< L'Uomo di fuoco
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32. L'assalto dei tupinambi
31. La ritirata di Diaz Conclusione

CAPITOLO XXXII.

L’assalto dei Tupinambi.


Diaz si era rapidamente voltato, guardando verso la savana sommersa.

Se l’indiano che sapeva non essere facile ad impressionarsi, aveva pronunciate quelle parole, la cosa doveva essere ben seria e realmente era molto grave.

Quattro punti luminosi, forse delle fiaccole, solcavano silenziosamente le nere acque della savana sommersa e quello che era peggio, pareva che si dirigessero verso l’isoletta sulla quale il marinaio di Solis e l’indiano avevano cercato un momentaneo rifugio.

Si distinguevano abbastanza nettamente le prore di quattro canoe che parevano assai più grosse di quella dei fuggiaschi e si vedevano anche ad agitarsi delle forme umane quasi nude.

— Bella notte! — mormorò Diaz. — Prima i giaguari, ora i Tupy od i Caheti! Come finirà?

— Li vedi? — chiese Rospo Enfiato.

— Non sono cieco.

— Vengono qui.

— Me ne sono accorto.

— Ci spiavano dalla foce del fiumicello. Tu non ti eri ingannato quando hai udito quel fischio.

— Vorrei sapere chi sono.

— Tupinambi no di certo, — rispose l’indiano. — I miei non devono essere giunti sulle rive di questa savana.

— Allora sono Tupy.

— Od altri non meno pericolosi.

— Che cosa dobbiamo fare?

— Tenerci nascosti nella canoa, per ora, — disse l’indiano.

— Vorresti, in caso di pericolo, rifugiarti ancora a terra? La nostra situazione non potrebbe allora diventare peggiore?

— È vero, avremmo da misurarci anche coi giaguari.

— Trova qualche cosa d’altro.

— Lasciamoli sbarcare, poi filiamo a tutta forza di remi verso il sud. L’alba non comparirà prima di due ore e protetti da questa oscurità forse potremo sfuggire ancora ai nostri nemici.

Coricati presso di me e aspettiamo. —

Si sdraiarono sul fondo della canoa, appoggiando le gravatane sulla prora, decisi a far uso delle loro terribili frecce.

Le quattro scialuppe s’accostavano con precauzione, su una sola fronte, mantenendo una distanza di trenta e quaranta passi l’una dall’altra.

Erano più lunghe e più larghe di quella montata dai fuggiaschi e ognuna portava non meno di una dozzina di selvaggi.

Sulle panche si vedevano gravatane e mazze da guerra.

— Chi sono? — chiese sottovoce Diaz.

— Tupy, — rispose Rospo Enfiato.

— Come mai quei cani si trovano qui?

— Ci hanno seguiti lungo il fiume senza che noi ce ne accorgessimo.

— Sono ben furbi quei bricconi.

— Vedremo se saranno capaci di prenderci.

— Non mi lascerò divorare senza aver prima consumate tutte le mie frecce e ne ho almeno una quindicina.

— Ed io altrettanto, — rispose l’indiano.

Le canoe erano giunte dinanzi ai paletuvieri, e si erano riunite, ad una sessantina di passi dal luogo ove si trovavano nascosti i due fuggiaschi.

— Sbarchiamo qui? — aveva comandato un indiano.

— Sì, — aveva risposto un altro che doveva essere il capo della spedizione a giudicarlo dal diadema di penne di tucano che portava sulla testa. — Devono aver preso terra su questo isolotto.

Dividiamoci in due drappelli e lasciate uno di noi a guardia delle canoe. —

Legarono i legnetti ad un tronco d’un paletuviero, poi, passando di ramo in ramo, i quaranta o cinquanta guerrieri scesero sull’isolotto.

— Preparerò loro un bel tiro, — mormorò Rospo Enfiato agli orecchi di Diaz.

— Che cosa vuoi fare?

— Impedire loro di seguirci.

— In quale modo?

— Lo vedrai. —

L’indiano si era alzato scostando con infinite cautele i rami e le foglie che coprivano la canoa.

I due drappelli, preceduti da alcuni uomini che portavano dei rami resinosi accesi, stavano per scomparire fra le macchie.

— Eccoli lontani, — mormorò.

Prese una pagaia e tastò il fondo della savana.

— L’acqua è profonda assai, — disse. — Non sento le sabbie.

— Dimmi dunque che cosa vuoi fare? — chiese il marinaio un po’ impazientito.

— Vado a uccidere l’uomo che hanno lasciato a guardia delle canoe, — rispose l’indiano. — Un soffio nella gravatana e lo spaccio in un attimo.

— A quale scopo? Se l’uomo riesce a mandare un grido i suoi compagni accorreranno e li avremo tutti addosso.

— Non camminano sull’acqua.

— Non comprendo.

— Ucciso l’uomo affonderò le canoe. Come potranno inseguirci poi?

— Sei più furbo di loro, tu.

— Aspettami, uomo bianco.

— E gli jacarè? Credi che non ve ne siano qui?

— Rospo Enfiato non li teme, — disse l’indiano levandosi dalla cintola, un bastoncino lungo un piede ed aguzzo d’ambo le parti.

— È di pâo de fero, — aggiunse. — Sai a che cosa serve. —

Si calò silenziosamente in acqua tenendo fra i denti la gravatana, fece cenno a Diaz di non muoversi e si mise a nuotare lentamente tenendosi sotto i rami arcuati delle piante da febbre.

Manovrava così agilmente da non produrre il più lieve rumore. Pareva, anzichè nuotasse, che scivolasse sulle nere acque come un vero pesce.

Le quattro canoe, come abbiamo detto, si erano arrestate ad una sessantina di passi.

Sulla più vicina si trovava l’indiano incaricato di guardarle. Stava seduto sulla prora, accanto ad un lungo ramo resinoso infisso in una fessura del banco e s’appoggiava alla mazza da guerra.

Rospo Enfiato si era arrestato a quindici passi, fuori dal cerchio di luce proiettato dai rami resinosi.

Con una mano s’aggrappò alla radice d’un paletuviero, accostò la gravatana alla bocca, mirò per qualche istante con grande attenzione, poi si udì in aria un sibilo appena percettibile.

Il Tupy era balzato prontamente in piedi portando ambo le mani alla gola. La terribile freccia gli si era conficcata, con matematica precisione, nel pomo d’Adamo.

Strappò il cannello mandando un urlo rauco, poi s’abbassò cercando di afferrare la mazza.

Ad un tratto però vacillò, alzò le braccia tentando di aggrapparsi a qualche cosa, poi cadde nelle nere acque della savana sommersa con un tonfo lugubre.

— Buono per gli jacarè, — mormorò Rospo Enfiato.

Si rimise la gravatana fra i denti, raggiunse con poche bracciate la prima canoa, si aggrappò al bordo e con una scossa la rovesciò, lasciandola empirsi d’acqua.

Passò poi alle altre alle quali fece subire l’eguale sorte.

Quando furono scomparse sotto le tenebrose acque, il bravo indiano salì sui rami d’un paletuviero e lanciò uno sguardo sulla riva.

I due drappelli non si scorgevano più.

— Non se ne sono accorti, — disse, gettandosi la gravatana a bandoliera. — Ora possiamo andarcene senza temere che c’inseguano.

Si rituffò senza far rumore e nuotò verso il nascondiglio.

Già non distava che qualche diecina di passi, quando un corpo rugoso lo urtò rigettandolo da una parte.

Quasi nel medesimo istante un acuto odore di muschio si sparse sulla superficie dell’acqua.

— Un jacarè! — esclamò, facendo rapidamente tre o quattro bracciate per allontanarsi. — Che lo abbia svegliato? —

Si rovesciò sul dorso e si guardò intorno, tenendo nella destra quella specie di pugnale di pâo de fero a due punte.

Un leggero risucchio lo avvertì che il caimano lo aveva seguìto nuotando sott’acqua.

Riprese l’appiombo spingendo innanzi la mano. Con un grido avrebbe potuto far accorrere in suo aiuto Diaz, ma non osò farlo per tema di attirare l’attenzione dei selvaggi che si trovavano forse più vicini di quanto supponeva.

Preferì far fronte al pericolo da solo. D’altronde non era la prima volta che si provava a misurarsi con quei mostri acquatici e sapeva come difendersi.

Non erano trascorsi cinque secondi che vide l’jacarè rimontare alla superficie.

Il rettile aveva aperte le sue formidabili mascelle, irte di denti triangolari e acutissimi, e muoveva verso la preda colla speranza di tagliarla in due.

Rospo Enfiato non si era mosso. Agitava solamente le gambe per mantenersi a galla e conservare la sua posizione orizzontale.

Con un ultimo slancio il rettile gli fu addosso. Pronto come un lampo, l’indiano cacciò audacemente la mano armata del pugnale fra le mascelle, in modo che le due punte si appoggiassero contemporaneamente sulla lingua e sul palato.

Il mostro, credendo di stritolare il braccio, le aveva chiuse precipitosamente.

Ad un tratto fece un balzo indietro mandando un soffio poderoso accompagnato da un sordo muggito e si mise a dibattersi con furore spaventevole.

Le due punte del pâo de fero gli si erano conficcate profondamente nelle mascelle, senza poter più nè riaprirle, nè rinchiuderle. La sua morte non era ormai che questione di minuti. L’asfissia non doveva tardare a manifestarsi in causa dell’acqua che gli entrava già in gola.

Rospo Enfiato si era allontanato precipitosamente nuotando fra le acque, per non ricevere qualche colpo di coda.

Descrisse un largo giro intorno al rettile che non cessava di dibattersi, sollevando delle ondate e si cacciò sotto i paletuvieri dove Diaz, udendo quei fragori che non riusciva a spiegarsi, lo aspettava con angoscia.

— Partiamo subito, — disse l’indiano.

— Le canoe?

— Affondate.

— Ed il Tupy?

— Morto.

— Chi produce queste ondate?

— Un jacarè che mi aveva assalito e che sta per spirare.

— Sei un valoroso. —

L’indiano sorrise e prese le pagaie, ripetendo:

— Partiamo subito.

— Non ci scorgeranno gli altri? — chiese Diaz.

— Si provino ad inseguirci ora che sono senza canotti. —

Lasciarono il loro rifugio e si spinsero fuori dalle piante, senza però troppo allontanarsi dalla riva.

— Ci scosteremo quando avremo raggiunta la punta meridionale, — disse l'indiano. — Queste piante ci nascondono e anche ci riparano dalle frecce.

— Dove ci cercheranno?

— Certo fra le macchie.

— Non credevo che questa avventura finisse così bene.

— Andiamo, forza, uomo bianco. —

Continuarono ad avanzarsi radendo i paletuvieri e cercando di fare meno rumore che era possibile, finchè raggiunsero felicemente la punta estrema dell’isola.

L’avevano già superata oltrepassandola d’una cinquantina di metri, quando udirono una voce a gridare:

— Là! Là! Eccoli che fuggono!

— Maledizione! — esclamò Diaz.

Alcune ombre umane si erano precipitate fuori da una macchia, slanciandosi verso la riva.

— Abbassati! — gridò Rospo Enfiato, udendo sibilare in aria delle frecce.

Il marinaio di Solis si era già gettato nel fondo del canotto, quando udì parecchi tonfi.

— Ci assalgono a nuoto! — gridò.

— Ho la mazza, — rispose Rospo Enfiato.

— Afferra le pagaie!

— Le frecce volano e sono certo tinte nel vulrali. —

Diaz a rischio di riceverne qualcuna alzò la testa riparandola dietro la parte larga e piatta del remo che poteva, fino ad un certo punto, servire da scudo e guardò verso la riva.

Otto o dieci indiani balzavano come se fossero indemoniati, lanciando di quando in quando qualche freccia che si piantava sui bordi della canoa quantunque la distanza fosse già considerevole.

Altri sei o sette si erano gettati in acqua e nuotavano vigorosamente per assalire l’imbarcazione.

Si servivano d’una sola mano poichè nell’altra tenevano le mazze.

— Ah! Canaglie! — gridò Diaz.

— Vengono? — chiese il Rospo.

— Sono a breve distanza.

— Fuggiamo! —

Afferrarono le pagaie e approfittando del momento in cui gl’indiani rimasti sulla riva s’aprivano un varco fra i paletuvieri per diminuire la distanza e rendere più efficaci i tiri delle frecce, si allontanarono d’una trentina di passi, distanza sufficiente per essere fuori di portata.

Tre Tupy però, più lesti degli altri, li avevano seguiti da vicino, anzi uno con un ultimo slancio aveva posata una mano sulla poppa tentando di issarsi nella canoa. Diaz che lo aveva veduto, afferrò la mazza del compagno e gli assestò sul cranio un tale colpo da cacciarlo sott’acqua per sempre.

Nel medesimo tempo il Rospo lanciava una freccia contro il secondo, colpendolo in mezzo al petto.

Il terzo, spaventato, s’immerse, imitato tosto anche dagli altri che si trovavano più lontani.

— Voga! Voga! — gridò il marinaio. — Ora non ci prendono più! —

Senza occuparsi delle urla furibonde degl’indiani rimasti a terra e che avevano assistito, senza nulla poter fare, alla sconfitta dei loro compagni, diedero dentro ai remi allontanandosi velocemente verso il sud-est.

Cominciava allora a spuntare l’alba. Le tenebre si diradavano rapidamente ed il cielo si tingeva d’un rosso vivissimo, annunciando l’imminente comparsa del sole.

Le acque della savana sommersa, poco prima nere come l’inchiostro, cominciavano a scintillare con striature d’oro, mentre la brezza mattutina le increspava lievemente.

La canoa, sotto la spinta delle due pagaie, volava sulla superficie della immensa laguna, lasciandosi a poppa una bianca scia.

Gli uccelli acquatici cominciavano a risvegliarsi, alzandosi rumorosamente dagli isolotti e dai banchi pantanosi e salutando con grida gioconde il ritorno del sole.

— Rospo Enfiato, — disse il marinaio di Solis. — Siamo sulla buona via?

— Non temere, uomo bianco, — rispose l’indiano.

— Verremo ancora inseguiti?

— Con quali scialuppe? Le ho affondate tutte.

— Che lo spirito malvagio si porti nella notte eterna quei Tupy.

— Taci e voga. Siamo ancora lontani ed i tuoi compagni sono forse in pericolo. Ogni colpo di remo aumenterà la probabilità di salvarli. —

Rospo Enfiato che conosceva la savana e che sapeva orientarsi senza difficoltà, mise la prora della canoa verso il sud, arrancando con gran lena.

A mezzodì giungevano all’estremità meridionale della savana, di fronte ad un secondo fiume, più largo del primo, che pareva scendesse da levante.

Si riposarono qualche ora mangiando qualche frutto raccolto sugli alberi che coprivano le rive, quindi imboccarono il fiume salendo contro-corrente.

Anche Diaz cominciava a riconoscere quei luoghi che aveva percorsi per lunghi anni. Si trovavano sul territorio dei Tupinambi, territorio che egli non aveva creduto si trovasse così vicino avendo perduto, nelle sue lunghe fughe attraverso le foreste, ogni direzione.

Verso sera la canoa giungeva dinanzi ad un grosso villaggio formato da parecchie centinaia di carbets vastissimi, capaci di contenere ognuno venti famiglie. Era la grande aldèe di Tulipa, la più grossa che possedevano i Tupinambi, capace di mettere in arme non meno di cinquecento guerrieri.

In quell’epoca i Tupinambi erano ancora potentissimi ed estendevano il loro territorio fino sulle rive dell’oceano, là dove oggidì sorge la città di Bahia.

Avevano numerosi villaggi ben popolati e godevano fama di essere valorosissimi. Ed infatti il loro nome equivaleva a quello di bravi e valenti, e veramente lo erano, essendo quasi sempre in guerra con tutte le tribù vicine, specialmente coi Tupy, loro secolari nemici.

La improvvisa emigrazione dei ferocissimi Eimuri, calati nelle selve a turbe immense, dopo sanguinosissimi combattimenti e lunghe resistenze, li aveva costretti ad abbandonare le loro aldèe e cercare un rifugio momentaneo nelle foreste.

Passata però quella tremenda burrasca che aveva travolte un gran numero di tribù meno resistenti, a poco a poco erano ritornati ai loro villaggi riedificando quelli che erano stati distrutti, ma erano tornati ben decimati dai lunghi combattimenti e per di più senza capo, preso, ferito e divorato dagli Eimuri.

Si può immaginare lo stupore degli abitanti e anche la loro gioia nel veder sbarcare dinanzi all’aldèe il gran pyaie bianco che era il personaggio più importante della tribù dopo il capo e che avevano ormai creduto morto.

Il marinaio, durante i lunghi anni che era vissuto fra quei fieri selvaggi, aveva saputo acquistarsi la loro stima, insegnando a loro molte cose utilissime.

Fu quindi con una vera esplosione di gioia che venne ricevuto dai sotto-capi e dalla popolazione. Fu collocato in un palanchino e trasportato nella sua abitazione, una casetta di stile spagnolo che faceva bella pompa in mezzo all’aldèe.

Diaz, che pensava sempre con angoscia ad Alvaro, fece radunare i sotto-capi ed i vecchi della tribù ed espose senz’altro il motivo che lo aveva indotto a tornare precipitosamente assieme a Rospo Enfiato.

Con suo stupore s’accorse subito che Caramurà non era sconosciuto ai Tupinambi. Tutti avevano udito a parlare di quel terribile Uomo di fuoco possessore del fuoco celeste che tuonava e fulminava; anche le tribù loro alleate che abitavano al nord del territorio. Il desiderio di poter avere un pyaie così potente, così invincibile, fece subito breccia nel cuore dei sotto-capi e dei vecchi.

Coll’Uomo di fuoco i Tupinambi acquistavano una forza straordinaria e dovevano diventare invincibili.

La spedizione fu subito decisa, tanto più che si trattava di dare un colpo mortale alla potenza dei Tupy, quegli insaziabili divoratori di carne umana che tanto male facevano alla tribù.

La stessa sera, quaranta grosse canoe, montate da cinquecento guerrieri armati di mazze, di scuri di selce, di archi e di gravatane e ben forniti di frecce tinte nel vulrali, lasciavano il villaggio scendendo rapidamente il fiume.

Diaz ne aveva assunto il comando, innalzando Rospo Enfiato alla carica di aiutante di campo. Non fu che l’indomani sera che la flottiglia giunse nel secondo fiume, là dove il marinaio ed il Rospo avevano tratta a galla la canoa.

Lasciarono cinquanta uomini a guardia delle scialuppe, poi il grosso, sotto la guida del Rospo, si spinse attraverso le foreste per sorprendere l’aldèe dei Tupy.

Erano già giunti presso i margini dei grandi boschi, quando Diaz che marciava alla testa della spedizione assieme ai sotto-capi, udì in lontananza a rimbombare degli spari.

— È Alvaro, l’Uomo di fuoco! — gridò al Rospo. — Si difende ancora! Di corsa e armi in mano.

Attraverso le fronde si vedeva un intenso chiarore che rapidamente aumentava e saliva in aria una nuvola di fumo coi margini rosseggianti.

Urla acute si alzavano nel villaggio dei Tupy miste a spari. Era il momento in cui Alvaro stava abbandonando il carbet ormai fiammeggiante.

Diaz, col cuore stretto da una profonda angoscia, incoraggiava i Tupinambi ad affrettarsi.

Correvano come cervi, colle mazze in pugno, anelanti di carneficina, assetati di sangue. Il nemico secolare era là e stava forse per opprimere quel terribile Uomo di fuoco, quel semi-dio che possedeva la folgore celeste.

Attraversano la pianura con slancio irresistibile e piombano sulle porte delle cinte, non più guardate dai Tupy, che si sono tutti rovesciati sulla piazza dell’aldèe, per opprimere i pyaie dalla pelle bianca che hanno ucciso il capo della tribù.

Le porte, fracassate, scardinate dalle pesanti mazze dei Tupinambi cadono sfasciate e Diaz alla testa delle prime squadre irrompe attraverso i carbets fra un urlìo furioso ed incessante.

L’assalto è così improvviso e così rapido, che quando i Tupy s’accorgono della presenza dei loro avversari, questi sono già entrati nel villaggio.

Un combattimento furioso s’impegna nelle viuzze dell’aldèe. I Tupy accorrono da tutte le parti in difesa dei loro carbets, travolgendo le donne ed i fanciulli fuggenti, mentre altri tengono testa all’Uomo di fuoco ed al mozzo che sparano all’impazzata presso la capanna fiammeggiante.

Da tutte le parti si combatte a colpi di mazza e di scure fra un fracasso infernale. I Tupy, quantunque inferiori di numero e già demoralizzati dalle fucilate dell’Uomo di fuoco, si difendono coll’energia che infonde la disperazione; ma perdono terreno dinanzi agli attacchi fulminei dei Tupinambi.

Diaz che ha udito le fucilate rimbombare sulla piazza, raccoglie un pugno di valorosi e con Rospo Enfiato si slancia in quella direzione dove il carbet dei prigionieri fiammeggia sempre come una torcia colossale spandendo intorno bagliori sanguigni.

Sfondano le linee dei Tupy già sconnesse e si scagliano verso l’aldèe, tutto rovesciando sul loro passaggio.

Un uomo, con a fianco un ragazzo, spara fra i vortici di fumo e i tizzoni infiammati che cadono da tutte le parti.

— Alvaro! — urla Diaz. — I Tupinambi! —

Il signor Viana, nero di fumo e di polvere, lascia cadere l’archibugio e si getta nelle braccia di Diaz.

In quel momento una freccia colpisce il marinaio in un fianco.

— Sono morto! — grida. — Il vulrali! —

Si strappa rabbiosamente la freccia, ma cade subito fra le braccia del portoghese e di Rospo Enfiato.

— Mio povero amico! — esclamò Alvaro colle lagrime agli occhi.

Il marinaio fece un gesto d’addio, poi mormorò:

— I sotto-capi! A me! Caramurà! —

I Tupinambi giungevano da tutte le parti. I Tupy, completamente sconfitti avevano già evacuato il villaggio fuggendo nei boschi vicini.

Un grido di furore era sfuggito da tutti i petti vedendo il gran pyaie della tribù a terra. Il disgraziato aveva alle labbra una schiuma sanguigna e guardava Alvaro cogli occhi semispenti.

Colla mano fece cenno ai sotto-capi di accostarsi e additando Alvaro che piangeva come un fanciullo al suo fianco.

— L’Uomo di fuoco, — balbettò. — Il capo dei Tupinambi... l’invincibile. —

Prese le mani d’Alvaro e di Garcia e cercò di sorridere un’ultima volta.

— Addio, — mormorò con voce appena distinta. — Il vulrali non perdona. —

Cercò di rialzarsi poi d’un tratto ricadde.

Diaz, il gran pyaie dalla pelle bianca, era morto!



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