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CAPITOLO XVIII.
I Pyaie bianchi.
Quel selvaggio era un uomo di alta statura, senza alcun pelo sul viso, anzi privo perfino delle sopracciglia, ed invece portava i capelli lunghissimi, neri, grossolani ed arruffati.
Aveva il corpo quasi nudo, dipinto in rosso con strisce nere ed azzurre alternate e sulla fronte e sulle gote portava parecchie penne di tucano appiccicate con qualche mastice o con del miele selvatico e che gli davano un aspetto stranissimo.
Sotto il mento portava il barbotto, formato d’un pezzo di diaspro verde e sul petto gli pendeva una collana formata di conchigliette bianche, distintivo dei capi tribù brasiliani.
Appena entrato si era abbassato fino a terra, sporgendo la lingua e dando segni evidenti d’un profondo rispetto, poi si era rialzato pronunciando alcune parole rauche, affatto incomprensibili, che parevano suoni gutturali usciti dalle profondità del petto piuttosto che dalla gola.
Alvaro, che non si era rimesso ancora dal suo spavento, era rimasto immobile, guardando con inquietudine la pesante mazza del selvaggio credendo di sentirsela da un momento all’altro piombare sul cranio.
L’Eimuro, che doveva aver formulata qualche domanda, vedendo che il portoghese rimaneva silenzioso, si volse verso Garcia che si era rifugiato in un angolo e pronunciò altre parole che non potevano essere comprese meglio delle prime.
Vedendo che anche il ragazzo non apriva la bocca, fece un gesto d’impazienza, poi affacciatosi alla porta mandò un grido che pareva piuttosto un urlo di belva.
Un momento dopo un ragazzo indiano, che non doveva avere maggior età del mozzo, entrava fermandosi dinanzi al capo.
Era un bel giovanotto, dall’aspetto svegliato, cogli occhi nerissimi ed intelligenti e che sembrava appartenesse ad un altra razza.
Ed infatti aveva la pelle assai più chiara di quella del capo, i lineamenti più fini, i capelli più morbidi ed i tratti del viso più regolari.
Il capo gli rivolse alcune parole aggrottando parecchie volte la fronte e facendo qualche gesto di minaccia, poi gli indicò Alvaro.
Con grande stupore, il portoghese udì il ragazzo a dire:
— Señor...
Alvaro e Garcia si erano guardati l’un l’altro, domandandosi per la seconda volta se sognavano o se erano veramente desti.
Un selvaggio brasiliano che parlava lo spagnolo, mentre gli spagnoli non avevano mai messo piede su quell’immenso territorio, era una cosa strabiliante, assolutamente incredibile.
— Signore, — riprese il ragazzo. — Il capo degli Eimuri vi ha parlato e si mostra adirato perchè voi non avete risposto alle sue domande.
— Chi ti ha insegnato a parlare la lingua degli uomini bianchi? — chiese Alvaro che non si era ancora rimesso dalla sorpresa.
— Il pyaie della mia tribù.
— Diaz!
— Sì, si chiamava così il mio padrone, — rispose il ragazzo. — Mi ricordo d’averlo udito più volte a dire: Ah! Povero Diaz!
— Dunque tu sei un tupinambo.
— Sì, signore.
— Ti hanno fatto prigioniero gli Eimuri?
— E m’ingrasseranno per mangiarmi, — disse il ragazzo senza manifestare alcuna apprensione.
— E noi? Che cosa ne faranno di noi?
— Siete fortunati voi, signore. Gli Eimuri non hanno per ora alcuna intenzione di divorarvi.
— Sai perchè inseguivano il tuo padrone?
— Sì, per farne un pyaie. Quello degli Eimuri è morto e bisogna surrogarlo. Una tribù senza pyaie è come un uomo senza testa.
L’avete veduto il mio padrone?
— Sì e l’abbiamo lasciato ieri sera... —
Un rauco muggito del capo lo interruppe. L’Eimuro cominciava ad impazientirsi di quel lungo colloquio di cui non riusciva a comprendere una sola parola e cominciava a guardare minacciosamente il ragazzo.
Gli rivolse alcune parole battendo furiosamente contro il suolo la sua pesantissima mazza.
— Il capo desidera sapere se siete anche voi dei pyaie nel vostro paese.
— Tutti gli uomini bianchi lo sono, — rispose Alvaro.
— Egli promette di risparmiarvi a condizione che diventate i pyaie della sua tribù. Se vi preme salvare la vita, non rifiutate.
— Noi stregoni degli Eimuri, di questi ributtanti selvaggi! — esclamò Alvaro. — Che cosa ne dici, Garcia.
— Che è meglio diventare maghi piuttosto di finire sulla graticola, signor Alvaro, — rispose il mozzo. — Intanto guadagniamo tempo. Se il marinaio sfugge all’inseguimento, sono certo che non ci abbandonerà.
— Hai ragione, Garcia, — disse il signor Viana dopo un momento di riflessione. — Sì, Diaz non ci lascerà nelle mani di questi mangiatori di carne umana. —
Quindi volgendosi al ragazzo, disse:
— Avverti il capo che noi accettiamo. —
Quando l’Eimuro fu informato della loro decisione una gioia pazza si dipinse nel suo viso ed i suoi occhi nerissimi, dal lampo cupo, fiammeggiarono.
Gettò lungi da sè la clava e pronunciò alcune parole volgendosi prima verso Alvaro e quindi verso il mozzo.
— Che cosa dice? — chiese il primo, al giovanetto.
— Che voi sarete il grande pyaie ed il vostro compagno il piccolo pyaie e che con stregoni così potenti la sua tribù diverrà invincibile e non mancherà più di carne umana.
— La canaglia! — esclamò Alvaro.
Il capo s’abbassò ancora toccando colla punta della lingua la terra poi uscì accompagnato dal ragazzo.
— Ebbene Garcia? — chiese Alvaro, quando furono soli. — Ti senti in grado di disimpegnare le funzioni di piccolo pyaie?
— Io non so che cosa esigeranno da me questi selvaggi; penso che per ora la graticola non ci aspetta e questo è l’importante. —
Vi confesso che non sapevo rassegnarmi all’idea di dover avere per sepoltura il ventre d’un selvaggio.
— E nemmeno io, ragazzo mio.
— Ci lasceranno in questa capanna o ci offriranno qualche cosa di meglio?
— Non so nulla. Questi selvaggi sono poco noti anche a Diaz che pure conosce moltissime tribù.
— M’immagino che.....
La frase gli fu interrotta dall’improvviso ritorno del ragazzo indiano. Non era però solo, l’accompagnavano quattro selvaggi d’aspetto orribile, tutti impiastricciati di colori e di penne di pappagalli e che portavano due ceste voluminose.
— Che cosa vogliono costoro? — chiese Alvaro.
— Vi portano le vesti e gli ornamenti del defunto pyaie. Era ben provvisto quello stregone e godeva anche molta fama. Dovrete assistere ai suoi funerali onde una parte della sua anima passi nella vostra.
— Come! Se mi hai detto che è morto otto giorni fa?
— Non si poteva spolparlo prima d’avergli trovato il successore.
— Spolparlo! Che questi Eimuri spingano la loro adorazione pel morto fino a mangiarlo?
— Oh no! Non divorano che i prigionieri di guerra e solamente nelle carestie troppo lunghe mangiano i cadaveri dei parenti.
Presto signore, il capo vi attende. —
I quattro indiani avevano scoperte le ceste levando successivamente dei diademi di penne di tucano trattenute da fibre vegetali intrecciate con pezzetti d’oro, collane e braccialetti formate da denti di caimano, di giaguaro e di vertebre di serpenti, dei perizomi di pelle di tapiro frastagliata con un certo gusto e una infinità di sacchetti contenenti certo dei preziosi amuleti o delle medicine meravigliose.
Gl’indiani, ad un cenno del ragazzo misero le collane ed i braccialetti al collo ed ai polsi dei due pyaie, cinsero loro le sottanine, misero sulla loro testa un diadema di penne scelte fra le più belle, poi li invitarono ad uscire.
— Sii serio, — disse Alvaro al mozzo. — Un gran sacerdote non deve ridere, ricordatelo.
— Farò il possibile, signore, — rispose il mozzo.
Una piazza vastissima, circondata da capanne che dovevano aver appartenuto a qualche tribù vinta, si estendeva dinanzi a loro.
Quattro o cinquecento selvaggi, tutti maschi, quasi nudi o nudi affatto, ma armati di archi, di gravatane, di mazze e di scuri di pietra, stavano raggruppati, senza ordine alcuno, tenendosi in piedi od accovacciati come belve in agguato.
Erano tutti bruttissimi, colle membra secche, le capigliature lunghissime e arruffate e dipinti in modo spaventevole per incutere maggior terrore al nemico.
Il capo invece si trovava in mezzo alla piazza circondato da alcuni sotto-capi i quali pareva che formassero una guardia d’onore intorno ad un pacco voluminoso e assai lungo.
Vedendo apparire i due pyaie dalla pelle bianca, un clamore spaventevole che pareva mandato da centinaia e centinaia di belve, rimbombò nella piazza ma fu subito represso da un grido del capo.
— Che bella compagnia! — esclamò il mozzo. — Che siano uomini o bestie? Io non so decidermi a crederli esseri umani. Urlano come le belve dei deserti.
— E camminano come i lupi, — disse Alvaro, vedendo tutti quelli posare le mani a terra.
— Signor Alvaro, ho il cuore che mi trema. Se quei bruti ci mettessero invece sulla graticola?
— Non temere: ormai siamo uomini sacri.
— E che cosa guardano quei selvaggi impennacchiati?
— Suppongo che in quel pacco si trovi il cadavere del defunto pyaie.
— Che ce lo facciano mangiare per far meglio entrare nei nostri corpi la sua anima!
— Non rivoltarmi lo stomaco, Garcia. —
Il capo si avanzò verso i due pyaie con dimostrazioni di rispetto profondo e con un gesto li invitò a seguirlo.
I sotto-capi si erano già messi sulle spalle quel pacco che era involto in una stoffa ruvida formata probabilmente colla corteccia La mazza del capo gli aveva fracassato il cranio.... (Cap. XIX). fibrosa di qualche pianta e si erano messi in cammino dirigendosi verso la foresta.
Anche i guerrieri avevano strette le loro file e cominciavano a muoversi, chi camminando dritti, chi colle mani e coi piedi. Mugulavano come giaguari o lanciavano di quando in quando delle grida gutturali assolutamente incomprensibili, strappandosi poi manate di capelli e percuotendosi il corpo coi pugni.
— Che vadano a seppellire il morto? — chiese Garcia.
— Certo, — rispose Alvaro, — se hanno poi l’abitudine di seppellire i loro cadaveri! Io ne dubito.
Sempre mugulando e urlando e picchiandosi maledettamente anche a vicenda, gli Eimuri si cacciarono sotto i boschi, marciando disordinatamente.
Un quarto d’ora dopo i sotto-capi si arrestavano sulle rive di un fiume che in quel luogo misurava almeno mezzo chilometro di larghezza e che pareva fosse profondissimo.
Il capo si diresse verso una roccia che scendeva quasi a picco sul fiume e guardò per parecchi minuti le acque.
Alvaro e Garcia, che lo avevano seguito, si provarono ad interrogarlo.
— Caribi, — rispose l’Eimuro.
— Caribi! — esclamò Alvaro. — Ah! Devono essere quei certi pesciolini che per poco non divorarono Diaz. Te ne ricordi, Garcia?
— Sì, il marinaio ci ha parlato dei caribi. Che siano venuti qui per pescarli?
— Ora vedremo, — rispose Alvaro.
Il capo in quel frattempo si era fatti portare un paniere e aveva levate..... delle membra umane che parevano fossero state recise da poco, essendo ancora sanguinanti.
Prese un braccio che aveva ancora, intorno al polso, un braccialetto di conchiglie e lo gettò nel fiume, poi una gamba e una testa che sembrava avessero appartenuto ad un ragazzo.
— Birbanti! — esclamò Alvaro, facendo un gesto di ribrezzo. — Questi selvaggi mi fanno paura!
— Andiamocene, signore, — disse Garcia. — Non posso resistere.
— Ti comprometteresti, ragazzo mio. No, dobbiamo rimanere se vogliamo salvare la pelle.
— Caribi! — disse ancora il capo, indicando ad Alvaro il fiume.
Il portoghese si curvò sull’orlo della rupe e vide sotto, guizzare fra le acque che erano limpidissime, miriadi di pesciolini lunghi quanto una mano, coi dorsi oscuri ed i ventri argentati che battagliavano furiosamente fra di loro, divorandosi a vicenda.
— È la carne umana che ha gettata il capo che li ha fatti accorrere in così gran numero, — disse Alvaro a Garcia.
— E perchè li ha fatti venire a galla? —
In quel momento un odore nauseabondo, orribile, si sparse sulla riva del fiume.
I sotto-capi avevano tolta la ruvida tela che avvolgeva quel pacco misterioso ed avevano scoperto il cadavere d’un vecchio indiano già putrefatto.
— Ci appesta quel morto! — esclamò Garcia, turandosi il naso. — All’inferno tutti gli Eimuri ed il loro stregone!
I sotto-capi passarono sotto le braccia del cadavere due lunghe liane ben secche, lo trascinarono fino sull’orlo della roccia, poi lo calarono dolcemente nel fiume, là dove i caribi continuavano a battagliare.
— Lo danno da mangiare ai pesci, — disse Alvaro.
I caribi si erano gettati furiosamente sul pyaie assalendolo da tutte le parti con un accanimento impossibile a descriversi.
I loro denti aguzzi e solidi come se fossero d’acciaio, strappavano ad un tempo lembi di pelle e di carne.
Alcuni erano già scomparsi nel ventre del morto e divoravano i polmoni, il cuore, il fegato e le budella.
La carne scompariva con rapidità prodigiosa. I muscoli se ne andavano, triturati da quelle migliaia di bocche e le ossa cominciavano a comparire.
La distruzione di quel povero corpo non fu lunga. Non erano trascorsi dieci minuti che non rimaneva nemmeno un brandello di carne su quello scheletro.
— Altro che gli anatomici! — esclamò Alvaro. — Questi pesci valgono molto di più. Ecco un magnifico scheletro, accuratamente spogliato, che farebbe una superba figura nella vetrina d’un museo. —
I sotto-capi ritirarono dolcemente lo scheletro del pyaie e lo avvolsero accuratamente in un’ampia stuoia che poi legarono con numerose liane e lo deposero su una specie di palanchino costruito rozzamente con rami intrecciati.
— La cerimonia è finita, — disse una voce.
Alvaro si volse e si vide accanto il ragazzo indiano.
— I pyaie dalla pelle bianca possono ora prendere possesso della capanna che apparteneva al defunto.
— E delle ossa del morto che cosa ne faranno? — chiese Alvaro.
— Si sospendono ad un albero e si lasciano là finchè cadono. —
Gli Eimuri si erano rimessi in cammino senza dare più alcun segno di dolore.
Anzi parevano lietissimi e saltellavano agitando le loro pesanti mazze fingendo di combattere contro dei nemici invisibili.
Talora si scagliavano colla furia d’un uragano come se avessero avuto dinanzi qualche tribù avversaria, mandando urla spaventevoli e vibrando all’impazzata colpi disperati, poi si arrestavano di colpo e simulavano una fulminea fuga, tornando verso i capi.
L’aspetto che assumevano allora i visi di quei selvaggi era orribile. Non avevano più sembianze umane; parevano piuttosto musi di giaguari o di coguari.
I loro occhi mandavano baleni, dimenavano le mascelle come se pregustassero la carne dei vinti e mandavano ruggiti da fiere.
Quando giunsero al villaggio, i guerrieri si dispersero per le vicine foreste non potendo le capanne bastare per tutti. Solamente poche dozzine si erano fermate intorno ad una abitazione più vasta delle altre, che sorgeva nel centro della piazza e che era adorna di pelli di serpenti appesi alle pareti e di teste di caimano collocate intorno alla punta del tetto.
— Che cosa c’è in quella capanna? — chiese Alvaro al ragazzo indiano.
— Era la dimora del defunto pyaie, — rispose. — Ora sarà la vostra finchè gli eimuri si fermeranno qui. Ho ricevuto l’ordine di condurvi là dentro e di mettermi a vostra disposizione finchè avrete imparata la lingua di questi uomini.
— E non si potrebbe avere qualche cosa da porre sotto i denti?
— Fra poco si sacrificherà un mio compatriota che è stato giudicato abbastanza grasso e voi avrete la parte migliore.
— Che mangerai tu, mostro! — esclamò Alvaro indignato.
Il ragazzo lo guardò con stupore, poi disse:
— Ah! Sì, gli uomini bianchi non amano che la carne bianca. Disgraziatamente qui tutti sono rossi, e non si saprebbe come fare a procurarvene.
— Noi non mangiamo che carne d’animali e frutta, mi hai capito? La carne umana ci ispira orrore.
— Avrete del tapiro, della testuggine e del mandioca. Entrate e non uscite finchè non ricevete l’ordine del capo. I pyaie non devono mostrarsi troppo sovente in pubblico. —
Alvaro e Garcia, dopo una breve titubanza, varcarono la soglia, prendendo possesso della dimora del defunto pyaie.