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L’ALCIONE.
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Al nocchier dell’Argolide che il fine
D’ingrati ozî saluta e si dispone
3Correre i porti dell’egee marine,
Dolce la melanconica canzone
Sciogli, o vago augellin, che lungo i lidi,
6Già serenati, alla miglior stagione
Sui muschi e le natanti alighe i nidi
Pensili intessi e li accomandi ai mari
9Che tante volte hai pur trovati infidi.
Anche appiè del Vesuvio i casolari
Atterrati ricerca e pon le mura
12Forse sulle ossa di sepolti cari,
Il villanel che più gagliarda cura
Avvince al suol che nascere lo vide
15E più sacro gli ha fatto or la sventura.
Piano, come cristallo, il mar sorride;
E tu sovresso il nido e della spuma
18Poco curando che il tuo dorso intride,
Con occhio immoto e con immota piuma
Osservi il pesciolin che l’esil testa
21Riscalda al sol che il pelaghetto alluma.
Mite Alcïòne! Te solinga e mesta
Di scogli abitatrice i naviganti
24Dissero un giorno: e te della tempesta
Chiamâr foriera di Parnaso i canti
Che del nembo ti dier mente divina,
27Vedovil gonna e di un mortale i pianti.
Perocchè della florida Trachìna
Presso il maliaco seno e la pendice
30Öetea ti cantavano regina
Di porpore e d’immenso oro felice;
Ma che nullo tesor ti fu più caro
33Che gli occhi vagheggiar del tuo Ceice.
Ben le ginocchia un dì ti vacillaro,
E tramortita reclinasti il collo,
36Quando il tuo sposo navigando a Claro
Per consultar gli oracoli di Apollo,
Al tuo cor si togliea che anco non era
39De’ primi baci d’imeneo satollo.
Sciro aveva trascorso; e già si annera
Il ciel tutto e fracassa arbori e prora
42Di traverso ruggendo la bufera.
Ceice colla gente il mar divora,
Ceice che con labbra moribonde
45Alcïòne, Alcïòn chiamava ancora.
Son deserte le sale un dì gioconde
D’inni e di danze. De’ suoi fati ignara,
48Pur accorata Alcïone le bionde
Chiome discioglie e di Giunone all’ara
D’inesaudita lagrima cospersi
51Doni tributa; e di sua man prepara
Bello di seta e di color diversi
Per le membra dilette un manto adorno,
54Per le membra che a’ mostri esca già fersi.
Già due fïate rinnovato il corno
Avea la luna, e la dolente a Giuno
57Chiedea con raddoppiata ansia il ritorno
Di Ceice che intanto lungo il bruno
Di Lete fiumicel colà movea
60Onde si nega che ritorni alcuno.
Allor dello stellato etra la Dea
Commiserando i lai della donzella
63Che pianti e preghi inutili spargea,
A sè l’alidorata Iride appella
E, Vanne, dice, alla magione ombrosa
66Vanne del Sonno, o mia fidata ancella;
E dilli che l’immagine dogliosa
Appresenti del naufrago consorte
69A quella abbandonata e non più sposa.
Iride entrò le tenebrose porte.
Al repente fulgor ch’empie la grotta,
72De’ lievi Sogni fluttua la coorte,
Che riversati, svolazzando in frotta
Senz’altra voce che il fruscìo dell’ali,
75Fuggon tremando ove ancor l’antro annotta.
Co’ papaveri al crin, sovra guanciali
Oscuri più dell’ebano sbadiglia
78Il domator de’ numi e de’ mortali,
Che sollevando le gravose ciglia
E sovra il sen ricadendo col mento,
81Tende l'orecchio alla taumanzia figlia.
Tu dormivi, Alcïòn; ma tratto a stento
Il tuo respir gemea; dall’egro aspetto
84Traluceva dell’anima il tormento.
Ed ecco appiè del doloroso letto,
Squallido, ignudo, ma col suo sembiante
87Starsi, orribile immago, il tuo diletto.
Di verde acqua la barba avea stillante,
Stillante il crine: il labbro illividito;
90Tumida l'epa e tumide le piante.
Or che dirò come correndo al lito
E sovra l'onde galleggiar la spoglia
93Mirando dell’esanime marito,
Ella cieca d’amor, cieca di doglia
Si perigliava in mar? Come la Diva
96Cui di fiori solea cinger la soglia,
L’agil omero di ali le vestiva
E le donava l'amorosa nota
99Che fa de’ mari risentir la riva?
È pur dolce all’argolico pilota
Che fra l’isole egee drizza le vele,
102Quando sull’alba è la marina immota,
Salutar le costiere, a cui fedele
L’aura dell’Ellesponto ancor ripete
105L’ardente inno di Saffo e le querele.
Dolce è pur torsi ad un’età che sete
Sol ha di lucro e fredda intende al vero;
108E seguir l’ombre dilettose e liete
Che a’ spenti lumi sorridean di Omero.