< L'Utopia e La città del Sole
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L'Utopia (1863)

PREFAZIONE





Tra i segni più espressi dell’altezza dell’ingegno e della grandezza dell’animo si è la fede nell'umanità, nel suo progresso, nel suo migliore destino, quando i passaggieri rappresentanti di que’ suoi gruppi che si chiamano Stati o culti rispondono agli aneliti, alle speranze del bene con le prigionie, coi tormenti, co’ roghi. Il Condorcet che rifuggendo nella morte dalle persecuzioni di quella repubblica ch’egli s’era augurata e avea dato mano a edificare, scrive il libro delle profezie dell’umana perfettività, è ammirabile come Campanella, che tra ineffabili strazj e non mica nei giardini di Academo come Platone, sogna la Città del sole; Tommaso Moro, morendo per la sua fede, non rinnegò l’Utopia; mostrò anzi la sua ferma credenza esservi un luogo, al cui esempio dovea venirsi mano mano formando quello ch’ei non trovava ancora in terra. Il più sublime ideale è quello della perfezione umana. La diversa posizione di quest’ideale non fa caso. Se alcuni credono che

Lo secol primo quant’oro fu bello

ed altri che l’aurea età c’è in cospetto, se in alcuni è un rimpianto, in altri una speranza, non fa caso. È sempre un ideale acquistabile o racquistabile; i grandi spiriti che l'affermano col martirio dell’intelligenza, o col sagrificio della vita, sono i veri precursori della redenzione sociale.

Noi diamo qui insieme il Moro e il Campanella; il riformista un po’ fantastico, e il comunista strettamente logico. Aggiungiamo uno scherzo del Gozzi, che mostra come anche ai più scapati baleni l’idea del perfezionamento degli ordini e della vita sociale; eterno fantasma, che ricompare come il padre di Amleto, narrandovi del veleno stillatogli nell'orecchio, ma che uccidendolo non gli tolse nè la vita spirituale, nè il modo di vedere le sue vendette.

L’Utopia uscì a Lovanio nel 1516 l’anno innanzi all’insorgere di Lutero contro Roma, e un cinque anni innanzi all’apparire degli Anabattisti.

L’Utopia era una specolazione filosofica, ma le teorie sociali escon dai libri e s’approntano a battaglia. Così ai di nostri i sistemi di Fourier, di Cabet, di Blanc combatterono le giornate di Giugno. Non vogliam dire che gli Anabattisti procedessero dal Moro, ma che procedevano da quell’ordine d’idee di rinnovazione sociale, eccitate dai disordini ed abusi del tempo, e fomentate dalla rinnovazione religiosa, ordine d’idee, onde il Moro fu il precursore e l’oracolo.

Utopia, dice il Sudre, che in parte seguiamo nel nostro giudizio, pare vocabolo formato da due parole ou-topos, letteralmente non luogo; in nessuna parte. — L’isola d’Utopia significa dunque l’isola che non è in nessuna parte, il paese immaginario. I riformatori seguenti presero da questo libro il nome, ed in buon dato le idee; le censure dell’ordine sociale, le declamazioni contro la proprietà, le pitture delle miserie dei proletarj, gli encomj della vita in comune, i mezzi d’organizzazione.

Il Sudre nota che il concetto dell’Utopia si parte a quattro fini: alla censura dello stato dell’Inghilterra e della politica dei principi contemporanei; alla censura del principio della proprietà individuale; al disegno d’una società fondata sul principio della comunanza; all’esposizione di un sistema di politica esterna, applicabile all’Inghilterra indicata sotto al nome trasparente di Utopia. Diverso da Platone il Moro abolisce la proprietà, non la famiglia.

Allo schema generale s’intrecciano molte riflessioni e quasi divinazioni bellissime. Egli impugna l’abuso della pena di morte prodigata ai ladri, ed anticipando gli Enciclopedisti francesi e il Beccaria mostra l’inefficacia dell’atrocità dei supplizj. Predica la tolleranza religiosa, sfata la nobiltà del sangue e deride l’astrologia giudiciaria. Enrico VIII non s’impermalì dell’Utopia; lo mandò poi a morte per altro; ma gl’Inglesi lasciarono volentieri il campo libero al pensiero filosofico nelle riforme sociali, sapendo che il paese non se ne appropria e assimila il meglio che a poco a poco e come per un processo fisiologico; essendo più o meno sicuri dei miglioramenti ideali, a suo tempo, quando siano effettuabili. Non consentono pari libertà al pensiero filosofico, nelle cose di religione, essendochè per un instintivo timore sentono che la discussione potrebbe far crollare la Chiesa.

Dando ad Utopia il senso corrente, parrà che questo vocabolo si aggiusti meglio alla Città del Sole, che al libro del Moro. È un fatto che l’ideale trae i suoi fili e colori dall’ambiente in cui si sogna; e pertanto l’ideale politico del Campanella esce dai chiostri, e quello del Moro dalla vita inglese. La libertà britannica è il portato dei secoli, e non s’è svolta rapidamente e pienamente che da Guglielmo III ai nostri giorni; ma i germi erano grandi e fecondi anche sotto gli arbitrj di Enrico VIII, e soprattutto sussisteva l’energica e indipendente natura inglese, onde il Moro è sì possente germoglio. Pertanto egli ha un telaio quasi rettorico e un contenuto filosofico; mentre il Campanella ha un telaio filosofico e un contenuto quasi rettorico. Del cancelliere inglese molte idee son passate nella vita politica; del frate calabrese non sappiamo che sopravviva nel progresso civile, sebben molto sopravviva nel movimento della vita filosofica.

Quando Enrico VIII, ribellatosi al Papa, si pentì d’averlo difeso con un libro contro Lutero, voleva girare al Moro quel suo rimorso; ma il zelante cattolico dichiarò non avervi fatto altro che dargli ordine, disapprovando anzi l’indefinita ed assoluta superiorità che si dava al pontefice nelle cose del regno. Egli restringea questa superiorità alla religione; ma in tal punto il suo fervor naturale, lo stomaco delle libidini di Enrico, i pericoli dell’eresia, che già si mostrava, quale col lungo andar del tempo divenne, rivoluzione sociale; le picche e gli urti della contraddizione, lo trassero in teoria ai furori del De Maistre; e a giudicar dalle sue parole non si sarebbe astenuto dal sangue degli eretici — Molti uomini discreti e imparziali lo misero pertanto, sulla sua fede, in voce di persecutore; senonchè il Nisard, con una bella e fondata discussione, lo purga dalle accuse e prova con le parole stesse del Moro, non viste forse dagli accusatori, che egli non fece quel passo, sì facile ai fanatici, dalla penna alla scure. Nel fine della sua apologia egli disse: E di tutti quelli che mi vennero mai a matto per delitto d'eresia, nessuno, e ne chiamo Dio in testimonio, ha da me ricevuto altro male che esser rinchiuso in luogo sicuro — nè tuttavia si sicuro che Giorgio Costantino singolarmente, non sia riuscito a fuggirne; — se ne levi ciò, io non ho dato a nessuno nè flagellazioni, nè battiture, e neppure un buffetto in fronte. “Else had neuer avy of them any stripe or stroke give them, so muche as a fylippe on the forehead” E più innanzi — In quanto agli eretici, io detesto le loro eresie, e non le loro persone, e vorrei con tutto il cuore che l’une fossero distrutte e le altre salve. Confessione credibile ad un uomo, che affrontò la morte di sì gran cuore e si buon umore, e che fu veramente il rovescio di quei cattolici, che presero poi a difendere la Chiesa dall’eresie col sangue e le falsità.

Il Moro fu non senza ragione comparalo a Socrate per la sua ironia nella vita e nella morte. Notevole è che egli era un uomo timidissimo e un buffetto in fronte gli facea paura: e tuttavia scherzò nel salir lo scaleo del patibolo, ed eziandio nel por la testa sul ceppo. Com’egli apparecchiò i suoi all’ultima sventura, con isgomenti, direm così graduali, e repentini avvisi di rovina imminente, facendo in mezzo ai desinare picchiar alle porte e dire che la giustizia il voleva, così rerto apparecchiò sè stesso meditando e facendosi famigliare la morte. V’ha un tempo in cui dall’un lato imperversa la ferità del sangue; e dall’altro sorge un coraggio indomito e faceto contro l'atrocità de’ carnefici, che finirebbero a smettere, non per sazietà nè per istanchezza, ma per non essere più burlati. — In questa parte di costanza, di coraggio, di lepore il Moro è un esempio immortale, e non v’ha supplizio, che più del suo, renda odioso Enrico VIII, tiranno sì odioso per quel misto di crudeltà e lussuria, ch’è il colmo della perversione umana.

Gli ultra-cattolici non riuscirono a guastarci Tommaso Moro: è tutto dire. I nuovi farisei prendono tutti i gran personaggi della storia, e se nei tempi di fede, furon ferventi cattolici, te gli stemperano nelle loro amplificazioni e declamazioni per farne onore alla Chiesa. Quello, per atto d’esempio, che in Colombo fu genio, siffattamente conscio e invasato di divinità, che ne spandeva fuori l’ardore, fiammante quasi come l’estasi di santa Teresa, si converte per loro in una stupida ossequenza di monaco. Così il cordone di S. Francesco, che forse cinse Dante ne’ suoi ultimi giorni, equivarrebbe alla disciplina del primo contadino che porti cocolla. Quello che in Tommaso Moro fu sentimento di rettitudine indomato, di fede sincera, si volge da loro alle fastidiosaggini del pinzochero odierno, che lascia i fili della sua coscienza o della sua vita a mano dell’avido confessore. Tommaso Moro fu grande non perchè si avvolse pei dumeti delle controversie e pratiche religiose, supplizio assai vicino a quello di Regolo, ma perchè ebbe, oltre il sapere, la fede del diritto, del progresso umano, e restò invitto a quelle transazioni di coscienza, onde i moderni farisei sgarano gli antichi casisti.

Curioso è che i cattolici lo vollero d’origine italiano. Il P. Domenico Regi, che nel 1681 ne stampò in Bologna una vita, scritta secondo il gusto di quella età, assevera tanto più volentieri aver preso questa fatica in quanto che “afferma, egli dice, personaggio di eminente grado e di rara erudizione, aver certezza ne’ suoi copiosi scritti, che soggetto degno di Casa Moro, già per suoi affari da Venezia solcò a Londra e presavi consorte vi propagò la sua nobil famiglia; quindi in Venezia si ha il nostro Moro per origine sua patrizio e nepote del duce Cristoforo Moro, che nell’anno 1464, con armata poderosa condottosi ad Ancona, insieme col pontefice Pio II si accinse a debellare la superbia ottomana, quando vi fosse concorso il divino volere, e forse di qua siegue che in Inghilterra non si reputò molto antica la famiglia Moro.” Di questo lavoro curioso e rappresentativo de’ tempi caviamo alcuni tratti della leggenda del Moro e prima de’ prognostici di sua futura grandezza.

Riposando la madre di esso gli sembrò di rimirare nel suo anello sposalizio, due figli, ch’era per generare, il primo assai oscuro, e fu un aborto, e l’altro a guisa di stella, che spiccandosi dall’alto, se ben minuta sembrava, avvicinandosi poscia così vasta, e risplendente appariva, che non solo la casa nativa, e la patria, ma gran parte dell’universo illustrava. Oltre di ciò consegnato alla nutrice il bambino, mentre sopra d’un destriero in una prossima villa si conduceva, al passar d’un torrente, che per la pioggia caduta era oltre del solito enfiato, si trovò quella col caro pegno in evidente pericolo di sommergersi; quindi dubbiosa nel suo spavento, preso audace partito di avventare dall’altro margine il tenero fanciullo; e sviluppata poi correndo a ritrovarlo, quando si pensa mirarlo mal concio per la percossa si avvide, che come dall’angelo tutelare riservato sopra de’ sterpi giaceva in atto d’invitarla di bel nuovo ad arrecarselo in seno. Ottime sono le acque, disse Pindaro, ma più sempre furono tali in favor degli eroi! Mosè bambino dal Nilo, e Romolo dalle acque del Tebro furono a miglior sorte salvati; il tenero Abide, al contar di Giustino, preservato dalle acque, in cui fu il bambino quasi sommerso, venne riservato al dominio del regno paterno di Spagna.

Vediamo come il Regi ne narri la decollazione.

Venuto pertanto il giorno di mercoledì, circondato da ministri della corte, venne avvisato esser l’ora di condursi ad effetto la sentenza. Sì amici, rispose il Moro, ubbidisco di buona voglia, andiamo col nome di Dio; e prendendo nelle mani l’imagine del Salvatore crocifisso, disse: essendo voi Signore con me, di che cosa io devo temere? ed aggiungendo uno degli astanti, che doveva farsi animo, proferì quel detto: Causa bona est, bonus Dominus, bona Crux, bona spes est, et cur non animo me iuvat esse bono? condotto nella gran piazza della Rocca di Londra, prossimo all’elevato palco, a cui si ascendeva per molti gradi, a causa della sua debolezza, diffidandosi di condurvisi, disse, pregando un giovane che all’aspetto impallidito, e lacrimoso, lo credeva di benigno genio: Vi prego figliuolo a farmi per carità un poco d’appoggio, finchè colà su io arrivi, che circa poi al discendere, altri se ne prenderà la cura; così allegro, confidato nella sua buona coscienza, scherzava, e direbbe il morale: Iocabatur miseriis, in quibus iocari debuisse quis nescit? potuisse quis credit? Pervenutovi, salutò con volto sereno il molto popolo presente, che con silenzio e mestizia, a lui parimente inchinandosi, diede segno del dispiacere che sentiva, vedendo così maltrattata l’innocenza. Alzò poscia il Moro la voce intrepida. Signori, alti ed impenetrabili sono i divini giudizj; necessariamente uno deve essere il termine di noi mortali, quale e come si sia non importa; purchè sortisca in grazia di Dio; per pietà pregatelo che riceva in pace quest’anima, ed io dall’altra parte lo supplico a render sempre felice il re nostro e tutti voi. Voltatosi al ministro di giustizia, che al solito gli chiedeva perdono prontamente gli donò un angelotto d’oro, ad imitazione d’illustrissimi martiri, come che volesse rimunerare il benefizio, che ne attendeva. Impetrato un poco di tempo, si diede a recitare genuflesso alcune delle sue solite preghiere, ed alzando un poco più la voce, poi disse: Suscipe Christe Jesu animam confintem tibi, et pauperis tui ne obliviscaris in finem: Domine non confundar, quoniam invocavi te: ed inchinatosi sotto del duro ceppo, fu separata quella preziosa testa dal busto. Così partì da questa valle di miserie l’anima benedetta; nè solo da tale spettacolo partirono sconsolati gli astanti, ma in ogni parte di quella città, del regno, altro non si udiva che doglianze per tanta perdita. Vi è chi ha scritto, che l’istesso Enrico Ottavo non si rattenne dalle lacrime, e che voltato alla mal nata Bolena: per tuo riguardo, disse, sono astretto a lordarmi col sangue più degno che avesse il mondo: e ch’ella sorridendo, rispondesse, di tal carato al certo non era quello del Moro; e portatisi nella Galleria dove si conservavano i ritratti degli antichi e moderni uomini segnalati; mirandovi fra quelli l’effigie del Moro, maestrevolmente colorita da Giovanni Olbein fiammingo, inclito artefice; ohimè, disse la crudele, par tuttavia ancor vivo costui sopra codesta tavola, ed ordinando che si levasse dal posto, perchè se ne andasse in pezzi, l'avventò dagli alti balconi del regio palazzo. Ma ancorchè alquanto malconcio cadesse quel degno e vivo ritratto, per divina provvidenza ad ogni modo fu conservato, ed ora qual prezioso tesoro si custodisce in Roma nella nobile ed antica casa de’ signori Crescenzj, disponendo il Cielo che nella città capo del mondo sia riverito l’aspetto di quel Prode, che per la fede della santa romana chiesa così nobilmente sacrificò la sua vita.

La commossa e divota famiglia del Moro, era stata tutto quel giorno in sante orazioni, pregando felice transito al suo buon Padre, e l’intrepida Margherita, scorrendo per le chiese, faceva elemosine anche per il medesimo intento. Certificata poi essere già il tutto eseguito, mentre si trovava assai lungi dalla sua casa, si rammaricava di non aver sopra danari, per comprare la tela da involger le membra del suo morto genitore, e sottrarle così quanto prima ai strapazzi, ai quali per molti giorni era stato sottoposto il sacro corpo del venerabile Fisherio; ma animata dalla matrona, che l’accompagnava, che ben avrebbe avuto credito a doverla pagar poi; entrava in una bottega, ed avendola scelta, mentre si accingeva a scusarsi, per non aver la moneta, che si richiedeva per il prezzo, a caso movendo la tasca sentì che risonava, e mirandovi dentro trovò esservi per appunto tanta quantità di denaro, quanto che si era pattuito, e da questo evento assicurata con pia arditezza asceso il palco, e baciato. Il petto dell’estinto padre, aiutata da altri ve l’involse, e condusse con ogni sicurezza, senza che vi fosse chi contraddicesse, a dargli sepolcro.

Ci piace poi troppo l’esaltare il nome italiano, ovecchè il troviamo rispondere tra gli stranieri, perchè non tragghiamo dal Regi la lettera che prima di morire il Moro scriveva al Bonvisi lucchese, sì gloriosamente benevolo e soccorrevole al martire insigne.

Seppe poi il Moro che i suoi beni non solo erano andati in sequestro, ma incorporati al regio erario, onde la sua famiglia con molto incomodo penuriava, ma ebbe anche notizia, che sopra di quella caderono benigni effetti della provvidenza divina, mentre che veniva provveduta dalla liberalità di un caro amico fedele di molti anni e nostro italiano. Fu questo Antonio Bonvisi, nobile di Lucca, che come dovizioso e di grande ingegno, possedeva rilevante ragione di negozj in Inghilterra, e particolarmente in Londra, e per le conformità de’ costumi, e dei studj eleganti, mantenne in ogni fortuna scambievole amicizia col Moro, quindi con profusa cortesia dava mano a soccorrere la di lui famiglia ed a forza di donativi, faceva penetrar nelle carceri preziosi rinfreschi al caro amico. A così buon cavaliere s’ingegnò al meglio che gli fu concesso render grazie con lettere, e poco avanti della sua morte di questo tenore gli scrisse.


Sopra ogni altro meritamente amico mio carissimo.


Già che l’animo mi predice (benchè possa abbagliarsi, chi è solito d’indovinare) che poco più mi sarà permesso di potervi salutare, scrivendo; ho risoluto per lauto, essendovi l’occasione di farlo con questa mia.

Quanto conforto io riceva in questa totale rivolta e desolazione delle mie cose, dalla lieta considerazione della vostra costante amicizia, mentre che essendo in mio riguardo, tolta ogni via di poter rendere la pariglia: voi ad ogni modo, al conculcato in un cantone, al carcerato ed afflitto vostro Moro continuate a portare ogni più sviscerato affetto, e favore: Io, signor Antonio, sopra ogni altro mortale a me carissimo, mentre che altro non posso, umilmente supplico Dio ottimo massimo, che così cortese vi dispose al mio aiuto, e ad obbligare a tal segno un debitore, che non sarà giammai abile a soddisfarvi, per codesta vostra profusissima munificenza, a concedervi ogni più durevole felicità; ed a riceverci, dopo di questo miserabile, e procelloso secolo, nel suo beato riposo: dove non vi sarà più uopo di scriver lettere, nè saremo rattenuti dalle mura, nè fiano più i nostri dolci discorsi impediti dal carceriero: ma col divino Padre increato, e coll’unigenito di lui signor nostro Gesù Cristo, e con lo Spirito Santo, che d’ambidue procede, pienamente goderemo le sempiterne allegrezze del paradiso, per il cui desiderio disponga l’onnipotente Dio, che a voi, a me, e a tutti gli uomini ogni dovizia di questo mondo ed ogni più vana pompa, anzi questa vita fugace sia in totale disprezzo. O degli amici il più fedele, e come per mio pregio dir soglio, dolce pupilla degli occhi miei, vivete con lieta salute; e la famiglia vostra che parimente sopra di me autorità signorile, proseguisca pur sempre di bene in meglio.

Tommaso Moro, sia superfluo aggiungere, vostro, essendone voi più che certo, avendomi comprato con tanti benefizj; e poi son di tal condizione, oggimai che poco o nulla rileva notare di chi mi sia, ecc.»

Ed al certo così pio signore, quale fu il Bonvisi, per la liberalità usata col Moro e con gli altri perseguitati cattolici, non solo nella sua persona ebbe gran rimunerazioni da Dio; ma perciò benedetta la sua nobile prosapia venne a risplendere con le sacre mitre, e con degnissime porpore vaticane, che tuttavia pur durano con decoro.

Pietro Giordani, uomo letteratissimo e di gusto sicuro, disotterrò questa versione dell’Utopia e Vincenzo Ferrario la pubblicò in Milano nel 1821. Noi diamo la sua lettera; non diamo il sunto della vita del Moro, che ei consigliò, sebbene fosse compilato da Giuseppe Montani, scrittore di gran giudizio e valore. E la ragione si è che non ha nessun pregio singolare di pensiero o di stile, e le notizie che contiene si posson trovare da per tutto; anzi assai vantaggiate dalle ricerche ed elaborazioni moderne. Lasciamo anche la dedicazione del Doni a Gerolamo Fava, non contenendo che frasi di complimento al dedicatario o al libro, assai comuni ed insignificanti.

Rispetto all’Utopia seguimmo l’edizione del Ferrario, riscontrandola al bisogno col testo latino. Quanto alla Città del Sole e alle Questioni dell’ottima repubblica, la seconda edizione di Lugano (tipografia della Svizzera Italiana, 1850), tenendo anche sott’occhio la materiale ristampa del Pomba, Torino 1854. Se non che, ne’ nostri dubbj ricorrendo al testo latino della Città del Sole, ci vennero corretti parecchi luoghi, che non istaremo ad accennare, perchè ai lettori comuni non importerebbe, e i periti vedranno da sè che se ci manca l’ingegno, ci abbonda il buon volere; senza però far romore o sfarzo di quello ch’è debito d’ogni editore.

Dicemmo esser al tutto materiale la ristampa torinese di questi due opuscoli; ma non perciò pretendiamo scemar pregio alle fatiche dell’editore sig. Alessandro D’Ancona, che esordì giovanetto con un lavoro ampio di studj e d’intenti, e fu presagio di quel credito ch’egli ora con erudite e fine elucubrazioni va confermandosi e ampliandosi ogni dì tra i letterati.

La Storia del reame degli orsi del Gozzi l’abbiamo ricopiata dalla ristampa veneta dell’Alvisopoli del 1830, tratta da una gazzetta settimanale intitolata Il Sognatore italiano pubblicatasi in Venezia in soli 18 numeri dal dì 21 maggio al dì 17 settembre 1768 per le stampe del Colombani.

Della vita e dell’opere è il titolo ambizioso che si suol preporre alle ristampe da coloro

Che come il fantolin corre alla mamma


si attaccano alla veste de’ grandi per esser visti in lor compagnia; titolo che servì di frasca a vino sì allungato o corrotto che molti saltano a piè pari il discorso e ricorrono altrove. — Nuova ciarlataneria e sofisticazione letteraria. — Un povero erudito raccoglie testi, li discute, gli ordina, gli spiega; ed ecco che uno digiuno di studj e affamato di lodi, sotto pretesto che l’erudito non è leggibile, lo spolpa, e ne fa un ammorsellato pei lettori mondani, i quali tuttavia troverebbero piú digeribile e gustoso il primo lavoro, che la racconciatura o sconciatura dell’eloquente ladro. È quasi il supplizio di Crasso. Ci cacciano giù in gola del piombo fuso e poi ci chiedono schernendo

Dicci, che ’l sai, di che sapore è l’oro.

Altri dal libro stesso cavano materia a lunghi scilomi; ma rivolgendo i noti versi, si potrebbe dire

Che diavolo hanno in corpo questi bruchi

che sempre mangiano cose delicatissime e filano noia?

Se i lodati annoiano, gli oscuri darebbero una noia che si potrebbe appareggiare all’asfissia. Or noi non ammasseremo il carbone per questo misfatto, che tornerebbe poi ad un suicidio. Dicemmo buonamente le ragioni del nostro lavoro, e ci scuserà il non aver potuto farne di meno. Se poi in cambio della penna dell’agnolo Gabriello trovano dei carboni (eccoci di nuovo al carbone) non faremo uno sproloquio come quel frate trincato per esaltarli, nè ci faremo pagare i crocioni che insudiciano per amuleti che salvano.




Carlo Téoli.


Lettera di Pietro Giordani a Vincenzo Ferrario.


Voi l’anno passato ristampaste un’operetta di Erasmo, la quale fu veramente necessaria ne’ suoi tempi, e tuttavia si mantiene in credito per la fama dell’autore; ma poveri noi se non fossimo andati tanto innanzi da avere per inutile oggidì quell’Elogio della follia. Non prendereste a ristampare un’operetta egualmente antica, molto più elegante, utilissima all’età nostra e scritta da un ingegno non minore di Erasmo, amicissimo a lui per tutta la vita, e più di lui pratico nelle cose del mondo e faceto non meno di lui; un’operetta di un gran ministro di stato e di un martire? Io vi propongo e vi consiglio di ristampare l’antica traduzione italiana dell’Utopia di Tommaso Moro gran cancelliere d’Inghilterra. A me pare che sia onor di Milano ch’ella fosse qui stampata latina nel 1620 dal Bidelli, e dedicata a don Giulio Arese presidente del Senato. Mi pare che sia onor d’Italia che noi la traducessimo prima che i Francesi; i quali per verità più volte poi la tradussero. Il volgarizzamento italiano che io conosco è stampato in Venezia nel 1548: e mi apparisce, a molti modi del favellare, opera di un veneziano, benchè pubblicato da Antonfrancesco Doni fiorentino. E perciò converrebbe che nel riprodurre quell’antica stampa, si avesse innanzi l’originale, per renderla più esatta e conforme.

Certo i dotti italiani conoscono le gloriose fatiche e la fine immatura e gloriosa di Tommaso Moro: ma perchè un tant’uomo sia più noto anche agl’italiani meno letterati, mi piacerebbe, che innanzi a questo suo libretto faceste andare una notizia cavata da quelle memorie che nel 1808 si pubblicarono in Londra con altre opere di lui: di che diede sette estratti la Biblioteca Britannica di Ginevra del 1809. Sono in quegli estratti molte cose, che si possono benissimo tralasciare: ma tanto se ne può prendere da formarne buon ritratto di quel grande e celebre uomo. Nol chiamerò infelice; poichè egli pur senza lamenti si lasciò togliere dal tiranno la vita: e la coscienza delle insigni virtù, e la speranza de’ premj eterni lo tennero contento e lieto vivendo; e la fama che gli mantiene gloriosamente vivo dopo tre secoli il nome, gli compensa quell’avanzo d’anni senili, che la tirannia gli rapì.

Credo che pochi oggidì leggano l’Utopia; e vorrei che la leggessero molti. Vorrei che si considerasse come siano antichi certi concetti, che oggi alcuni esaltano, ed altri disprezzano, come nuovi. Vorrei che fosse notato con quanta amabile disinvoltura una mente profonda sappia trattare le materie più gravi; e con poche parole, quasi da scherzo, persuadere molti documenti utilissimi. Vorrei che si vergognassero, o almeno fossero svergognati e si confondessero, quegli odiosi, che de’ mali pubblici non pur vivono ma trionfano; e poi insultano alle querele dell’universale e a’ sospiri dei buoni, deridendo come pazzia di teste deboli, e malinconiche, e inesperte del mondo, e incapaci della politica, il desiderare che l popoli possano vivere con tali fatiche e sventure che sieno inevitabili e tollerabili alla natura umana, e non debbano invocare come unico rimedio il morire. Un Tommaso Moro, già esercitato in molte ambascerie, poi innalzato all’amministrazione di un gran regno, non credette indecente a un ministro il filosofare; non credette ridicolo in un uomo di Stato il riprendere pubblicamente come abusi alcune usanze, le quali con danno di moltissimi profittano a pochi; il mostrare necessarie e non difficili alcune riforme che sarebbero utili a tutti. Quando il gran cancelliere nel 1506 proponeva nella sua graziosa Utopia il modello di un virtuoso e felice Stato, era si può dir barbara l’Inghilterra: e fra quella tanta ferocia fa stupore la saviezza e la gentilezza del Moro. Ora dopo trecento anni niuna parte di Europa è tanto proceduta nel viver civile che non possa riconoscerne quasi nuovi e tuttavia assai lontani gli elementi in quel libretto. E pur troppo si rimarrà (chi sa ancora per quanti anni o secoli) nella estimazione di un romanzo. Ma in tanta importunità di romanzi di vani amori, e di strane e di sciocche avventure, che tuttodì si stampano e si leggono, speriamo che tra gl’italiani non debbano mancar lettori ad un antico romanzo di pubblica felicità. State sano; e stampate più che potete de’ buoni libri; e il men che potete de’ cattivi.




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