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L’ENTUSIASMO
POEMETTO LIRICO
DI
GIAMPIETRO RIVA
LUGANESE
Qualora a far soggiorno
Meco discendon l’immortali suore,
Piover mi sento un’aurea luce intorno,
Che il cor m’empie d’ignoto alto valore.
Tutto cangiato son da quel, ch’io era,
E nella mente altera
Fervide accolgo immagini superne.
Veder mi sembra a me dinnanzi starsi
In su la foglia del Parrasio albergo
Di chiare penne eterne
Cento vaghi destrieri armati il tergo.
Quinci amici spirti di valor cosparsi
Ardono a vol levarsi:
Onde a due eletti corridori il morso
Pongo, e li spingo gloriosi al corso.
Parmi d’aver possanza
Di regger tutto a mio talento il mondo;
Onde tanta nel cor viemmi baldanza,
Ch’imperioso or volo alto, or profondo.
Passo di Teti sul gran regno immenso,
Ove più l’acre è denso,
E metto i nembi, e le tempeste in bando.
Talora a Borea procelloso affreno
L’ali, ed afferro all’umid’austro il crine.
E li traggo mugghiando
Su le tumide, altere, onde marine:
E le procelle al mar de’ Sciti in seno,
E all’Etiopo meno.
Nettun spesso guatommi, e n’ebbe sdegno,
Che a lui turbassi rigoglioso il regno.
Ma chi può freno porre
Alla forza, che’l sen m’agita, e muove?
Talor la calda mente avida scorre
Tra le battaglie sanguinose, dove
Cingo di folgoranti ire gli alteri
Magnanimi guerrieri;
Lor pongo il tuono, e i fulmini da lato,
E meno al lampo dell’irate spade
Morte insieme, e Vittoria intorno ai lidi.
Lor dono l’onorato
Lauro, di cui fra i trionfali gridi
Cinti, son tratti per l’adorne strade
Delle patrie contrade
Così spesso il sonoro eccelso carme
Arbitro sembra del destin dell’arme.
Volgo il corso talora
De’ luminosi, indomiti cavalli
Giuso ne’ campi Elisi, e traggo fuora
De le caliginose, e cupe valli
L’alte memorie dell’età vetuste,
E le prische alme auguste,
Ch’ivi tra l’ombre inferne ascose stanno,
Qua meno a respirar vite più belle;
E ’l canuto Signor di Stige fiero
Mi guarda, e n’ave affanno,
Che sue ragioni a lui tolga, e l’impero.
Di là torno a poggiar sotto le stelle
Con le prede novelle:
L’eternitade il bel tesoro attende,
E sol da’ cenni miei la fama pende.
D’indi passa mia mente
Su lo splendor de’ Cavalieri, e Regi,
E qualch’alma mirar degna sovente,
Che del vero valor si cinga, e fregi.
E ben più d’un eroe gentile, e prode
Per la concessa lode
Chiaro, e altero n’andò su le famose
Glorie delle passate anime illustri,
Le quali spesso rimirai, che stersi
Su i fasti altrui pensose.
Bello intorno venirmi era a vedersi
Più d’un, vago de’ carmi, onde s’illustri
Dopo il corso de’ lustri;
E star virtude in dolce gaudio accolta
In mirarsi per me famosa, e colta.
In tal guisa mi vede
Il vulgo rio, cui mia possanza è ascosa,
E ben sovente vaneggiar mi crede;
Ma nulla io bado a lui, come a vil cosa;
Di più starmi quaggiù mi reco a vile,
E al buon Perseo simile
Vo per l’aere, d’onor fervido, e grave.
Termine angusto alla gran mente altera
Parmi la mole dell’impero umano.
Degno spazio non ave
Il vasto interminabil oceano.
Onde sormonto la più bassa sfera,
Ove non giunge sera;
E della Luna nell’argenteo giro
Starsi di mille Orlandi il senno io miro.
Ma forza è, che i gran voli
Stenda più alto su le vie del sole,
Seco trascorro luminoso i Poli,
Ed in vedermi su per l’alta mole
Or nell’occaso, ora nel cerchio Eoo
Turbansi Eto, e Piroo.
S’affrontan spesso i miei destrier con loro,
E vinti in fuga per lo ciel li volgo.
Questi indi accolgo al freno, e meno i giorni
In sul gran carro d’oro,
Giorni di viva luce eterna adorni,
Ch’ardono ai saggi, e si fan nebbia al volgo
Tale in cielo m’avvolgo,
E spesso i crini sanguinosi eccelsi
All’orribil cometa, e al folgor svelsi.
Nè qui mi fermo: in alto
Verso il crudo aquilone, e nubiloso
Talor trascorro glorioso, ed alto.
Veggio l’una, e l’altr’orsa, e’l luminoso
Carro il pigro girar freddo Boote
Su le candide rote:
E Cefeo miro, e lo squammoso Drago;
Quinci sopra i trofei d’Alcide io seggio,
E mi fermo a mirar di Cassiopea
La bellissima imago.
E la Vergin Cretese, a cui cingea
Luminosa corona il crin, vagheggio;
Poscia il Pegaso veggio,
Ed il Delfin, che ad incontrarmi uscio,
Immaginando che Arion fuss’io.
Passo dappoi vers’Istro
Alla parte più calda all’orse opposta.
Viemmi incontro il marino orrido mostro,
A cui fu ignuda in riva al mare esposta
Andromeda legata al duro scoglio:
A lui cade l’orgoglio,
Che me in mirar, Perseo rammenta, e teme.
Qui latra il cane adusto, e splende d’Argo
La nave, ed Orione armato d’auro:
Là furiosa freme
La fulgid’Idra, e’l lupo, e’l buon Centauro
E fuggo lor sembianze atroci, e spargo,
E per lo ciel mi allargo;
E se alcun altro incontro aspetto orrendo,
O’l torco altronde, o mansueto il rendo.
Non è mia mente stanca
In varcare di ciel spazio cotanto,
E passo su la via lucente, e bianca,
Cui fan mill’astri scintillando il manto;
Per questo calle, che de’ Numi mena
Alla Reggia serena,
L’alme io conduco nel corporeo velo,
E per lo stesso le rimeno dopo
Carche di merti alla sua prima stella
A far più chiaro il cielo.
Seco entro anch’io nella divina, e bella
Reggia, che sparsa è d’oro, e di piropo,
Nè d’altra scorta ho d’uopo,
E poggiando sul feggio alto, e superno
Mi pongo al lato del Senato eterno.
Quivi il Padre de’ Dei
M’ode, e prende da me consiglio e legge
E con le leggi, e co i consigli miei
Dà moto a’ cieli, e ’l basso mondo regge.
Lui pongo al fianco sull’augusto trono
I gran fulmini, e’l tuono,
Onde a’ superbi figli della terra
Le fronti umilia, e le percosse, ed arse
Caggion cittadi, e i regni ampi, e famosi
Van col gran busto a terra.
Quinci son tratto, ove si stanno ascosi
I fati eternì, e le venture molte
In lungo ordine accolte
Leggo de’ semidei, e d’alti auguri
Fonne tesoro a i secoli futuri.
Di là riede a legarsi
Alle giovani sue spoglie mortali
Lo spirto mio, che lungo tempo starsi
Non può tra le venture alte, e immortali.
Allor più non ragiono in bassi accenti
Alle Italiche genti.
Chiaro suggetto de’ sonori carmi
Le magnanime sono alme famose,
E le feroci generose belve,
Vengono ad ascoltarmi
Fuori degli antri, e delle cupe selve.
Così contr’al poter di morte, cose
Canto alla plebe ascose,
E albergo le virtù meco, e con loro
Mi siedo all’ombra dell’augusto alloro.