< L'Utopia (1863)
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Tommaso Moro - L'Utopia (1516)
Traduzione dal latino di Anonimo (1863)
Libro secondo
Libro primo Libro secondo - Delle città e specialmente di Amauroto

LIBRO SECONDO





L’isola degli Utopii, larghissima nol suo mezzo, si stende dugentomila passi, e per lungo tratto non si stringe molto, ma vèr la fine d’amendue i capi si va assottigliando: i quali, piegati in cerchio di cinquecentomila passi, fanno l’isola in forma della nuova luna. Questi suoi corni, dal mare combattuti, sono distanti uno dall’altro circa undici miglia, ed il mare, tra essi dai venti difeso, fa come un piacevol lago e comodo porto; di onde l’isola per suo bisogno manda le navi agli altri paesi: la bocca da una parte con guadi e secche, dall’altra con aspri sassi, mette spavento a chi pensasse d’entrarvi come nemico. Quasi nel mezzo di questo spazio è un’alta rupe, quale perciò non è pericolosa, sopra di cui in una torre da loro fabbricata gli Utopiensi tengono il presidio: molte altre rupi vi sono nascoste e perigliose. Essi solamente hanno cognizione dei canali: indi avviene di raro che alcun esterno, che non sia da uno di Utopia guidato, vi possa entrare: quandochè essi a fatica v’entrano senza pericolo, non si reggendo a certi segni posti nel lido, i quali, essendo mossi dai luoghi soliti, guiderebbono ogni grande armata nimica in precipizio. Dall’altra parte è un porto assai frequentato, e dove si scende, fortificato dalla natura e con arte in tal guisa, che pochi uomini lo possono difendere da copioso esercito. Ma come si narra, ed anco la qualità del luogo ne dà indizio, quella terra anticamente non era dal mare circondata. Utopo, che le diede il nome, perchè prima si nomava Abraxa, e ridusse coloro che l’abitavano da una vita rozza e villesca a questa foggia di vivere umano e civile, nel quale vincono quasi tutte le generazioni degli uomini; preso in un tratto il luogo, tagliò quindicimila passi di terreno col quale era la Utopia continuata a terra ferma, e la fece isola. Ed avendo astretto a tale opera non solamente quelli dell’isola, ma i soldati suoi ancora, con tanto numero di uomini, in brevissimo tempo fornì tale impresa, lasciando stupiti i vicini popoli, i quali di questo prima ridevano. Sono nell’isola cinquantaquattro città grandi e magnifiche di medesima favella, istituti e leggi, e quasi all’istesso modo situate, quanto il luogo ha permesso. Le più vicine sono scostate una dall’altra miglia ventiquattro; ma niuna è tanto lontana dall’altra, che non vi possa andare un pedone in un giorno. Tre vecchi cittadini e prudenti di ciascuna città ogni anno concorrono in Amauroto1, la quale per esser nel mezzo dell’isola, e a tutti comoda, è tenuta la principale, ed ivi trattano delle comuni bisogne dell’isola. Ogni città non ha meno di ventimila passi di terreno d’ogni intorno, ed alcune più, come sono più scostate una dall’altra. Niuna brama di ampliare i suoi confini riputandosi gli abitanti piuttosto lavoratori dei campi che tengono, che padroni. Hanno per le ville acconciamente le case, di ogni instrumento campestre fornite: in queste vanno ad abitare i cittadini a vicenda. Niuna famiglia rusticana ha meno di quaranta persone, oltre due villani. Ad essa è preposto un padre ed una madre di famiglia per età e costumi ragguardevoli, e ad ogni trenta famiglie dassi un capo. Tornano nella città ogni anno venti di ciascuna famiglia, i quali sono stati in villa due anni. In luogo di questi vengono altri venti dalla città, perchè siano nelle opere villesche ammaestrati da quelli, che per esservi stati un anno, sono di tali opere più esperti; e l’anno vegnente ammaestrino gli altri, a fine che non si trovino tutti del lavorare i campi ignoranti, e nel raccogliere la vettovaglia non commettano errore. Benchè questa foggia di rinnovare gli agricoltori sia solenne, acciocchè niuno sia astretto di continuare la vita rusticana più lungamente; nondimeno molti, dilettandosi dell’agricoltura, impetrano di starvi più anni. Gli agricoltori coltivano il terreno, nodriscono gli animali, apparecchiano le legne, e le portano alla città per terra o per mare, come viene loro più in acconcio, fanno nascere con mirabile artificio un’infinità di polli, senza che covino le galline, ma con un caldo proporzionato, e come madri gli accompagnano e governano. Nodriscono pochi cavalli, e feroci, dei quali si servono solamente per lo imprese che si fanno a cavallo; perchè ogni fatica di coltivare e condurre le cose loro fanno con opera dei buoi, i quali benchè siano più lenti che i cavalli, tuttavia sono alla fatica più pazienti, e meno soggetti alle infermità: oltre che riescono di minore spesa, e quando più non vagliono alla fatica, si possono mangiare. Usano di seminare solamente il frumento, bevono vino di uva, di pomi o di pera, ovvero l’acqua pura, che talvolta cuociono con miele o liquirizia, della quale hanno copia. E quantunque sappiano quanta vettovaglia si consuma nella città e nel contado, nondimeno seminano di più, per darne ai vicini. Ogni istromento richiesto all’agricoltura si piglia nella città dai magistrati, senza costo alcuno; e molti la concorrono ogni mese alle feste solenni. Quando è tempo di tagliar il frumento, i preposti dei lavoratori avvisano i magistrati quanto numero di cittadini si debba mandare, e concorrendovi tutti a tempo, in un giorno sereno quasi tagliano tutto il frumento.


  1. E’ varrebbe città mal nota od oscura, stando alla greca significazione.

Note

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