< L'Uomo di fuoco
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24. L'isolotto
23. Ritorno alla savana 25. Un combattimento fra antropofaghi

CAPITOLO XXIV.

L’isolotto.


Quell’isola, l’unica forse che era emersa nella savana, era ben più vasta di quella che aveva servito di rifugio ai due portoghesi, dopo la loro fuga dalla costa. Aveva una maggior estensione ed era coperta da bellissime piante che dovevano più tardi far accorrere nel Brasile delle flotte intere per imbarcare i tronchi preziosissimi.

Erano acagiù, piante che allora non avevano alcun pregio nemmeno per gl’indiani e che non dovevano venire apprezzati che tre secoli più tardi e anche per una mera combinazione.

Ed infatti non fu che verso che la fine del secolo XVII che presero il loro posto fra i legnami più preziosi dell’ebanisteria.

Una nave, di ritorno dall’America, aveva caricato un certo numero di quei tronchi, come zavorra, non avendo trovato alcun articolo da trasportare in Europa.

Giunta in Inghilterra, si era sbarazzata di quel peso inutile, ignorandone il capitano il valore che poteva avere e lo aveva abbandonato sulla spiaggia.

Erano già molti mesi che si trovavano in quel luogo, quando un giorno un falegname, che non aveva denaro per comperare del legno, ebbe la felice ispirazione di servirsi di quelle travi per fabbricare un cofano.

Si può immaginare quale fu la sua meraviglia, quando lavorando quei tronchi scoprì le vene meravigliose e le tinte strane di quel legno! Fu una vera rivelazione che rese d’un colpo solo celebre l’acagiù.

L’anno seguente numerose navi partivano per l’America onde imbarcare quei tronchi preziosi che alla finezza e alla durezza della loro grana univano lo splendore delle loro tinte.

E quasi nell’istessa epoca, uno dei più famosi filibustieri, il francese De Grammont, dopo la presa di Campeche, e per celebrare la sua vittoria bruciava tutte le travi di acagiù che si trovavano nei forti spagnoli, ignorando che gettava alle fiamme del legno che valeva dei milioni!...

Numerosi uccelli, vedendo quegli uomini a sbarcare, si erano alzati fra i canneti della riva e fra le piante, fuggendo in tutte le direzioni.

Non erano solamente acquatici. Vi erano, frammisti fra i beccaccini e le gallinelle dei bei mahitaco dalla testa turchina, degli arà tutti rossi, dei canindè somiglianti ai cacatoa australiani e degli aracari quei piccoli tucani che non sono più grossi d’uno dei nostri merli e che pure hanno il becco che ha quasi le dimensioni dell’intero corpo di quegli strani volatili.

— Questo è un vero paradiso! — esclamò Alvaro, che era entusiasmato di quell’isolotto. — Voi, mio caro Diaz, potrete completare tranquillamente la vostra guarigione.

— Se i Caheti non verranno a disturbarci, — rispose il marinaio.

— Sono l’Uomo di fuoco, e farò tremare anche quei selvaggi, come ho fatto impallidire i ferocissimi Eimuri.

— È vero: abbiamo i fucili e riusciremo a respingerli se verranno ad assalirci. Badiamo però che non ci sorprendano.

— Veglieremo, — disse Alvaro. — Ehi, Garcia se tu accendessi il fuoco e fabbricassimo le pentole?

— E la selvaggina da far cuocere, signore? — chiese il mozzo.

— Dannato paese! Si deve pensare sempre al ventre!

— Non abbiamo ancora fatto colazione, signore!

— Me ne accorgo da certi brontolii dei miei intestini. Accendi il fuoco mentre io mi proverò a fabbricare un vaso. Non sono mai stato un pentolaio, ma qualche cosa otterremo.

— Se quel maledetto giaguaro non mi avesse ridotto in questo stato, vi mostrerei io come fanno gl’indiani, — disse Diaz.

— Ne farete altre più tardi, — rispose Alvaro. — Anche in un catino si può cuocere un pezzo di selvaggina e noi non siamo persone da badare alle forme più o meno perfette. —

Il mozzo aveva già raccolta della legna secca ed aveva improvvisato un fornello con due pezzi d’arenaria trovati in mezzo agli acagiù. Affastellò le scorze dell’albero delle stoviglie e dopo non pochi tentativi vi diede fuoco.

Alvaro il quale pensava che anche avendo la pentola mancava lo stufato, aveva preso il proprio fucile per cercare di abbattere qualche arà o meglio ancora uno di quei tatù che il marinaio asseriva d’aver già veduti, quantunque non sapesse affatto che razza di animali potessero essere, non avendo mai, prima di allora, udito a parlarne.

— M’immagino che avranno quattro gambe e del pelo, — s’era detto, Alvaro, cacciandosi sotto le piante.

Farò fuoco sul primo che incontrerò. —

Quel povero Diaz, dopo tanto sangue perduto, ha bisogno del buon brodo per rimettersi un po’ in gambe. —

L’isola che pareva avesse qualche miglio di circonferenza, era tutta coperta d’alberi e di cespugli foltissimi in mezzo ai quali svolazzavano miriadi di beia flores, quei microscopici uccelletti chiamati colibrì, dalle penne dorate, azzurre, verdi e nere e di trochlius minimus i più piccoli volatili conosciuti non essendo più grandi di un tafano.

Quella piccola foresta non era però esclusivamente formata da acagiù. Parecchie piante fruttifere che potevano somministrare delle frutta squisite, crescevano qua e là a gruppi e anche le palme e le liane non mancavano.

Vi erano dei superbi acajaba già carichi di quelle deliziose pere che Alvaro aveva già assaggiate ed i tronchi coperti di grosse gocciole di gomma profumata; dei manzamba, piante che possono supplire la vite, ricavandosi dalle loro frutta una specie di vino assai gustoso; delle maraninga che danno delle frutta grosse come un uovo di anitra, assai stimate, ripiene di semi che sono avvolti in una sostanza gelatinosa e poi molte altre che Alvaro non aveva mai vedute.

— Le frutta non ci mancheranno a tavola, — disse il portoghese, — sarà forse la selvaggina che si farà desiderare giacchè finora non vedo altro che degli uccelletti, dei quali ce ne vorrebbero almeno duecento per fare un arrosto modestissimo, appena capace per una persona.

Così monologando si era spinto fino quasi nel centro dell’isolotto, quando vide fuggire dinanzi a sè alcuni strani animaletti che fino ad un certo punto si potevano scambiare per testuggini, essendo avvolti in una vera corazza ossea formata da un gran numero di piastre.

— Che siano i tatù? — si chiese Alvaro. — Tatù o no, non me li lascerò scappare. —

Gli animaletti avevano cominciato a scavare rapidamente il suolo coll’evidente intenzione di aprirsi una galleria e operavano con tale velocità, che quando Alvaro piombò a loro addosso, col calcio del fucile alzato, quasi tutti erano scomparsi.

Con un paio di calciate, bene appioppate, ne abbatté due, gli ultimi che non avevano avuto il tempo di scavarsi la tana.

— Che animali curiosi! — esclamò Alvaro, raccogliendoli. — Non ne ho mai veduti di simili! Saranno poi mangiabili? —

I tatù giacché erano veramente tali, sono in realtà dei rosicchianti singolarissimi, tanto per le loro abitudini quanto per la loro struttura.

Ordinariamente non sono più grosse d’un coniglio, e hanno il corpo inviluppato in una corazza ossia formata da piastre trasversali nella direzione dei fianchi e la testa difesa da una specie di visiera scagliosa e durissima che dà a loro un aspetto curiosissimo e strano.

Al pari delle talpe, si tengono per lo più celati sotto il suolo e sono così lesti nello scavare la terra coi loro solidi artigli, che da un momento all’altro scompaiono sotto gli occhi del cacciatore. Volerli cacciare sotto il suolo sarebbe una fatica inutile perché in pochi minuti sanno scavarsi delle gallerie interminabili.

— Ritorniamo, — disse Alvaro.

Strappò da un albero un ramo, appese all’estremità i due tatù e si rimise in cammino, lietissimo di poter fornire al povero marinaio un po’ di brodo.

Quando giunse all’accampamento, vide il mozzo accanto al fuoco, occupato a sorvegliare due vasi informi che cucinavano fra i carboni.

— Le pentole! — esclamò allegramente.

— Se possono chiamarsi tali, signore, — rispose il bravo ragazzo. — Sembrano più due catini che delle pentole.

— Serviranno ugualmente, — disse il marinaio, che si riposava all’ombra d’un banano. — Ah! Signor Viana avete fatto buona caccia! Ve lo avevo detto che avevo veduto di tatù su questo isolotto.

— Ah! Sono questi i vostri tatù. Possono servire per fare un buon stufato?

— La loro carne vale quella delle tartarughe, signore. Ah!

— Che cosa avete?

— Dove avete tagliato quel ramo?

— Da un albero che si trovava presso il luogo dove ho uccisi questi animali.

— È maté.

Maté! Che cos’è?

— Le foglie di quell’albero ci forniranno una bevanda deliziosa che tutti gl’indiani apprezzano assai.

Se non vi rincresce, finchè le pentole si cucinano, andate a raccoglierne e seccatele presso il fuoco.

— È una passeggiata di cinque minuti.

— E tu Garcia, sventra questi animali e sbarazzali delle loro scaglie, — disse Diaz. — Il tuo coltello ha la lama solida.

— E le pentole?

— Dieci minuti ancora e saranno pronte. Rallenta il fuoco onde non si crepino. —

Un quarto d’ora dopo Alvaro tornava con un carico di rami coperti di foglie.

Aveva trovati parecchi di quegli alberi mescolati alle palme e agli acagiù, quindi non aveva avuta alcuna difficoltà a fare un’ampia provvista.

Il matè, quella bevanda che oggi è così largamente usata in tutta l’America meridionale, in quell’epoca non era conosciuta che da alcune tribù brasiliane e paraguaiane. In Europa non si sapeva che cosa fosse.

L’albero che produce quelle foglie che non sono meno pregiate di quelle fornite dal the, cresce spontaneamente nelle foreste americane senza bisogno di coltura alcuna ed è una bella pianta di vari metri d’altezza con foglie sempreverdi, che si possono raccogliere in qualunque stagione.

Seccate semplicemente al sole o meglio ancora a fuoco lento poi messe in infusione nell’acqua bollente, forniscono una bevanda alimentare di primo ordine meno eccitante del the e del caffè e soprattutto meno cara e che dovrebbe venire usata anche dalle popolazioni meno agiate dell’Europa perchè un arroba di erba mate, che è sufficiente ad una persona per ben sei mesi, non costa più di nove lire e usandone anche tre volte al giorno, ciò importerebbe una spesa massima di venti lire all’anno mentre il caffè, preso nell’istessa misura, non costerebbe meno d’ottanta lire ed il the duecento e anche di più.

E si noti che il matè contiene meno olio essenziale del the, sia nero che verde, cosicchè anche abusandone non può riuscire nocivo; che possiede maggior quantità di resine e che è più diuretico del caffè; che fornisce una bevanda aromatica di gusto piacevole, che calma la sete e che inganna la fame sostenendo le forze dell’uomo anche per parecchi giorni.

— Ne avremo per parecchie settimane, — disse il marinaio di Solis, che si mostrava contentissimo di quella raccolta. — Non speravo di trovare su questo isolotto delle piante così preziose.

Ah! Se si potesse trovare anche del tabacco! È parecchio tempo che non ne fumo.

— Che cos’è? — chiese Alvaro.

— Già, mi dimenticavo che in Europa non lo si conosce ancora. Quando torneremo fra i Tupinambi ve lo farò provare e ci prenderete gusto ad aspirare il fumo aromatico di quelle foglie.

Signor Viana, le pentole sono già raffreddate e altro non chiedono che di essere riempite d’acqua.

— Coi tatù insieme, — rispose il mozzo.

— Gettali dentro dunque, — disse Alvaro. — Un sorso di brodo farà bene a Diaz.

— Ed il matè mi rinforzerà meglio, — disse Diaz. — Ah! Occorre una cuia. Ne avete veduto nella vostra escursione.

— Delle zucche, vorrete dire? — chiese Alvaro.

— Sì e anche un cannuccio di bambù.

— Posso trovare la cuia e anche i bambù.

— Oh!

— Che cosa volete ancora?

— Là, guardate quelle foglie.

— Vedo.

— Strappatele e scavate.

— Che cosa si troverà sotto?

— Dei tuberi eccellenti che non sono velenosi come la mandioca?

— E sarebbero.

— Ma... gl’indiani li chiamano manihot. So che sono buonissimi specialmente cucinati nel brodo.

— Quest’isola è un paradiso terrestre!

— Meglio per noi, signor Viana.

— Felice paese dove basta abbassarsi per avere tutto il necessario per vivere. Ed io che lo aveva chiamato ingrato! —

Garcia che aveva ascoltate quelle parole, in quattro salti si era slanciato verso quelle foglie che crescevano quasi a fior di terra e si era messo a scavare il suolo servendosi del coltello.

Non tardò molto a mettere allo scoperto parecchi tuberi grossi come le nostre patate, che portò subito presso il fuoco.

— Leva la buccia e gettali nella pentola, — disse il marinaio. — Il brodo riuscirà più gustoso. —

I tatù già bollivano ed il vaso grillettava rumorosamente spandendo all’intorno un profumo squisito che sarebbe stato ben migliore se i naufraghi avessero avuto a loro disposizione un po’ di sale.

— Peccato, — diceva Alvaro, che sorvegliava la cottura dei due rosicchianti. — È il sale che manca.

— Se si potessero trovare dei mollè, ne potremmo ricavare dalle loro ceneri, — rispose il marinaio. — Ma tutto non si può trovare su un isolotto e avremmo torto a lamentarci, signor Viana.

Vi abituerete anche voi alla mancanza di quella derrata preziosa.

— Vi sono perfino degli alberi che forniscono il sale?

— Tutto si ricava dalle piante in questo fortunato paese. Il vino ed il latte, la cera per fabbricare le candele, balsami per le ferite, succhi d’ogni specie e perfino veleni terribili per ammazzare le persone.

Le foreste brasiliane tutto possono fornire, perfino le armi per difendersi contro le belve.

— E anche il pranzo tutti i giorni, — disse Garcia.

— E senza affaticarsi, — aggiunse il marinaio.

— Il paese della cuccagna, — disse Alvaro sorridendo.

— Sì per coloro che sanno sfruttarlo, signor Viana.

— E dove si corre anche il pericolo di venire mangiati come polli.

— Questione di abitudini e di costumi signore, — rispose Diaz.

Da noi si mangiano i buoi ed i vitelli, qui si divorano gli uomini come fossero bistecche. Ah! Diavolo! Noi scherziamo e dimentichiamo gli Eimuri ed i Caheti!

— A tavola! — gridò in quel momento il mozzo, levando il vaso dal fuoco. — Finchè gl’indiani mangiano i loro simili noi diamo un colpo di dente ai tatù.

Io credo che valgano meglio della carne umana. —



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