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3. L'assalto degli antropofaghi
2. Gli antropofaghi 4. Alla costa

CAPITOLO III

L'assalto degli antropofaghi

La costruzione d’una zattera, sufficiente per due persone, con tutti quei rottami e quei cordami, non era cosa difficile, nè doveva richiedere molto tempo.

Il più era a lanciarla in mare, però Alvaro contava di servirsi del troncone dell’albero maestro per issarla, mediante qualche puleggia appesa alla coffa, fino sulla murata, per poi calarla appena le onde si fossero un po’ calmate.

Servendosi della scure i due naufraghi spaccarono le antenne lunghissime delle vele latine, che poi legarono in quadro per formare il telaio del galleggiante, quindi si misero a demolire il casotto di poppa e parte delle murate per formare la piattaforma.

Onde renderla poi più leggera, vi legarono ai quattro angoli alcuni carratelli vuoti, trovati nella stiva.

Avevano appena terminata la costruzione che aveva richiesto parecchie ore, non essendo nè l’uno nè l’altro troppo pratici, quando delle grida lontane attrassero la loro attenzione.

– Che siano altri selvaggi che giungono? – si chiese Alvaro, con una certa ansietà.

Guardò verso la spiaggia e vide i mangiatori di carne umana tutti in piedi, radunati intorno alla scogliera, sulla cui cima vegliavano le sentinelle.

Gesticolavano animatamente e guardavano verso il sud.

Alvaro osservò da quella parte e scorse, non senza una profonda ansietà, alcune lunghe piroghe che stavano per lasciare la foce d’uno dei cinque fiumi.

Erano quattro, scavate in giganteschi tronchi d’alberi, lunghe una trentina di piedi e larghe non meno di quattro, colle prore assai rialzate che raffiguravano rozzamente delle mostruose teste di caimano e montate ognuna da una diecina di canottieri quasi interamente nudi.

Quantunque anche su quella costa le onde si rompessero con estrema violenza, le piroghe erano riuscite ad entrare nelle acque della baia e stavano radendo le scogliere coll’evidente intenzione di approdare là dove si trovavano radunati i mangiatori di carne umana.

– Mio caro Garcia, – disse Alvaro, – la va male per noi. Quelle scialuppe serviranno ai selvaggi per fare una visita alla nostra caravella. Non ne hanno avuto abbastanza dei marinai che hanno divorati e contano di regalarsi un altro banchetto colle nostre carni.

– E noi? – chiese il mozzo.

– Porteremo in coperta un paio di barilotti di polvere e vi metteremo due buone micce – rispose il giovane freddamente.

– E salteremo?

– Assieme a quei bricconi, se non riusciremo a respingerli.

– Ah! Signore!

– Se preferisci la graticola, io non mi opporrò. Io ci tengo meglio alla morte dei soldati. Tuttavia penso che noi potremo risparmiare le nostre pelli... oh, sì! Una buona mina sotto il castello di prora, potrebbe dare uno splendido risultato. –

Misurò collo sguardo la lunghezza della caravella.

– Diciotto metri su per giù – disse poi, come parlando fra sè. – Potrà bastare questa distanza.

Tutt’al più verremo scaraventati in mare.

Dove sono i barili?

– Nella cabina del pilota. Ma che cosa volete fare signore?

– Che ci siano delle micce a bordo? – chiese invece Alvaro.

– Un gherlino ben incatramato può sostituirle.

– Sei intelligente, ragazzo mio – disse il giovane sorridendo.

Scese nel quadro e s’introdusse nella cabina del pilota, un bugigattolo ingombro di casse, di barili e di attrezzi d’ogni specie.

Non gli riuscì difficile a scoprire le munizioni che erano chiuse entro quattro barilotti cerchiati di ferro e coperti da velacci ancora umidi per preservarli da uno scoppio.

Alvaro ne prese uno, risalì sul ponte e si diresse verso il castello di prora che le onde avevano risparmiato, quantunque l’urto contro lo scoglio l’avesse sconquassato.

Anche là sotto vi erano casse e cassette appartenenti all’equipaggio, carratelli, ammassi di cordami e di catene e velacci sdrusciti.

– Ecco quanto mi occorre per preparare la mina – disse Alvaro. – L’esplosione fracasserà la prora; a noi poco importa ora che questa caravella è diventata inservibile.

Prese una cassa, la sgombrò delle vesti, poi svitò con precauzione il barilotto e lasciò cadere tre o quattro libbre di polvere entro un cartoccio prima preparato.

– Basteranno – disse. – D’altronde conto più sul fragore dell’esplosione per spaventare i selvaggi che sui danni che produrrà lo scoppio.

Prese una sagola incatramata che poteva sostituire benissimo una miccia, ne tagliò un paio di metri, introdusse una estremità nel cartoccio che poi legò strettamente.

– Ecco la mina pronta – disse, accumulando sulla cassa barili, cordami e catene.

Rinchiuse il barile e lo riportò nella cabina, coprendolo con un pezzo di vela ben bagnata, quindi tornò sul ponte.

Le quattro piroghe, abilmente manovrate dai battellieri, erano riuscite, dopo una viva lotta contro le onde, a porsi al riparo dietro la scogliera.

Tutti gli sguardi dei brasiliani si erano volti verso la caravella e la osservavano attentamente. Dovevano aver compreso che era su quel gigantesco canotto che gli uomini bianchi erano giunti nella baia e fors’anche avevano già notata la presenza del portoghese e del mozzo.

L’oceano però era ancora troppo agitato per deciderli a intraprendere la traversata di quel vasto bacino d’acqua.

Quantunque il vento fosse scemato ed una calma relativa regnasse in aria, l’Atlantico rovesciava ancora entro la baia dei cavalloni tremendi i quali, sfasciandosi contro gli isolotti e le scogliere causavano delle contro-ondate che sarebbero state pericolose anche per delle grosse scialuppe.

E poi cominciava anche ad annottare e non era prudente impegnarsi coll’oscurità, fra tutti quegli scogli a fior d’acqua ed i banchi di sabbia.

– Non si decidono ancora, signore? – chiese Garcia ad Alvaro.

– Sono sicuri di tenerci e fors’anche di prenderci – rispose il giovane Correa. – Aspetteranno che l’oceano si calmi un po’. Tuttavia noi non dormiremo che uno alla volta. Tu che sei il più giovane, va’ a riposare.

– Appena sentirete i vostri occhi a chiudersi, chiamatemi.

– Non temere, ragazzo mio. –

Alvaro prese i due moschetti e salì sul cassero, dove le onde non potevano giungere e si sedette su un cumulo di cordami, tenendo gli sguardi fissi sulla spiaggia.

La notte era calata rapidamente, una notte tenebrosissima essendosi il cielo nuovamente coperto di pesanti nuvoloni gravidi di pioggia.

I brasiliani avevano accesi numerosi fuochi sulla riva e vi si erano accoccolati intorno.

Alvaro dall’alto del suo osservatorio li vedeva gesticolare e indicarsi lo scoglio contro cui si era infranta la caravella.

Certo facevano i loro progetti per impadronirsene e saccheggiarla. Di quando in quando qualcuno si alzava e mandava delle grida mentre faceva volteggiare in aria la sua mazza come se fosse dietro a massacrare qualcuno, poi lo si vedeva spiccare dei salti innanzi ed indietro come se combattesse contro un invisibile nemico.

Verso la mezzanotte però tutti si stesero ed i fuochi a poco a poco furono lasciati spegnere.

Correa, in preda a tristi pensieri non osava chiudere gli occhi e nemmeno affidare la vigilanza della caravella al mozzo, per paura che quel ragazzo si addormentasse nuovamente.

Di tratto in tratto s’alzava e si spingeva fino al castello di prora, scrutando attentamente la acque della baia, parendogli sempre di veder apparire improvvisamente le quattro piroghe, poi tornava sul cassero per guardare l’oceano.

Avrebbe desiderato che un nuovo uragano scoppiasse, quantunque la caravella si trovasse in tali condizioni da non poter resistere ad un nuovo assalto delle onde.

Invece l’oceano si calmava e anche i nuvoloni che avevano ingombrato il cielo, cominciavano a rompersi mostrando qualche stella.

I cavalloni giungevano sempre più radi e meno violenti. L’intervallo fra l’uno e l’altro aumentava, segno infallibile che l’uragano che aveva sconvolto l’Atlantico stava per cessare.

— Se potessimo gettare la zattera, — disse Alvaro. — Credo invece che noi dovremo aspettare che la calma sia completa onde non vederla sfasciarsi sotto i nostri occhi.

E poi, dove fuggire? Le piroghe non tarderebbero a raggiungerci e preferisco difendermi qui. —

La notte trascorse in continue ansie. Il mozzo si era svegliato e lo aveva raggiunto poco dopo la mezzanotte, non essendosi potuto più riaddormentare.

Quando spuntò il sole la situazione non era cambiata. Vi erano sempre ondate entro la baia, però molto meno violente del giorno innanzi.

Gl’indiani si erano già alzati e stavano osservando la caravella dalla cima delle scogliere, mentre i battellieri stavano spingendo in acqua le piroghe che la bassa marea aveva lasciato a secco fra le sabbie.

— Si preparano ad assalirci, — disse Alvaro al mozzo. — Non spaventarti se li vedi venire e cerca di sparare meglio che puoi.

— Non sono un cattivo bersagliere, signore, — rispose Garcia. — Mio padre, che era sergente nel reggimento di Castiglia, mi ha insegnato per tempo a far uso delle armi.

— Allora tutto andrà bene. Eccoli che si radunano; armiamoci e cerchiamo di maltrattarli più che potremo.

Quegli antropofaghi non meritano alcuna pietà e poi si tratta di salvare le nostre bistecche. —

Gl’indiani avevano lasciate le scogliere e cominciavano ad affollarsi confusamente nelle quattro lunghe piroghe, fra un gridìo assordante.

Pareva che tutto d’un tratto fossero diventati furibondi. Alzavano le mazze maneggiandole con supremo vigore e somma abilità e le loro cerbottane già pronte a scagliare le frecce intinte nel velenosissimo curaro, quella terribile miscela formata col succo di varie piante e che non aveva, in quell’epoca, alcun rimedio.

Ordinatisi alla meglio fra i banchi, i guerrieri girarono intorno allo scoglio che aveva protetto le loro piroghe dalle ondate e si spinsero al largo puntando sulla caravella.

Abituati ad eccitarsi con urla acutissime, ululavano come belve, credendo di spaventare i naufraghi.

Il signor di Correa invece non si atterriva affatto. Esaminata la mina e trovata la sagola incatramata asciuttissima, aveva, con alcune casse e con alcuni barili, improvvisata una barricata sul cassero e vi si era nascosto dietro assieme al mozzo, mettendosi dinanzi gli archibugi ed i due spadoni arruginiti che potevano servire efficacemente in un combattimento corpo a corpo.

— Garcia, — disse Alvaro. — Abbiamo un sorso di vino di Porto, nel canestro, mi pare.

— Sì, signore.

— Trangugia un sorso prima che cominci la battaglia. Ti darà coraggio.

Il mozzo non si fece pregare a prendere la bottiglia che passò prima ad Alvaro.

— Così le nostre bistecche saranno più gustose, se dovremo finire sulla graticola, — ebbe l’audacia di dire il valoroso giovane. — Giù un buon sorso, Garcia! I selvaggi sono a buon tiro.

Le quattro piroghe, che s’avanzavano frettolosamente salendo e discendendo i cavalloni, si trovavano allora a soli trecento passi dallo scoglio contro cui si era infranta la caravella.

Alvaro prese uno dei due moschetti, si appoggiò contro una cassa e mirò qualche istante un gran diavolo di selvaggio che si dimenava sulla prora della prima scialuppa, avventando all’aria colpi formidabili di mazza e che urlava più alto di tutti.

Aveva appena tirato il grilletto, che già l’indiano cadeva in acqua, fulminato in pieno petto da una palla di un’oncia.

Udendo quello sparo, che dovevano scambiare per lo scoppio d’una folgore, gl’indiani si erano fermati guardando in alto invece che verso la caravella.

Nessuno si era occupato del loro compagno, già inabissatosi nelle profonde acque della baia.

Un altro colpo di moschetto, sparato dal mozzo e che fracassò un braccio ad un remigante, li avvertì finalmente che quei misteriosi messaggeri di morte non cadevano giù dal cielo che era tornato limpido, ma che partivano invece dalla nave.

Avevano scorto il lampo a balenare sul cassero e anche la nuvola di fumo che la brezza mattutina non aveva ancora dissipata.

Uno stupore impossibile a descriversi si era impadronito di quegli ingenui, per quanto feroci figli delle vergini foreste americane.

Muti pel terrore, guardavano la caravella senza osare più a toccare i remi. Quale bestia doveva essere quella che lanciava fuoco e fiamme e che ad una così grande distanza ammazzava o mutilava gli uomini?

Nondimeno lo stupore non durò molto in quei selvaggi abituati a vivere in continua guerra fra tribù e tribù. L’avidità fu più forte della paura e ripresero ben presto i remi spingendo rapidamente innanzi le loro piroghe per giungere presto sotto la caravella.

Ormai avevano scorti i due naufraghi e contavano di vincerli facilmente e anche di mangiarseli presto.

— Signor Alvaro, — disse il mozzo. — Continuano ad avanzarsi egualmente. Il tuono non basta a fermarli e nemmeno le nostre palle.

— Vi è la mina pronta e vedrai come salteranno. Aspetta che giungano sotto la prora.

— E noi?

— Ci rifugeremo nel quadro. Lo scoppio non farà troppi guasti. Hai finito di caricare?

— Sì, signore.

— Mira la seconda piroga; io m’incarico della prima.

Due altri spari rimbombarono a breve tratto l’uno dall’altro e altri due indiani caddero sui loro banchi, uno morto sul colpo e l’altro ferito.

Urla acutissime risposero a quella seconda scarica, poi una voce tuonante s’alzò sola, gridando replicatamente:

Caramurà!... Caramurà!...

Era una maledizione scagliata contro i possessori del fuoco celeste o voleva significare qualche cosa d’altro? Alvaro non ebbe il tempo di cercarne la spiegazione.

Le quattro piroghe con un ultimo sforzo erano già giunte sotto la prora della caravella che era la parte più bassa e che meglio si prestava ad un abbordaggio.

Il signor di Correa si era impadronito d’un pezzo di scotta che aveva accesa ancora prima che cominciasse il combattimento e che bruciava sulla murata.

— Nel quadro, Garcia! — gridò.

— No, signore, — rispose il ragazzo con voce risoluta. — Vi difenderò giacchè il mio archibugio è già carico.

— Grazie, — rispose Alvaro, impugnando uno dei due spadoni.

Mentre gl’indiani, certi di impadronirsi facilmente della nave, cercavano di arrampicarsi servendosi dei cordami del bompresso, il portoghese si slanciò attraverso la tolda cacciandosi sotto il castello di prora.

Con un colpo di spada tagliò parte della sagola, diede fuoco a quella che s’univa alla cassa, poi scappò a tutte gambe.

In quel momento il primo selvaggio saliva aggrappandosi alla polena. Stava per mettere i piedi sul castello, quando il mozzo lo abbattè con un buon colpo di archibugio, facendolo stramazzare addosso ai compagni che stavano pure arrampicandosi sulle funi della dolfiniera.

— Bravo Garcia! — gridò Alvaro salendo precipitosamente sul cassero. — Presto, nel quadro, ragazzo mio! La mina sta per scoppiare! —

I brasiliani, il cui coraggio cominciava a vacillare non già per le perdite subite, bensì in causa di quelle detonazioni che non riuscivano a spiegarsi, erano ridiscesi nei loro canotti non osando più issarsi sul rottame.

Si udivano però a gridare sempre, con accento di terrore:

Caramurà!... Caramurà!...

Ad un tratto una detonazione formidabile soffocò i loro clamori.

La mina era scoppiata gettando in aria casse, barili e gomene e disarticolando d’un colpo solo tutto la prora della caravella.

La spinta era stata così forte, che Alvaro ed il mozzo furono rovesciati al suolo, l’uno sull’altro e che tutti i quadri e gli attrezzi marinareschi che si trovavano appesi alle pareti, caddero con un fracasso indiavolato. Anche le porte delle cabine furono spalancate di colpo, sbattacchiando replicatamente.

— Perdinci, che cannonata! — esclamò Alvaro, rialzandosi e tastandosi le costole. — Se avessi versato nella cassa mezzo barile di polvere noi saremmo saltati. Ehi, ragazzo, nulla di guasto?

— Il naso un po’ schiacciato, signore, — rispose il mozzo.

— Saltiamo fuori! —

Afferrarono i moschetti e gli spadoni e salirono sul ponte. Un denso fumo ondeggiava ancora sulla prora squarciata e delle lingue di fuoco serpeggiavano sotto i rottami del castello.

Le gomene incatramate e le vesti dei marinai rinchiuse nelle casse si erano incendiate.

— Ah! Diavolo! — esclamò Alvaro, aggrottando la fronte. — Non aveva previsto questo pericolo.

Saltò sulla murata aggrappandosi ai paterazzi ancora sospesi al troncone dell’albero maestro e guardò verso prora.

La disfatta degl’indiani era stata completa. Delle quattro piroghe una era colata subito a fondo e le altre tre fuggivano disordinatamente verso la riva.

— Un bel colpo in fede mia, — disse il bravo giovane, ridendo. — Quei maledetti mangiatori di carne umana non torneranno più a rinnovare l’attacco.

Guardò verso lo scoglio contro cui si era arenata la caravella. Dei cadaveri, orrendamente mutilati, ondeggiavano fra la spuma che le onde avventavano sulle rocce insieme a frammenti di remi e di banchi.

— Se ne sono andati, signor Alvaro? — chiese il mozzo.

— Filano verso la costa come un’orca che ha il vento in poppa, — rispose Correa. — Giurerei che non hanno più una goccia di sangue nelle vene.

— Come arrancano! — esclamò il ragazzo che si era issato, a sua volta, sulla murata. — Devono aver provata una terribile paura.

— E parecchi di essi sono morti.

— Ed i pesci cani stanno divorandoli, signore. Oh! Le brutte bestie! Guardate quante ve ne sono! Aho! Che bocconi! Tagliano in due un corpo come se avessero fra i denti una immensa forbice! —

Correa guardò verso la prora e rabbrividì. Sette od otto mostruosi squali, di quelli che hanno la testa foggiata a martello e che si chiamano zigaene, si agitavano presso la scogliera mostrando le loro enormi bocche semicircolari, armate di formidabili denti.

Si voltavano sul dorso, non potendo afferrare le prede d’un colpo, in causa della disposizione della loro bocca che si trova al di sotto dei due capi del martello, poi con un crac che metteva i brividi tagliavano in due i cadaveri, afferravano la parte più grossa e scomparivano fra un cerchio di sangue.

— Oh! Gli orribili pesci! — esclamò Correa. — Se l’esplosione ci scaraventava in mare, ci toccava una bella fine! —

Una folata di fumo nero e fetente, impregnato dell’odor del catrame, lo avvertì che il pericolo non stava dalla parte degli squali.

— Perdinci! — esclamò. — Noi dimenticavamo che la prora della caravella sta tramutandosi in una fornace.

Non aveva previsto questo pericolo. Poi, con una spinta più vigorosa, la catena attraversò.... (Cap. IV).

Ragazzo mio, se gl’indiani se ne sono andati, non possiamo dire di essere ancora salvi. Bisogna sgombrare e senza perdere tempo.

— È vero signore ma... e quei pesci cani?

— Hanno ben altro da fare in questo momento per occuparsi di noi. E poi abbiamo delle armi e se cercheranno di assalire la nostra zattera ci difenderemo.

Diede un ultimo sguardo verso la costa. Le tre piroghe avevano imboccato uno dei cinque fiumi e stavano scomparendo sotto le vôlte di verzura che coprivano quei corsi d’acqua.

— Alla zattera, Garcia, — disse. — Porta in coperta un barilotto di polvere e del piombo. Ci sono più viveri nel quadro?

— La dispensa è sott’acqua, signore. Ve lo dissi già.

— Andremo a guadagnarci la colazione alla costa. Vedo un gran numero di uccelli a volare fra gli alberi e non siamo cattivi tiratori.

Si issò fino alla coffa portando con sè una gomena che passò in una delle pulegge, poi legò un capo ad un angolo della zattera e avvolse l’altro intorno all’argano di poppa, che il mozzo aveva già provvisto di manovelle.

Bisognava spicciarsi. Le fiamme, trovando facile alimento nelle pareti incatramate della caravella, guadagnavano rapidamente.

Lingue smisurate s’alzavano fra i rottami del castello di prora, mentre fitti nuvoloni di fumo acre e pesante, avvolgevano tutta la nave.

Correa ed il mozzo si curvarono sulle aspe e fecero girare l’argano spingendo a tutta forza.

Essendo la zattera piccola e non troppo pesante, non fu difficile issarla e spingerla al di fuori della murata.

D’altronde lo stato del mare favoriva quell’operazione che sarebbe stata difficilissima a compiersi con delle forti ondate.

L’Atlantico si era calmato e solo di quando in quando qualche cavallone, poco alto, si distendeva nella baia, andando ad infrangersi contro le scogliere e gli isolotti.

La zattera appena toccata l’acqua si raddrizzò, rollando vivamente e becheggiando e urtando contro il fianco della caravella.

Correa ed il mozzo, assicuratisi che galleggiava perfettamente, calarono i due barilotti contenenti le munizioni e qualche vestito di ricambio trovato nella cabina del pilota, presero i loro spadoni, la scure e gli archibugi e scesero sul galleggiante troncando le funi.

— Dove ci dirigeremo, signore? — chiese il mozzo, disponendosi a prendere i remi.

Correa lanciò un lungo sguardo verso la costa, poi indicando un fiume che si versava nella vasta baia, disse:

— Approderemo là; saremo abbastanza lontani da quello che hanno risalito i brasiliani. —


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