< L'Uomo di fuoco
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4. Alla costa
3. L'assalto degli antropofaghi 5. Nelle foreste brasiliane

CAPITOLO IV

Alla costa.


La zattera galleggiava perfettamente, mercè anche i quattro carratelli legati ai suoi angoli e manteneva fuori d’acqua la sua piattaforma malgrado le ondate che rumoreggiavano nella baia.

Il signor di Correa ed il ragazzo, dopo essersi orizzontati, si erano messi ad arrancare con lena, tenendo però gli sguardi quasi sempre volti alla foce del fiume entro la quale si erano cacciate le tre piroghe dei brasiliani.

Temevano che quei bricconi si fossero nascosti fra le piante che coprivano le due rive e che da un istante all’altro facessero la loro comparsa.

Nella baia non si scorgevano che degli uccelli marini d’una specie assolutamente ignota ad Alvaro ed al suo compagno e che si tuffavano nelle acque per dare la caccia ai pesci. Nessuna piroga solcava quell’immenso specchio d’acqua disseminato di superbi isolotti coperti di palmizi di varie specie, che davano loro un aspetto assai grazioso.

Nessun rumore sospetto turbava il silenzio che regnava entro quella specie di golfo che doveva diventare un giorno sede di una delle più opulenti città dell’America meridionale e uno dei porti più ampi e più sicuri del mondo.

Solamente si udivano sempre a rumoreggiare e tuonare i marosi, arrestati nella loro corsa dalle scogliere.

La zattera, ora affondando pesantemente nelle pieghe dei cavalloni ed ora librandosi sulle creste, si era già allontanata dalla caravella sempre fiammeggiante, d’un centinaio di metri, quando alcune teste apparvero a babordo ed a tribordo, strappando al mozzo un grido di terrore.

— Signor Correa!

— Gl’indiani? — chiese Alvaro, che non si era ancora accorto della presenza di quei nuovi nemici, non meno formidabili dei mangiatori di carne umana delle selve brasiliane.

— No, gli squali, signore.

— Che siano tutti accaniti contro le nostre polpe e affamati di carne bianca in questo maledetto paese! La cosa comincia a diventare un po’ noiosa.

— Ci hanno circondati, signore. —

Alvaro ritirò il remo e si guardò intorno. Il mozzo non aveva esagerato il pericolo.

Sette od otto enormi pesci-martello, mostravano le loro orribili teste a pochi passi dalla zattera, aprendo e rinchiudendo le loro mascelle con uno scricchiolìo per nulla rassicurante.

I loro occhi, bruttissimi, collocati alle due estremità del martello, dall’iride azzurro cupo, si tenevano ostinatamente fissi sui due naufraghi come se cercassero di affascinarli.

— Non sono meno pericolosi degl’indiani questi, — disse il giovane portoghese. — Non sarà però cosa facile per loro di inerpicarsi sulla zattera, giacchè la natura non li ha, fortunatamente, provvisti di zampe e di artigli.

Che boccaccie! Non ti senti gelare il sangue, mio piccolo Garcia? —

— E anche girare la testa signore, — rispose il mozzo.

— Prendi uno spadone e picchia sodo se si avvicinano.

— Sarebbe meglio fucilarli.

— Degli spari! No, Garcia, non facciamo tornare gl’indiani o accorrere degli altri.

Ve ne possono essere ancora sotto quelle boscaglie. —

Gli squali si erano messi a girare intorno alla zattera, tenendosi ad una certa distanza, mostrando ora i loro dorsi potenti ed ora le loro code che sono così robuste da poter rovesciare d’un sol colpo un canotto di media lunghezza.

Di tratto in tratto qualcuno si inabissava fragorosamente ed i due naufraghi sentivano la sua pelle rugosa strisciare sul fondo della zattera.

— Si provano ad alzarla, — disse Correa il quale era meno spaventato di quanto avrebbe dovuto esserlo. Ritengo però che non ne avranno la forza. Anche noi pesiamo qualche cosa. —

Aveva afferrato il suo spadone e con un coraggio temerario si era accostato al margine di tribordo della zattera, tirando gran colpi che ricadevano sempre nel vuoto. Quei maledetti squali, furbi come pesci, appena vedevano l’atto si tuffavano rapidamente per ricomparire poco dopo dall'altra parte del galleggiante.

Parve però che uno perdesse la pazienza. Era un mostro di sei o sette metri di lunghezza, uno dei più enormi della specie, con una bocca così ampia che Garcia non avrebbe trovato alcuna difficoltà a starvi dentro ripiegato in due.

Sicuro della sua forza e fors’anche più affamato degli altri, con un poderoso colpo di coda si rovesciò sulla zattera urtandola in così malo modo da farla piegare sul tribordo d’un buon piede.

La scossa era stata così improvvisa che Correa per poco non cadde entro quella bocca spalancata che si teneva pronta a rinchiudersi.

— Ah per Bacco Baccone! — esclamò il portoghese, riprendendo subito il suo ammirabile sangue freddo. — La faccenda comincia a farsi seria. Se tutti ci piombano addosso ci faranno a pezzi. —

Vedendo il vorace mostro ritornare all’assalto, impugnò lo spadone con ambe le mani e gli tirò contro una tale botta, da tagliargli netto uno dei due capi del martello.

Lo squalo, così atrocemente mutilato, mandò un rauco sospiro che parve un colpo di tuono udito in lontananza, e s’inabissò subito lasciando alla superficie una larga macchia di sangue ed il suo pezzo di testa il cui occhio conservava ancora un terribile sguardo.

— Credo che quel briccone ne avrà abbastanza, — disse il portoghese.

— Ed anche il mio, — rispose il mozzo.

Il ragazzo incoraggiato dal felice esito del compagno, vedendo un altro squalo passare a buon tiro, gli aveva spaccata la testa con una destrezza sorprendente.

Disgraziatamente avevano ottenuto l’effetto opposto. Gli altri, invece di spaventarsi per quella brusca accoglienza, eccitati forse dall’odore del sangue erano diventati d’un colpo furibondi.

Urtavano la zattera da tutte le parti, ora spingendola da una parte ed ora dall’altra, facendola piegare a babordo od a tribordo e avventavano colpi di coda così tremendi che i carratelli si sfasciavano compromettendo la stabilità del galleggiante.

Quell’assalto stava per finire tragicamente non ostante i colpi di spadone dei due naufraghi, quando un rimbombo spaventevole echeggiò nella baia e un’ondata altissima si rovesciò addosso ai combattenti, portando la zattera verso la costa.

Era la caravella che saltava. Le fiamme, non combattute, avevano raggiunto il quadro ed i barili di polvere del pilota erano scoppiati con un fragore assordante, sventrando letteralmente il povero legno.

Quello scoppio era stato più efficace che i colpi di spadone di Alvaro e del mozzo.

Gli squali, atterriti, si erano subito inabissati rifugiandosi probabilmente nelle caverne sottomarine che servono ordinariamente di asilo a quei pericolosi abitanti delle baie americane.

Per qualche minuto una immensa nuvola biancastra si distese sopra la baia tutto oscurando, poi, quando si fu dissipata, Correa ed il mozzo scorsero fra le scogliere lo scafo della caravella tutto disarticolato ed infiammato.

— Povero veliero, — disse il portoghese, con una certa commozione. — Quale triste sorte doveva essere la tua. —

Una scossa che per poco non lo fece cadere in acqua, lo costrinse a voltarsi.

— Ancora gli squali? — chiese.

— No, signore, — rispose il mozzo, — ci siamo arenati sopra un banco e la spiaggia non è che a cinquanta passi da noi. L’onda prodotta dall’esplosione ci ha portati meglio che una vela con buon vento.

— È profonda l’acqua?

— Appena un piede.

— Lasciamo il nostro galleggiante e andiamo a cercarci la colazione.—

Si caricarono dei due barilotti che non pesavano più di venti libbre ciascuno, raccolsero le vesti e le armi e saltarono sul banco che attraversarono senza difficoltà.

La boscaglia che si estendeva tutta intorno alla baia, finiva sulle sabbie, anzi talune piante bagnavano le loro radici nell’acqua del mare.

Era l’ultimo lembo di quella immensa foresta che anche oggidì copre buona parte dell’interno del Brasile non ostante gli sforzi continui degli emigranti e degli indigeni e che presenta ancora tutti i caratteri del suo stato primitivo, poichè i suoi alberi sono stretti da arbusti, da cespugli e da liane parassite d’ogni specie che si arrampicano intorno ai tronchi, che salgono fino ai più alti rami e che ridiscese a terra mettono nuove radici moltiplicandosi in modo spaventevole.

Dinanzi agli sguardi meravigliati di Correa e del mozzo si alzavano a perdita d’occhio piante superbe e svariate, strette da liane che ricadevano in enormi festoni formando in certi luoghi delle reti così fitte da rendere impossibile il passaggio non solo agli uomini ma ben anco agli animali.

Era un caos indescrivibile di mirti dalla scorza lucentissima; di cocchi più alti e più splendidi di quelli delle Indie orientali; di pekie che si direbbero produrre delle palle di cannone anzichè delle frutta e che mostravano i loro enormi calici ed i loro larghi petali dalle tinte svariate; di acacie, di cedri e di palmizi d’ogni specie.

Splendidi volatili, dalle penne variopinte, cicalavano in mezzo alle fronde, senza manifestare alcun timore per la vicinanza di quelle due persone.

Erano dei superbi canindè, somiglianti ai cacatoa australiani e grossi come pappagalli, colle ali d’un turchino brillante e le penne del petto gialle; degli uruponga candidissimi, il cui canto fortissimo odesi, fra il maestoso silenzio delle foreste vergini, a ben tre miglia di distanza, all’alba, al mezzodì ed al tramonto e che squilla come una campana; delle arà tutte rosse che lanciavano, con una insistenza noiosa, il loro eterno arà, arà; poi degli aracari, specie di tucani non più grossi d’un merlo e col becco cartilaginoso grosso quanto l’intero corpo e che stridevano come ruote male unte.

— Che cosa ne dici di tuttociò, Garcia? — chiese Alvaro che guardava con stupore tutti quei volatili che scherzavano fra i raggi del sole, facendo brillare vivamente le tinte svariate delle loro penne.

— Che noi dobbiamo essere sbarcati sulle rive del paradiso terrestre, — rispose il mozzo.

— Bel paradiso dove gli abitanti a due gambe sono più feroci dei leoni e delle tigri che popolano le selve ed i deserti dell’Asia e dell’Africa.

— Non potete dire però che questa foresta non sia superba, signor Alvaro.

— Anzi splendida; quello che non trovo però è la colazione.

— Vi sono centinaia di uccelli.

— Che bramerei anch’io mettere sui carboni se la paura di attirare l’attenzione dei selvaggi non mi trattenesse.

— Ah! Signor Alvaro!

— Che cosa hai scoperto?

— Guardate là quei giganteschi alberi che sono carichi di frutta. Se provassimo ad assaggiarne qualcuna? —

Alvaro alzò gli occhi e scorse, a breve distanza dal luogo ove erano sbarcati, parecchi alberi immensi adorni di fronde foltissime e che portavano delle frutta somiglianti alle pere; ma un po’ più allungate e brillanti dei più vivi e svariati colori.

I loro tronchi poi erano letteralmente coperti da grosse gocce trasparenti che parevano formate d’acqua solidificata e che spandevano un aroma acutissimo.

Erano acajaba, gli alberi forse più belli e più preziosi dell’America del Sud, così pregiati dalle tribù indiane che per possedere i terreni su cui crescono, se li disputavano accanitamente con guerre sanguinosissime che costavano talvolta centinaia e centinaia di vite umane.

Alvaro che non li conosceva, non essendo mai stato prima d’allora nel Brasile, era rimasto perplesso dubitando che quelle frutta così colorite potessero servire al loro stomaco e racchiudessero invece qualche succo pericoloso.

— Si può provare, Garcia, — disse finalmente. — Sono così belle quelle frutta che tenterebbero delle persone meno affamate di noi.

Puoi salire?

— Per un mozzo la cosa non sarà difficile, — rispose il ragazzo.

Stava per aggrapparsi ad alcune liane che si erano avviticchiate strettamente al tronco d’uno di quegli alberi, quando gli sfuggì un gran scoppio di risa.

— Ah! Signor Alvaro! — esclamò. — Come sono buffe! E che magrezza spaventosa!

— Chi? — domandò il portoghese.

— Guardate dunque lassù; in mezzo al fogliame! Quelle frutta devono essere ben squisite, se le divorano così avidamente! —

Alvaro si fece sotto la pianta e guardò in alto, in mezzo al fogliame che come si disse, era foltissimo.

Degli esseri strani si agitavano fra i rami, spiccando di quando in quando dei salti sorprendenti per raggiungere i grappoli di frutta che saccheggiavano con una rapidità prodigiosa.

— Toh! — esclamò. — Delle scimmie!

— Delle scimmie! — rispose il mozzo. — Si direbbero giganteschi ragni, signore. —

Il ragazzo, senza saperlo, dava a quei quadrumani il loro vero nome perchè si trattava veramente d’una piccola banda di ateli, meglio conosciuti sotto il nomignolo di scimmie-ragni.

Ed infatti per la loro spaventevole magrezza e per la lunghezza eccessiva delle loro braccia e delle loro gambe, quelle abitatrici delle foreste americane, vedute da una certa distanza rassomigliano a dei ragni enormi, o meglio alle migale che hanno il corpo peloso.

Vedendo i due naufraghi, una improvvisa emozione si era impadronita dei quadrumani i quali si erano subito rifugiati all’estremità d’un grosso ramo che si prolungava al di sopra d’un fiumicello.

Strillavano rabbiosamente, mostrando i loro bianchi canini e arruffavano il pelame come se si preparassero a respingere vigorosamente il mozzo che si era bravamente aggrappato ad un festone di liane per raggiungere quelle belle frutta che promettevano una colazione squisita.

— Guardati, Garcia, — disse Alvaro, preparando l’archibugio. — Mi sembra che quelle scimmie siano molto bellicose.

— Ho la scure, signore, — rispose il bravo ragazzo, che continuava a salire. — Non saranno quelle bestie che mi faranno rinunciare alla colazione. —

Le urla delle scimmie raddoppiavano, credendo di spaventare il ragazzo, ma invece di prepararsi ad assalirlo continuavano invece ad indietreggiare facendo oscillare il ramo il quale pareva che da un momento all’altro dovesse cedere sotto il peso di quei dodici o quindici corpi per quanto fossero magrissimi.

Vedendo finalmente il mozzo lasciare le liane e slanciarsi fra la biforcazione dei rami, le loro grida di furore si tramutarono in lamenti così strazianti da far scoppiare dalle risa il signor di Correa.

— Non sono molto coraggiosi quei quadrumani, — disse.

— Signor Alvaro!

— Cos’hai?

— Che cosa fanno quelle scimmie? Pare che vogliano piombarvi addosso. —

Le ateli stavano in quel momento eseguendo una manovra misteriosa.

Ritiratesi all’estremità del ramo, una di esse si era lasciata penzolare nel vuoto, trattenuta dalle compagne per la coda.

Una seconda eseguì la stessa manovra, poi una terza formando in tal modo una specie di catena che si allungava rapidamente verso il suolo.

Si tenevano le une le altre per la coda lunghissima imprimendo, con delle spinte poderose, all’intera catena, un movimento ondulatorio fra il tronco dell’albero e la riva del fiume.

Alvaro ed il mozzo, molto sorpresi, le osservarono curiosamente non sapendo, nè riuscendo ad indovinare dove le scimmie miravano. Le ondulazioni aumentavano sempre. L’ultima scimmia, che si trovava a soli cinque o sei metri dal suolo, coi suoi slanci giungeva talvolta fino in mezzo al fiumicello.

Ad un tratto con un’ultima e più vigorosa spinta la catena attraversò tutto il corso d’acqua e la scimmia che formava l’estremità s’aggrappò al ramo d’un acajero che cresceva sulla riva opposta, tenendosi ben stretta, mentre le compagne allungavano le gambe, appoggiandole sulle spalle o sulle teste delle vicine, formando in tal modo un ponte sospeso del più strano effetto.

— Ah! Le furbe! — esclamò Alvaro. — Ora ho compreso! —

Le scimmie che erano rimaste sul ramo, quasi tutte femmine, che portavano a cavalcioni fra le spalle dei piccini, s’erano slanciate senza esitare su quel ponte peloso, gridando a piena gola.

Raggiunta la riva opposta, issarono l’ultima scimmia fino ai rami più alti, poi quella che si teneva aggrappata all’acajaba si lasciò andare.

La catena, per la spinta, attraversò di volata il fiume e tutta la banda in un momento si trovò riunita sull'acajero manifestando la sua gioia con inestinguibili scoppi di risa e salti disordinati.

— Buon viaggio! — gridò il mozzo, vedendole slanciarsi da un albero all’altro per guadagnare il folto della foresta.

Salì su un ramo che si piegava sotto il peso delle frutta e fece cadere al suolo una pioggia di quelle bellissime pere.

Alvaro ne accolse alcune e le spaccò a metà. La loro polpa era diafana, quasi trasparente ed esaltava un profumo squisito.

— Se le scimmie le mangiano vuol dire che non contengono alcun veleno, — disse, addentandone una. — Perdinci! Come sono deliziose! Altro che le nostre pere d’Europa.

Il mozzo, a cavalcioni d’un ramo, le divorava a due palmenti dividendo pienamente il parere del signor Correa.

Ed infatti non avevano torto. Anche gl’indiani ne sono ghiottissimi e ne raccolgono in quantità enormi che poi seccano e riducono in farina, formando poscia delle focacce che nulla hanno da invidiare a quelle composte col miglior frumento d’Europa.

Avevano fatto già un abbondante scorpacciata, quando Correa che si era sdraiato fra le fresche erbe per riposarsi un po’, vide il mozzo lasciare rapidamente il ramo, aggrapparsi alle liane e lasciarsi scivolare fino al suolo con rapidità fulminea.

— Cos’hai, ragazzo? — chiese il portoghese, afferrando i due archibugi.

— Silenzio, signore! — rispose il mozzo con voce alterata.

— Spiegati: chi hai veduto?

— Gl’indiani, signore!

— Ancora quei bricconi? — si chiese Alvaro, lanciando all’intorno un rapido sguardo. — Dove sono?

— Seguono la spiaggia.

— Molti?

— Non ne ho veduti che due.

— Vieni! —

Avendo scorto a breve distanza dei folti cespugli di passiflore, vi si lanciò in mezzo, seguito prontamente dal ragazzo. Da quel posto potevano vedere un lungo tratto di spiaggia, senza correre il pericolo di poter essere scoperti.

Degl’indiani dovevano avanzarsi verso la foce del fiumicello, giacchè se non si scorgevano ancora si udivano però le loro voci.

— Non mi sembra che siano molti, — disse Alvaro che ascoltava attentamente.

— Che siano due esploratori degl’indiani che sono fuggiti? — chiese Garcia.

— Può darsi, — rispose Correa. — Se sono due soli non c’è da spaventarsi.

— Che ci scoprano? Possono trovare le nostre orme che abbiamo lasciate sulle sabbie e anche la zattera.

— Se si accosteranno non li risparmieremo. —

In quel momento due indiani sbucarono dal folto della boscaglia avanzandosi verso la spiaggia.

Erano entrambi di statura alta, un po’ magri, coi lineamenti regolari, colla pelle d’un rosso mattone e quasi interamente nudi, non avendo che un piccolo perizoma formato di nervature di foglie grossolanamente intrecciate.

Avevano invece i corpi dipinti di ocra rossa e nera, delle penne attaccate alle gote e altre infisse nei lunghi e ruvidi capelli che portavano sciolti sulle spalle.

La loro bocca aveva però un aspetto ripugnante, avendo il labbro superiore assai sporgente, come in forma d’un cucchiaio, prolungamento dovuto ad un pezzo di diaspro, di forma rotonda, incastrato un po’ sopra al mento e che pareva un vero stoppaccio cacciato a forza nella carne viva.

Quello strano ornamento che è in uso anche oggidì fra gl’indiani delle regioni interne del Brasile e che chiamasi il barbotto, dà alle loro fisionomie un aspetto ripugnantissimo.

Per averlo, si forano il labbro inferiore e vi cacciano dapprima dentro un dischetto di legno per tenere aperta la ferita finchè si siano rimarginati gli orli, poi uno più grande e continuano finchè abbiano raggiunto una sporgenza enorme. È da quel foro che sfugge la saliva che li imbratta in modo schifoso.

Anche negli orecchi fanno altrettanto, cacciandosi nel lobo dei dischi in modo che le estremità inferiori toccano sovente le spalle!

I due indiani che erano armati di lunghi archi di legno del ferro, e di certe specie di pugnali pure di legno, assai acuminati d’ambe le parti, si erano arrestati sulla spiaggia che in quel luogo scendeva ripidissima, guardando attentamente le acque.

— Pare che non l’abbiano con noi, — disse Alvaro al mozzo. — Si direbbe che si preparano a pescare.

— Colle frecce?

— Stiamo a vedere.

— Non se ne sono ancora accorti della zattera.

— È arenata dietro alla scogliera, dove il flusso l’ha spinta. —

I due indiani dopo d’aver percorso un tratto di spiaggia erano tornati indietro strappando da una pianta alcune liane che rapidamente annodarono, formando una corda resistentissima, della lunghezza d’un centinaio di piedi.

Ciò fatto si stesero sotto l’ombra d’un palmizio e tratto da un piccolo recipiente formato da una conchiglia una manata di polvere nerastra, si collocarono l’uno di fronte all’altro, tenendo in mano un bizzarro istrumento che pareva formato da due ossa incrociate in forma d’un X.

— Che cosa fanno? — chiese il mozzo stupito.

— Non ne so più di te, — rispose Alvaro che seguiva attentamente quella singolare operazione senza riuscire a comprendere molto. —

I due indiani versarono la polvere levata dalla conchiglia nelle ossa che dovevano essere forate in tutta la loro lunghezza, accostarono poi i loro volti introducendo fra le labbra uno dei rami inferiori e l’altro nelle narici, poi si misero a soffiarci con forza starnutando rumorosamente.

Quell’operazione inesplicabile pei due naufraghi, vissuti in un’epoca in cui il tabacco cominciava a essere appena noto ai popoli d’Europa, era invece spiegabilissima.

I due indiani fiutavano semplicemente un po’ di tabacco polverizzato nè più nè meno come lo prendevano i nostri nonni. Solamente lo fiutavano in modo un po’ diverso e con maggior vigore, soffiandoselo reciprocamente nel naso mediante quello strano istrumento formato da due ossa alari d’uccello, incrociate a quel modo.

Dopo d’aver sternutato abbondantemente, fino ad avere le lagrime agli occhi, i due selvaggi, felicissimi del successo di quella operazione, tornarono a sdraiarsi fra le erbe, tenendo gli sguardi sempre fissi sulle acque che in quel luogo parevano assai profonde.

Che cosa aspettavano? La risposta fu più pronta di quello che i due naufraghi credevano.

Non erano trascorsi quindici minuti, quando videro i selvaggi balzare rapidamente in piedi, uno tenendo in mano uno di quei pugnali di legno, aguzzo d’ambo le estremità e l’altro la corda di liane.

Quello armato del pugnale che sembrava il più robusto e anche il più attempato, si slanciò su una piccola rupe che s’alzava presso la spiaggia, scrutò, con estrema attenzione le acque, poi si cacciò il pugnale fra i denti e con un magnifico salto di testa s’immerse.

— Sono pescatori, — disse Alvaro al mozzo. — Sarei però curioso di sapere quale specie di pesce andrà a pugnalare.

— Dubito che possa riuscirvi, — rispose il ragazzo. — Sono troppo lesti gli abitanti delle acque.

— Ah! Diavolo!

— Che cosa avete, signore?

— Guarda! Perdinci! Che fegato hanno questi selvaggi. —

Una testa enorme si era mostrata improvvisamente alla superficie, a pochi passi dal luogo ove l’indiano si era immerso, la testa d’un pesce-martello.

— Il pescatore è perduto! — esclamò il mozzo.

— Ma no, — rispose Alvaro. — Egli si è immerso per assalire lo squalo.

— Che abbiano tanto coraggio questi selvaggi?

— Apri bene gli occhi, Garcia. —

Il pescatore era ricomparso a galla tenendo sempre fra i denti il lungo pugnale di legno e muoveva risolutamente verso lo squalo che giuocherellava fra la spuma.

L’indiano rimasto a terra, seguiva attentamente quella caccia emozionante, senza manifestare, a quanto sembrava, alcuna apprensione pel compagno.

Teneva sempre in mano il rotolo di liane come se fosse pronto a lanciarlo in acqua.

Il formidabile pesce-martello, accortosi della presenza dell’uomo, si era arrestato, come se fosse stato sorpreso dell’audacia di quel nemico che osava assalirlo, poi con un movimento fulmineo si era rovesciato sul dorso, aprendo le enormi mascelle.

L’indiano con un coraggio incredibile invece di sfuggire il pericolo, lo affrontò risolutamente. Afferrò il pugnale e con colpo di tallone fu addosso allo squalo, cacciandogli l’arma fra le mascelle spalancate, poi s’inabissò.1

Il pesce-martello, sicuro di stritolare d’un colpo il braccio del nemico, aveva rinchiusa violentemente la bocca, ma in quell’atto le due punte del pugnale gli erano penetrate nel palato producendogli delle ferite che dovevano avere ben gravi conseguenze pel vorace abitatore delle acque.

Ed infatti Alvaro ed il mozzo lo videro subito balzare come se avesse il diavolo in corpo, contorcersi rabbiosamente ed avventare in tutte le direzioni furiosi colpi di coda.

Rauchi sospiri uscivano dalla sua gola gorgogliante d’acqua e di sangue, mentre i suoi brutti occhi, dal lampo giallastro, parevano che dovessero uscirgli dalle orbite.

L’audace pescatore, nuotando fra le due acque, era frattanto giunto felicemente alla riva ed a fianco del compagno guardava, con visibile soddisfazione, i salti disordinati del mostro già agonizzante, aspettando che spirasse per impadronirsene.

— Garcia, amico mio, — disse il signor di Correa, — se noi avremo da affrontare di quei selvaggi non so come potremo cavarcela. Gli uomini che sfidano simili pericoli, devono avere del coraggio da vendere anche a noi.

Hai mai veduto tu i nostri marinai dare la caccia ad uno squalo armati di pugnale e soprattutto d’un pugnale di legno?

— Mai, signore, — rispose il mozzo.

— Se Pizzarro ed Almagro, fossero sbarcati qui invece che nel Perù, non avrebbero così facilmente conquistate tante regioni.

Gli Inchi, in paragone di questi selvaggi, erano dei conigli se non peggio. Ma che cosa fanno ora i due pescatori?

— Non so, guardano le sabbie, signore, — rispose il mozzo.

I due indiani infatti osservavano l’arena sottilissima che copriva la spiaggia facendo di quando in quando dei gesti che dinotavano un profondo stupore.

— Sai che cosa guardano, Garcia? — chiese Alvaro con accento inquieto.

— No, signore.

— Le nostre orme, ne sono certo.

— Allora verranno qui.

— Sì, se le seguiranno. Devono essere tuttavia ben imbarazzati non avendo mai veduto delle tracce lasciate impresse da uno stivale. Le crederanno di qualche animale straordinario. Eh! Guardano dalla nostra parte e preparano gli archi.

— Signore, fuggiamo, — disse il mozzo.

— Possiamo abbatterli con una scarica.

— E le detonazioni? Potrebbero far accorrere altri selvaggi. È impossibile che quegli uomini siano soli.

— Battiamocela, — concluse Alvaro.

I cespugli di passiflora entro cui si erano nascosti, permettevano di sgattaiolare senza farsi scorgere.

Si caricarono dei due barilotti, assicurandoseli sulle spalle con delle sagole e smuovendo con precauzione le fronde si cacciarono nel folto della foresta.

Avevano percorso una ventina di passi, quando udirono dietro di loro dei rami a spezzarsi, poi un sibilo leggero e videro una freccia lunghissima piantarsi nel tronco d’un albero, all’altezza d’un uomo.

Alvaro si era subito voltato col fucile pronto e già imbracciato, deciso a vendere ben cara la vita ed a far fuoco, checchè dovesse succedere.

I due indiani erano comparsi improvvisamente fra le passiflore che i due naufraghi avevano appena lasciate, coi loro immensi archi tesi e le frecce incoccate.

Scorgendo quei due bianchi, che certo mai ne avevano veduti di simili fino allora, un grido di stupore era sfuggito dalle loro labbra.

Certo si domandavano se quei due esseri appartenevano alla razza umana o se erano bestie d’una specie sconosciuta. Caramba! — esclamò Alvaro, puntando rapidamente.... (Cap. VII).

Nondimeno non osavano scoccare le loro frecce. Volgevano la punta ora in alto ed ora in basso come se fossero indecisi sul punto da colpire.

Ad un tratto, presi forse da un superstizioso terrore o spaventati dal luccichìo delle canne dei moschetti, volsero improvvisamente le spalle fuggendo con tale velocità che un cavallo non avrebbe potuto facilmente raggiungerli.

— Stavo per far fuoco, — disse Alvaro. — È meglio che se ne siano andati.

— Fuggiamo signore, — disse il mozzo. — Possono tornare in maggior numero.

— Mi arrendo alle tue ragioni, Garcia. Alziamo i tacchi e cerchiamo un nascondiglio in questa foresta. —

Volsero le spalle alla spiaggia e si misero a correre, cacciandosi sempre più nella boscaglia la quale diventava di momento in momento più fitta.

  1. In quella pericolosissima caccia, che certo nessun marinaio o pescatore europeo oserebbe tentare, erano specialmente famosi gl’indiani della tribù dei Guaitacazi.

Note

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