33Che si dipinge ciascun suo consorte.
L’aria di folta, e grossa nebbia tinta,
La via di sassi, bronchi, e sterpi piena,
36Avean la virtù mia prostrata, e vinta.
Ad un troncon m’er’io appoggiato a pena,
Quando una luce subito m’apparve
39Non altrimenti che quando balena.
Ma come il balenar già non disparve;
Anzi crescendo, e venendomi presso,
42Sempre maggiore, e più chiara mi parve.
Aveva io fisso in quella l’occhio messo,
E intorno a essa un mormorio sentivo
45D’un frascheggiar, che le veniva appresso.
Io era quasi d’ogni senso privo,
E spaventato a quella novitate
48Teneva volto il volto a chi io sentivo.
Quando una donna piena di beltate,
Ma fresca, e frasca mi si dimostrava
51Con le sue trecce bionde, e scapigliate.
Con la sinistra un gran lume portava
Per la foresta, e dalla destra mano
54Teneva un corno, con ch’essa sonava.
Intorno a lei per lo solingo piano
Erano innumerabili animali,
57Che dietro le venian di mano in mano;
Orsi, Lupi, e Leon fieri, e bestiali,
E Cervi, e Tassi, e con molt’altre fiere,
60Uno infinito numer di Cinghiali,
Questo mi fece molto più temere;
E fuggito sarei pallido, e smorto,
63S’aggiunto fosse alla voglia il potere.
Ma quale stella m’avria mostro il porto?
E dove gito misero, sarei?
66O chi m’avrebbe al mio sentiere scorto?
Stavano dubbi tutti i pensier miei,
S’io doveva aspettar, che a me venisse,
69O reverente farmi incontro a lei.
Tanto che innanzi dal tronco i partisse,
Sopraggiunse ella, e con un modo astuto,
72E sogghignando: buona sera, disse.
E fu tanto domestico il saluto,
Con tanta grazia, con quanta avria fatto,
75Se mille volte m’avesse veduto.
Io mi rassicurai tutto a quello atto;
E tanto più chiamandomi per nome
78Nel salutar che fece il primo tratto.
E di poi, sogghignando, disse: or come,
Dimmi, sei tu cascato in queste valle
81Da nullo abitator colta, nè dome?
Le guancie mie, ch’erano smorte, e gialle,
Mutar colore, e diventar di fuoco,
84E tacendo mi strinsi nelle spalle.
Arei voluto dir: mio senno poco,
Vano sperare, e vana openione
87M’han fatto ruinare in questo loco;
Ma non potei formar questo sermone
In nessun modo: cotanta vergogna
90Di me mi prese, e tal compassione!
Ed ella sorridendo: Eh! non bisogna
Tu tema di parlar tra questi ceppi;
93Ma parla, e dì quel che ’l tuo core agogna.
Chè, benchè in questi solitarj greppi
I’ guidi questa mandra, e’ son più mesi
96Che tutto il corso di tua vita seppi.
Ma perchè tu non puoi aver intesi
I casi nostri, io ti dirò, in che lato
99Ruinato tu sia, o in che paesi.
Quando convenne, nel tempo passato
A Circe abbandonar l’antico nido,
102Prima che Giove prendesse lo Stato;
Non ritrovando alcuno albergo fido;
Nè gente alcuna, che la ricevesse,
105(Tant’era grande di sua infamia il grido!)
In queste oscure selve ombrose, e spesse,
Fuggendo ogni consorzio umano, elegge
108Suo domicilio, e la sua sedia messe.
Tra queste adunque solitarie schiegge
Agli uomini nimica si dimora,
111Nodrita da’ sospir di questa gregge.
E perchè mai alcun non escì fuora,
Che quì venisse, però mai novelle
114Di lei si sepper, nè si sanno ancora,
Sono al servizio suo molte donzelle,
Con le quai solo il suo regno governa,
117Ed io sono una del numer di quelle.
A me è dato per faccenda eterna,
Che meco questa mandria a pascer venga
120Per questi boschi, e ogni lor caverna.
Però convien che questo lume tenga,
E questo corno: l’uno, e l’altro è buono,
123Se avvien che il giorno, ed io sia fuor, si spenga.
L’un mi scorge il cammin, con l’altro ’l suono,
Se alcuna bestia nel bosco profondo
126Fosse smarrita, sappia dove io sono,
E se mi domandassi, io ti rispondo:
Sappi, che queste bestie, che tu vedi,
129Uomini, come te, furon nel mondo.
E se alle mie parole tu non credi,
Risguarda un po’ come intorno ti stanno,
132E chi ti guarda, e chi ti lecca i piedi.
E la cagion del guardar ch’elle fanno
È che a ciascuna della tua rovina
135Rincresce, e del tuo male, e del tuo danno.
Ciascuna, come te, fu peregrina
In queste selve, e poi fu trasmutata
138In queste forme dalla mia Regina.
Questa propria virtù dal Ciel gli è data,
Che in varie forme faccia convertire,
141Tosto che ’l volto d’un uom fiso guata.
Per tanto a te convien meco venire,
E di questa mia mandra seguir l’orma,
144Se in questi boschi tu non vuoi morire,
E perchè Circe non vegga la forma,
Del volto tuo, e per venir segreto,
147Te ne verrai carpon fra questa torma.
Allor si mosse con un viso lieto;
Ed io, non ci veggendo altro soccorso,
150Carpendo con le fiere le andai drieto,
Infra le spalle d’un cervio, e d’un orso.