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Un'escursione notturna
L'avvenire della gioventù italiana Collegio o famiglia?

UN’ESCURSIONE NOTTURNA1


I monti al lume di luna. — Armonie della notte nei boschi. — Al mulino rovinato. — Storia dell’annegata. — Il canto del carbonaio. — Arrivo all’Orsigna.


A
llor che lasciammo Pracchia e ci mettiamo in cammino, era già buio; si pena poco a far notte in quelle gole di monti: però la luna sarebbe presto apparsa ad illuminare quelle selve e il nostro viaggio, e già vedevamo dietro di noi, sulle vette dell’Appennino verso

levante, un chiarore estendersi sempre più per i campi del cielo ritornato sereno.

La via, una via di montagna, subito fuori del paese è ripida e sassosa; ma poi, svoltato il fianco del monte, si fa, direi quasi, facile e piana internandosi nella valle e scendendo con lieve pendio sino all’Orsigna, torrentaccio grosso, largo, ciottoloso, che si affretta verso il Reno bolognese, poco lontano. S’immagini però come fosse diventata quella straducola del paese alla svoltata del monte in quelle tre ore di pioggia venuta giù a catinelle! Tutta la terra portata via, e lasciati scoperti i ciottoli grossi e fitti...

Si giunse al fiume: non v’era stilla d’acqua; il greto se l’era bevuta tutta come una spugna. Un ponticello l’attraversa, e noi ci ponemmo a sedere sulla spalletta.

Che spettacolo bellissimo, sorprendente si presentava ai nostri occhi! La natura in tutta quanta la sua maestà ci appariva in quelle forme fantastiche e strane di montagne, che intorno a noi levavansi al cielo colle loro ombre, coi loro burroni, colle frane biancheggianti. La luna, sorta allora allora sull’orizzonte, illuminava quella scena solenne. A destra i monti dell’Orsigna fino all’irta e nuda Portafranca, a sinistra i fianchi vestiti lussuriosamente del monte Grosso fino all’Uccelliera grande, maestosa, dalla cresta sublime, ornata di prati e di pascoli; nel mezzo l’Orsigna simile ad ampio stradone che salga nel più interno della valle fra due filari giganteschi di castagni. Non un grido, non un buffo di vento, non un rumore qualunque rompeva la quiete profonda;, nulla che ci facesse accorti come quelle solitudini fossero ricovero d’esseri umani, salvo una colonna di fumo denso, biancastro, che usciva lontano lontano da folto bosco a mezza piaggia, sulla nostra sinistra; era una carbonaia.

Ma tendendo l’orecchio e facendosi più che mai attenti, sembrava venisse da tutte parti un rumore incognito, indistinto; pareva ronzio d’insetti, sussurro lieve di vento tra fronda e fronda, murmure di rigagnoletto che cadesse sopra un ramoscello di foglie di castagno, e talvolta percoteva le orecchie come onda sonora di remota armonia trasportata a folate, o di grida di migliaia di combattenti di là dai monti. E, quanto più si stava in orecchi, tanto meno ci si poteva render ragione di quei rumori, che di giorno non si sarebbero potuti avvertire.

Erano le armonie misteriose della natura, le voci arcane della montagna, che destano nell’animo un sentimento non mai provato; sentimento che ha del timore e del piacere, della mestizia e della dolcezza ad un tempo. Ora il trovarsi in quelle solitudini, senza un comignolo di tetto o la punta di un campanile in vista, fa nascere nel cuore un non so che somigliante a paura e si cerca la via più breve per ritornare fra l’abitato; ora quella calma notturna dei boschi e dei monti ci alletta ed incanta e non si vorrebbe mai più vedere faccia d’uomo e, sto per dire, raggio di sole, tanto è piena di delizie quella solitudine alpestre, quella notte al lume di luna. Chi dall’alto di una montagna, o sotto l’ombra di antica foresta spinse rocchio ad ammirare i dorsi dei monti sottoposti, le profonde vallate, e tese l’orecchio a raccogliere le mille svariate voci della deserta campagna, dica se una notte su’ monti non sia un poema!

Ripigliammo il cammino sulla destra del fiume, salendo e scendendo, lungo la costa franosa. Il carabiniere più vecchio, un buon uomo di Cuneo, ci narrava la trista vita menata in Calabria, quando i briganti ne popolavano i monti e le boscaglie, e faceva i confronti colle selve ed i burroni dell’Orsigna, vero asilo di pace e di quiete: dicea delle lunghe e stentate marce notturne, col sospetto sempre di sentirsi arrivare una palla senza saper da che parte, o vedersi stender morto ai piedi un compagno, nè scorgere il ladrone che l’aveva atterrato. Per lui quelle gite di servizio da Capo di Strada presso Pistoia sino alle vette dei monti dell’Orsigna erano passeggiate dilettevoli: camminava, diceva egli, in terra di cristiani.

Nel mille o poco dopo, tutta quella parte d’Appennino che forma nel fianco orientale dell’Uccelliera un profondo avvallamento, percorso dal torrente che vedevamo giù a poco tratto da noi, apparteneva col nome di Alpe Ursina, nota per saporiti pascoli e selve superbe, ai conti Guidi, potente famiglia di feudatari, la quale dominava su molte terre e castella della Toscana dalle valli della Sieve a quelle dell’Arno inferiore, dalle sorgenti dell’Ombrone pistoiese a quelle del Savio in Romagna.

Giungemmo dove un torrentello cascando da una balza attraversa il sentiero e va giù a perdersi fra i ciottoli dell’Orsigna. Allora poverissimo d’acqua, in certi tempi doveva ruinare quale impetuosa fiumana; e al di sotto della strada, sulla sua destra, restavano ancora non dubbi segni della sua potenza devastatrice, le rovine di una casa, forse un mulino. Gli avanzi di quelle mura annerite, cinte al piede di cespugli d’ortiche e di rovi, rischiarate allora dalla luna, ci fecero fermare a guardarle.

— Ho sempre avuto vaghezza, fin da fanciullo, diss’io, quando mi trovava dinanzi a vecchi ruderi di case o castelli, di saperne la storia, la storia de’ tempi sereni e dei burrascosi. Vi è sempre qualche cosa da imparare, e chi sa che questi quattro muri screpolati e barcollanti non abbiano anch’essi la loro piccola epopea da narrare.

— Pur troppo l’avranno, soggiunse l’amico mio. La vita su queste montagne non sarà ricca di avvenimenti strepitosi, ma neppur povera di miti e semplici affetti, tramezzati da dolori acuti, lunghi, tremendi, sì, ma senza amarezza.

— Guárdino, interruppe il giovine brigadiere; e in così dire accennava col dito un rialto di terreno in mezzo il fiume con cinque o sei grossi macigni aggruppati: due anni sono, là, su quei massi moriva annegata una povera ragazza; non aveva compito vent’anni.

Qualche cosa che risvegliava la nostra curiosità e dava maggiore spicco a quella gita notturna così povera di avventure, ci rese premurosi ad ascoltare la narrazione del brigadiere, e mettendoci a sedere sul ciglione della via che profondava nel torrente, lo pregammo a raccontarci quello che sapeva del miserando avvenimento.

Due anni fa, sulla fine d’ottobre, fu un vero diluvio: dappertutto innondazioni; si ricorderanno anche loro quant’acqua. Ebbene l’Orsigna lì fece piene straordinarie, le quali, come di solito, presto venivano e più presto se n’andavano; questo è fiume che non tiene grand’acqua neppur nell’inverno. Sulla sera d’una giornata piovosa una pastora di questi casolari, andata il giorno dall’altra parte del torrente, se ne ritornava a casa. Una pioggia dirotta l’aveva trattenuta per un paio d’ore in una casupola di suoi parenti: sull’imbrunire, smesso di piovere, disse addio a tutti e, svelta come una capretta, scese giù per certi viottoli a un punto del fiume, pel quale questi alpigiani soglion passare, risparmiando così un lungo tratto di strada che dovrebbero fare, se passassero dal ponte. Il torrente quel giorno non poteva dirsi gonfio; di qua e di là correva l’acqua, sempre torba per le recenti pioggie, ma si poteva guadare da chi, come lei, ne era pratico. La ragazza vedendo il fiume non tanto alto, quantunque fosse assai piovuto, si scalzò lesta lesta premendole di non lasciarsi cogliere dalla notte e più che altro dalla piena che non poteva star molto ad arrivare, ed entrò nell’acqua ardita e sicura come altre volte.

Se non che, fatti pochi passi, si fermò; le parve che la corrente avesse una forza non mai provata e crescesse insensibilmente. S’accorse allora che la piena non poteva esser lontana; tentò ritornare indietro, ma non le riuscì: si perse d’animo, e, gridando aiuto, con isforzo supremo giunse a quei massi e di là piangendo e disperandosi chiamava i suoi a soccorrerla. La fanciulla s’era appena appoggiata ad uno di quei macigni, sfinita di forze, che la fiumana, torba, gonfia, con suono sordo, s’avanzava rapida percotendo i massi che s’alzavano al disopra del letto e sparivano ricoperti dalle acque irrompenti. Un vecchio che da un’altura qui sopra di noi aveva veduto la piena venir giù rovinosa e la giovine entrar franca nel fiume, le gridò di non passare e le ripeteva: «Ecco la piena! ecco la piena!» Pare che la poveretta non sentisse.

Alle grida della meschina accorsero dalle due sponde parenti ed amici, ma ormai era chiuso ogni passo: solo, isolato nel mezzo, quel gruppo di massi, intorno al quale le acque si alzavano ad ogni istante cozzandovi rabbiose e frementi per ismuoverlo e trascinarselo dietro.

— Ma codesta disgraziata, diss’io, non aveva nè padre, nè fratelli?

— Aveva la madre e due fratelli; e questi eran partiti pochi giorni innanzi per la Corsica, dove molti di questi alpigiani passano l’invernata a tagliare legna e far carbone. Ormai era destino che avesse a far quella fine!

— E nessuno tentò di porgerle aiuto?

— Che vuole, le gettarono delle funi, le dissero che se le legasse alla vita, la incoraggiarono a tentare il passo che nessuno di loro aveva voluto tentare per andare a prenderla; ma la giovane non faceva altro che strillare e disperarsi. Ognuno sperava che le acque sarebbero scemate; ma quando scemarono la povera ragazza non c’era più. Intanto il buio della notte s’era fatto più fitto, l’impossibilità di scampo più grande, e la scena più lacrimevole e paurosa per le voci degli uomini che agitando dei mannetti di paglia accesa correvano di qua, di là proponendo mille cose senza farne una, confusi e storditi, e per le strida e i pianti delle donne che accrescevano la confusione e lo sgomento. La meschina, come se avesse indovinato il proprio destino, con l’acqua a mezza vita si teneva aggrappata ad un masso, e vi stette, finchè non potendo più, e il fiume crescendo, scomparve ad un tratto e non la rividero più che il giorno dopo, morta, laggiù al ponte impigliata in un grosso cesto di vetrice. La piena non l’aveva sfigurata, e, tranne di una forte ammaccatura in un braccio e qualche piccola graffiatura alle mani e alla faccia, serbava ancora intatte le belle e robuste fattezze de’ suoi vent’anni.

Se ne parlò per del tempo in questi monti di quel triste caso, chè la fine della fanciulla dispiacque proprio a tutti, e nessuno di quella gente passa di qui senza pregare per quella poveretta.

In così dire il giovine brigadiere si alzò per continuare il cammino, e noi gli tenemmo dietro non senza dare uno sguardo a quei massi fatali ed un pensiero pietoso alla povera annegata.

La via principia a salire seguendo sempre le sinuosità del monte lungo il fiume, ora ombreggiata da castagni, ora lungo ciglioni coltivati. Arrivammo ad un borghetto di case detto Le Volte; di lì al paese dell’Orsigna c’è un venti minuti di strada, la quale per lungo tratto diventa un viottolo sopra un terreno ripido e facile a smottare; d’inverno è impraticabile, e allora bisogna risalire molto più in su la montagna.

Usciti da quel mucchio di casupole, ci giunse all’orecchio, lontana ma chiara, una voce robusta di uomo che cantava. La valle dove eravamo, fatta più stretta, e le montagne quasi più alte impedivano che il canto si spandesse e diminuisse di forza e di effetto, mentre il silenzio dei boschi rendevalo più armonioso, e distinto.

Ci fermammo ad ascoltare; fino allora nessuno s’era fatto vivo e ci potevamo credere in terra di morti. Il canto veniva dall’altra parte del fiume e precisamente da una carbonaia, quella che avevamo scorta dal ponte: era una poesia semplice e schietta, nata e cresciuta fra le selve, cantata sur un’aria un po’ monotona, ma non priva di bellezza per una certa melanconia che la governava. Chiamano tali canzoni rispetti e per lo più è il canto degl’innamorati, canto che sgorga come limpida sorgente dalla ricca vena della poesia popolare, la quale senza fronzoli e ghirighori, senza concetti contorti o strani, immagini slavate o rancide, canta come il cuore, ispirato dagli affetti, va significando. Tra la rozzezza delle forme sbocciano, come fiori tra spine, pensieri gentili e pieni di grazia, espressi sempre in una lingua pura ed efficace.

Il canto diceva:

     Perchè sei nata al mondo tanto bella,
Se dagli amanti ’un2 vuoi essere amata?
Allor t’avevi a fare monachella,
Oppure in un convento rinserrata.
Una di queste due far ti conviene,
O monachella, oppur volermi bene;
Una di queste due ti convien fare,
O monachella, oppur volermi amare.

E poco appresso seguitava con questi altri due rispetti:

     T’amo per passatempo, anzi per giuoco,
Perchè davvero non ti posso amare.
È finto l’amor mio, finto è il mio fuoco,
Finti i sospiri miei, finto il parlare.
Amare ti vorrei di vero amore,
Ti giuro in verità d’ ’un aver cuore;
Se amare ti volessi in fede mia,
Ti giuro in verità ch’io non potria.
     Apri quella finestra ch’è serrata,
E fatti fuora, bianca colombella,
E nella corte c’è l’inserenata,
Ricoperta col fior della mortella.
É ricoperta col fior del limone,
E chi ti disse bella, avea ragione;

È ricoperta col fior dell’uliva,
E chi ti disse bella, non dormiva;
È ricoperta coi fior dell’arancio,
E chi ti disse bella, io son che canto.

Dopo questo, invano ne aspettammo altri: la voce si tacque e il silenzio ritornò come prima; eppure noi vi saremmo stati ad ascoltare in fino all’alba.

Ripostici in via, arrivammo in breve all’Orsigna, poche case intorno ad una povera parrocchia: traversammo un piazzaletto dinanzi la chiesa e bussammo ad un uscio, sul quale era scritto — Trattoria e albergo, caffè e liquori. — Quanta grazia di Dio!

Un’ora dopo ci addormentammo della grossa col pensiero di salire il giorno appresso la superba cima del Corno alle Scale.



  1. Quest’Escursione notturna è tolta da uno scritto inedito «Su per l’Appennino, da Pracchia alla Garfagnana, Descrizioni e Racconti». L’autore fece quel piccolo viaggio di montagna con un suo amico, e la sera, giunti da Prato a Pracchia con un’acqua dirotta, si fermarono all’albergo, dove trovarono due carabinieri di Capo di Strada presso Pistoia, coi quali si accompagnarono per andare all’Orsigna.

  2. ’Un per non.


Note

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