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CAPITOLO XV.
Le anguille tremanti.
Per cinque lunghissime ore il piccolo drappello marciò senza interruzione in quella gigantesca boscaglia, passando di macchia in macchia e non facendo che qualche brevissima sosta per ascoltare se udivasi qualche rumore che annunciasse un inseguimento da parte di quei formidabili mangiatori di carne umana.
Alle nove del mattino, completamente esausti e anche molto affamati, si arrestavano sulle rive d’un fiume largo una quarantina di metri ed ingombro di piante acquatiche sotto le quali potevano benissimo celarsi degli anfibi e anche dei pesci, tutt’altro che inoffensivi.
— Eccoci già a buon punto, — disse il marinaio scendendo la riva. — Se possiamo trovare un guado e nessuno ci ostacolerà il passaggio, non avremo più nulla da temere da parte degli Eimuri che mi cercavano.
Quei selvaggi hanno troppa paura dell’acqua e per costruire un ponte con tronchi d’albero ci vuole del tempo.
— Gettiamoci a nuoto, — disse Alvaro. — L’acqua non mi sembra profonda e la corrente è poco rapida.
— Alto là, signore, — rispose il marinaio. — I fiumi del Brasile non sono quelli del vostro paese e nemmeno quelli del mio. Sono forse più pericolosi delle foreste.
— Non scorgo nessun jacarè.
— Se vi fossero solamente dei caimani, non mi preoccuperei tanto, mio signore. Non sono sempre affamati e poi non sempre assaltano l’uomo.
— Allora temete i caribi.
— No, non ve ne devono essere qui. Quei mostriciattoli preferiscono le acque profonde e limpide.
— Che cosa dunque può spaventarvi tanto?
— Il sucuriù.
— Eh! Dite?
— Il boa dei fiumi, un rettile di dimensioni enormi che talvolta raggiunge i dodici metri.
— Ah! Ne abbiamo veduto anche noi di quei boa e ne abbiamo ucciso anzi qualcuno.
— Ora ci accerteremo, prima di mettere le gambe in acqua, se ve ne sono qui, — disse il marinaio.
— In qual modo? — chiese Alvaro.
— Guardate e soprattutto tendete gli orecchi. È un metodo infallibile insegnatomi dai Tupinambi. —
Il marinaio di Solis con un bastone attirò verso la riva una foglia di vittoria che andava lentamente alla deriva e si mise a batterla mentre mandava dei ruggiti rauchi che somigliavano un po’ a quelli che emettono i giaguari allorquando si preparano a piombare sulla selvaggina.
Dopo alcuni istanti in fondo al fiume si udì un rumore sordo che a poco a poco aumentava d’intensità.
— È il sucuriù che risponde, — disse Diaz, risalendo rapidamente la riva. — Se ci gettavamo a nuoto facevamo un bell’affare!
— È sott’acqua il boa? — chiese Alvaro.
— È nascosto in mezzo alle erbe, — rispose il marinaio.
— Rispondono sempre?
— Tutti i serpenti, quando si riesce a imitare bene il loro sibilo.
— È incredibile!
— Quando gl’indiani vogliono impadronirsi dei rettili che infestano le foreste, li chiamano con dei sibili più o meno dolci, ne ho fatto più volte la prova con successo. ....quando i suoi compagni lo videro improvvisamente contorcersi... (Cap. XV).
Una sera ho attirato fino sulla porta della mia capanna due sucuriù che da qualche tempo divoravano i miei pappagalli.
Signor Viana, risaliamo il fiume e cerchiamo un altro guado meno pericoloso.
— E la colazione, a quando? Non dimenticate che marciamo da cinque o sei ore, e che è dal pomeriggio di ieri che non entra una briciola di carne nel nostro stomaco.
— A più tardi, quando avremo varcato il fiume. Le foreste del Brasile non difettano di selvaggina per gli uomini che hanno delle armi. —
Si misero a costeggiare il fiume, guardando attentamente dove posavano i piedi, essendovi in quel luogo parecchi tronchi atterrati che potevano servire di asilo ai pericolosissimi jararacà, quei serpentelli color delle foglie secche che s’attaccano subito alle gambe e che uccidono l’uomo più robusto in pochi minuti.
Lungo la riva s’alzavano delle bellissime palme, alte otto o dieci metri sui cui tronchi si vedevano dei grossi grani d’una materia bruna che il marinaio staccava mettendosela nel piccolo sacco di pelle che portava alla cintura.
— Che cosa raccogliete? — chiese Alvaro che non comprendeva a che potessero servire quelle pallottole.
— Il pane per la colazione, — rispose il marinaio, sorridendo. — Le carnahuba sono piante preziose e se avessimo del tempo potrei anche darvi dei biscotti.
Non potendo noi fermarci qui, per ora mi accontento della gomma che queste piante trasudano e che costituisce un eccellente commestibile.
— Io sarei passato mille volte dinanzi a questi alberi senza immaginarmi che mi avrebbero potuto dare del cibo.
— Avete mai udito a parlare delle piante sagù?
— Di quelle che contengono, racchiusa nel tronco, una fecola buonissima che serve a fare una specie di pane?
— Sì, signor Viana. E queste carnahuba al pari di quelle preziose piante che crescono nelle isole dell’Oceano Indiano, contengono pure una farina simile e non meno nutritiva.
— Sicchè qui si potrebbe fare a meno del frumento?
— Che d’altronde crescerebbe enormemente senza dare chicchi, — disse Diaz. — Ma oltre la gomma e la fecola dà altre cose la carnahuba.
— Delle vesti forse?
— Delle candele signore.
— Scherzate, Diaz?
— No signore e me ne sono fabbricate molte anch’io. Si raccolgono le foglie, si seccano e si trova allora su di esse una specie di cera che unita con un po’ di grasso animale, serve benissimo alla illuminazione.
Perfino le radici di queste piante sono utili, ricavandosi una tisana che serve ottimamente per purgare il sangue. Ah! Ecco un altro guado e migliore dell’altro. Non v’è che un metro d’acqua.
— Niente serpenti qui?
— Proviamo. —
Si mise, come prima, a battere una foglia, imitando il muggito del sucuriù e non ottenne risposta.
— Siamo, almeno pel momento, salvi, — disse, — gli eimuri non ci prenderanno più, spero.
— Avete parlato di ponti prima.
— È vero e con quelli quei selvaggi osano attraversare fiumi e anche paludi, ma occorrono dei giorni, e noi non rimarremo fermi ad aspettarli, ve lo accerto. —
Colla gravatana tastò il fondo per paura che fosse composto di sabbie mobili e assicuratosi che era abbastanza resistente, si avventurò nel fiume guardando le piante acquatiche che spuntavano a destra ed a manca, formando cespi immensi.
Alvaro ed il mozzo l’avevano seguìto tenendo le armi puntate da una parte e dall’altra del guado, per non farsi sorprendere da qualche caimano.
Avevano attraversato quasi tutto il corso d’acqua e Diaz stava per porre i piedi sulla riva opposta, quando i suoi compagni lo videro improvvisamente contorcersi, poi cadere di colpo fra le erbe palustri, mandando grida di dolore.
Una forma oscura, allungata, era guizzata rapidamente dinanzi ad Alvaro, nascondendosi nel fango del fondo, prima che il portoghese avesse avuto il tempo di far fuoco.
— Diaz! — gridarono i due naufraghi, vedendo che il marinaio si rotolava fra le erbe della riva sempre contorcendosi.
— Ah! È nulla... una scarica... un’anguilla tremante... che colpo!
— Vi ha morso un serpente? — chiese Alvaro, spaventato.
— Ma che serpente! Un’anguilla tremante... che mi ha intorpidito come se avessi ricevuto una poderosa scarica elettrica in pieno corpo. —
Non credevo che ve ne fossero qui.
— Non bastano i caribi per rendere pericolosi questi fiumi?
— No, signor Viana, — rispose Diaz, sforzandosi a sorridere. — Vi sono anche certe anguille chiamate dagl’indiani tremanti1 che lanciano delle scariche elettriche al pari dei pesci torpedine dei nostri mari d’Europa. Fortunatamente non ve n’era che una sola.
— Possono uccidere talvolta?
— No, ma per qualche giorno riducono un uomo a malpartito. Bah! Il dolore è già passato e le mie gambe a poco a poco riprenderanno il loro primiero vigore.
— Mi sarebbe assai rincresciuto per voi e anche un po’ per la colazione.
— Ah! È vero, me l’ero dimenticata... Toh! La bella fortuna! Ma se non avete da far altro che di chinarvi per raccoglierla. Ecco qui una radura che un tempo deve essere stata coltivata. —
Alvaro si guardò intorno. Dietro la prima fila di palme gommifere, si estendeva un piccolo spazio scoperto su cui crescevano degli steli isolati con poche foglie palmate verso la cima, non più alti di dieci o dodici centimetri, ma della colazione promessa non si vedeva traccia alcuna.
— Ehi, Garcia, — disse Alvaro. — Tu che hai buoni occhi, fammi il piacere di raccogliere la colazione che io non riesco a scoprire. Eppure non mi pare di essere diventato cieco.
— Se non mi date un paio d'occhiali, non la vedrò nemmeno io, signor Alvaro, — rispose il mozzo.
— Prendi il tuo coltello e scava il terreno intorno a uno di quegli steli, — disse il marinaio a Garcia.
— Ah! Si trova sottoterra? Speriamo di trovare almeno delle lumache.
— Qualche cosa di meglio, — disse Diaz. — Prova. —
Il mozzo obbedì. Sollevò la terra e pochi centimetri più sotto trovò cinque tuberi di forme irregolari, lunghi circa cinquanta centimetri.
— Che cosa sono? — chiese il ragazzo.
— Delle frutta di terra squisitissime che imparerai ad apprezzare, — rispose il marinaio.
— Allora assaggiamo. —
Garcia stava per addentarne una che aveva già ben ripulita col lembo della sua giacca, quando un gesto imperioso del marinaio lo arrestò.
— Alto là! Imprudente! — gridò il castigliano. — Vuoi morire? —
I due portoghesi lo guardarono come per chiedergli se per caso era diventato improvvisamente pazzo. Vantava la squisitezza di quei tuberi e proibiva che li assaggiassero minacciandoli di morte immediata.
— È manioca, — disse Diaz.
— Ne sappiamo meno di prima, — disse Alvaro. — Manioca! Che cos’è?
— Stupido che sono! — esclamò il marinaio. — Mi dimenticavo che in Europa non si conosce ancora questo prezioso tubero.
Ora v’insegnerò come dovrete fare per mangiarlo, senza correre il pericolo di avvelenarvi giacchè queste frutta della terra contengono un succo estremamente pericoloso.
Tu Garcia cercane altri mentre io mi metto al lavoro. Vi offrirò delle gallette che nulla perderanno nel confronto con quelle di granturco.
Anzi giacchè per ora nulla abbiamo da paventare dagli Eimuri, ce ne faremo una piccola provvista.
— Sono impaziente di assaggiare le vostre gallette, — disse Alvaro. — Sono già molti giorni che abbiamo dimenticato il sapore del buon pane.
— Non posso disporre che di mezzi limitati ma basteranno per noi, — disse il marinaio. — Quando saremo giunti nei villaggi dei Tupinambi vi mostrerò la fabbricazione delle gallette in grande. —
Frugò nel suo sacco da viaggio e levò una spina di pesce dentellata, che fino ad un certo punto rassomigliava ad una raspa, poi una piastra d’argilla cotta e ben levigata, quindi una specie di budello formato di nervature di foglie intrecciate.
— Signor Alvaro, accendete intanto del fuoco, là, dietro quel grosso tronco, così non lo si vedrà stando sull’altra riva. —
Poi prese i tuberi uno ad uno, stese al suolo una immensa foglia di banano e servendosi della spina di pesce dentellata, rapidamente li sbriciolò ottenendo una pasta molle satura d’una materia lattiginosa.
— Ecco il veleno, — disse ad Alvaro, mostrando quel succo. — Uccide ma serve anche di antidoto contro il morso di certi rettili e pulisce meravigliosamente il ferro. Bisogna quindi eliminarlo. —
Prese quindi il budello di nervature di foglie, il tupi come lo chiamano i selvaggi brasiliani, lo riempì di quella sostanza farinacea e lo torse con forza facendo colare al suolo tutto il succo che ancora rimaneva.
Ciò fatto, col residuo rimasto nel tupi, formò una bella focaccia che depose sulla piastra d’argilla, mettendola poi sulle brace.
— Ecco fatto, — disse.
Quando vide la pasta assumere una bella tinta dorata, la tolse dalla piastra e la offrì ai due portoghesi, dicendo:
— Potete mangiarla senza timore. Quel po’ di veleno che ancora rimaneva, si è volatilizzato col calore.
— Squisita! — esclamò Alvaro colla bocca piena.
— Cento volte migliore delle gallette di mare! — esclamò il mozzo che divorava ingordamente. — È una torta questa! Peccato che non ci sia un bicchierino di Porto o di Malaga per bagnarla.
— Se avessi del tempo e qualche vaso, potrei offrire se non del rosolio almeno del liquore forte e buonissimo, — disse il marinaio. — Io so fare il taroba e senza ricorrere ai denti delle vecchie.
— Il taroba! — esclamò Alvaro.
— Ricavato da questi tuberi, signore. Disgraziatamente non ho una pentola.
— E che cosa c’entrano i denti delle vecchie? —
Diaz stava per rispondere, quando i suoi orecchi furono colpiti da un rumore che veniva dalla parte del fiume.
— Gli Eimuri? — chiesero ad una voce i due portoghesi, preparandosi a spegnere il fuoco.
— No, — disse il marinaio. — Ho udito un grugnito e uno sbattere d’acqua.
— Un caimano allora? — chiese Alvaro.
Il marinaio scosse la testa, poi disse sottovoce:
— Seguitemi senza far rumore. È forse il companatico che sta per cadere sulle nostre gallette. —
Si gettarono in mezzo alla macchia più vicina per giungere inosservati presso il fiume e giunti presso la riva scostarono silenziosamente i cespugli, curvandosi sull’acqua.
A trenta o quaranta passi da loro un animale, che rassomigliava ad un piccolo cinghiale, pesante almeno una cinquantina di chilogrammi, guazzava nel fiume grugnendo e cercando le radici delle piante acquatiche.
— Un charpincho!2 — esclamò il marinaio facendo una smorfia.
— Mandategli una freccia, — disse Alvaro.
— Non vale la pena. La carne di quei roditori è così detestabile che perfino gl’indiani la sdegnano e talvolta perfino i giaguari... ah! Eccolo il companatico! —
Un po’ più lontano, un altro animale, di forme stranissime, stava salendo la riva dopo d’aver attraversato il fiume su un grosso tronco d’albero che la corrente aveva, per un caso straordinario, spinto contro le piante acquatiche in modo che le due estremità toccavano le due sponde.
Non somigliava affatto al primo.
Era un animale, come abbiamo detto, di forme stranissime, grosso quanto un cane di Terranuova, assai basso però di gambe, invece più lungo di corpo, con una coda bellissima d’un buon metro e ricchissima di peli, che teneva ben rialzata.
Anche il corpo era fornito di peli lunghi e quasi setolosi, di color brunastro, con una lunga striscia nera orlata di bianco che seguiva la colonna vertebrale in tutta la sua lunghezza.
Quella però che destava una viva curiosità era la testa di forma sottile, assai appuntita e, cosa davvero singolare, priva di bocca! Ossia, veramente priva no, ma perchè al suo posto si vedeva un piccolo buco da cui pendeva una lingua lunghissima terminante in uno strale acuto e che pareva fosse spalmata d’una sostanza estremamente viscosa.
— Si è mai veduta una bestia simile! — esclamò Alvaro a mezza voce. — Un animale che non ha bocca non avrà nemmeno denti. Come fa a vivere quel disgraziato?
— Eppure, come vedete, è ben grasso, — rispose Diaz.
— Che cos’è infine quell’animale?
— Un tamanduà.3
— È mangiabile almeno quello?
— Lo assaggerete e poi me ne direte qualche cosa. Un boccone da re, signor Viana, quantunque abbia un gusto un po’ acidulo dovuto al suo genere di cibo.
— Che sarebbe quel cibo? Non saprei indovinarlo, visto che quell’animale non ha bocca.
— Non gli è necessaria. A lui basta la lingua.
— Che viva leccando le piante? — chiese Garcia.
— Mangia e non meno di noi. Lo vedrete all’opera.
— Come, non lo uccidete? — chiese Alvaro.
— No perchè ci procurerà una frittura superba.
— Eh! Dite.
— Di formiche.
— Puah!
— Adagio, signor Viana. Vedremo se farete le smorfie quando vi presenterò un bel piatto di termiti fritte nel grasso del tamanduà. Oh! Vi leccherete le dita.
Silenzio ora e seguiamolo. —