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III
L’ANDROGINO.
Mentre all’ardente nuzial facella,
che all’amoroso talamo ti scorge,
altri, o giovin signor, con cetre e carmi,
gli avi dall’urna richiamando applaude,
5e d’augúri percosso il cielo echeggia,
lascia ch’io nel sermon prisco a te venga
ornando un sogno dell’egizia scuola;
mistico sogno, che, se piacque a Plato,
non indegno è di te: che puoi per esso
10del bel tuo stato affigurar l’imago.
Né di gemma splendor, né forza d’auro,
né covertati d’ostro eburnei letti,
né mille campi, a mille buoi fatica,
lussurianti d’infinita messe,
15né qual piú cosa uom giova altra o piú aggrada,
tanto a vedersi è bello, e non val tanto,
sgombre le cure, a giocondare un core,
quanto amistá di coniugale affetto,
che due bell’alme annodi e in dolci tempre
20nel vario corso della varia vita,
d’un concorde voler ambo le pasca.
Questa non tiensi a un biondo crin, che all’uso
s’adatti, e al garbo d’ariosa fronte,
debil sostegno; e non si tiene a un vago
25color che per mordace aura o per lieve,
e a chi d’uom nacque inevitabil morbo,
o per tempo, che sprona e piú non torna,
furando il fior d’ogni terrena cosa,
langue, e l’etá, ch’è sí temuta, annunzia;
30ma da virtú tien qualitade, e solo
specchiasi in essa, e se ne fa suggello,
e per essa i mortali uguaglia ai numi.
Volgea stagion che dell’umana stirpe,
da quello ch’oggi appare, era diversa
35la sembianza e la sorte; era indiviso
nome femminamaschio: e questo a quella
temprato e misto, intera forma, uscío
dalla man prima dell’olimpio Giove.
Dagli omeri sorgea bifronte il capo,
40quattro le braccia discendeano, quattro
le gambe avvicendavansi, gli orecchi
sporgean pur quattro: in uno eravi quanto
ne ristora da morte. Immane forza
reggea que’ corpi riquadrati, e destri
45a mover ritto e, se il chiedea vaghezza
saltando in capo e roteando a spira,
lungo in brev’ora a misurar cammino.
Immagini chi può come le genti
sopra la terra allor guidasser giorni
50senza sinistri, da tristezza intatte,
né d’avversa avvenir sorte presaghe.
Ma, di tal sorte imbaldanzito, il dono
per cui fioría di possa, ardea di gioia,
a proprio scorno Androgino ritorse,
55ingrato al donator: ché avvien pur sempre
che al benefizio sconoscenza è presso,
come da corpo inseparabil ombra.
Ebre d’audacia, le superbe menti
si consigliâro di far forza al cielo,
60e disertar del buon Saturno il regno.
Limpida luce di miglior consiglio
invano folgorava entro a que’ petti,
e lor mostrava invan che a folle impresa
sempre consegue irreparabil danno,
65né campa molto chi con dii combatte.
La perversa d’Androgino baldanza
vide il Tonante; e benché intorno a lui
rimbombi il cupo infaticabil tuono,
e ’l sempre vivo folgore rosseggi,
70a scoccar pronto, e a rinnovar l’esempio,
onde i protervi della Terra figli,
torva, aspra, fiera, abbominosa prole,
dal tricuspide telo in val di Flegra
giacquer percossi, folgorati e tutti
75spiranti orror di smisurata morte,
non comandò, che su la schiatta iniqua
tal piombasse vendetta, e sol si piacque
scuoterne i vanti, e il primo ben far manco.
E, Mercurio chiamando a sé, gli disse:
80— La brigante tu vedi umana razza,
mia larghezza abusando e sua ventura,
alzar contro di me fronte rubella.
Debita pena ai fallitor sul capo
caschi, e gli assenni: d’un voler con Temi
85Némesi ultrice bilanciolla, e quadra
a me, che non decreto indarno mai.
In duo si parta Androgino: divisa
cosí l’integritá del primo aspetto,
cosí le forze svigorite, e sciolta
90l’equabile cosí tempra del core,
cruccio amaro rodendol, si divezzi
dal tracotar superbioso, e vegga
che Giove è sommo e signoreggia a tutto.
A te l’opra commetto, a te che il troppo
95scaltro Promèteo, rapitor del foco,
festi inchiovar su la caucasea rupe,
pasto all’aquila eterno. Udisti? Or parti. —
Rispose al motto l’atlantiade araldo.
il pennuto cappello assetta al capo,
100e degli aurei talar veste le piante,
ond’esso puote, aer varcando e nubi,
scorrer di Giuno e di Nettuno i campi,
e l’universo misurar col volo.
Né la tremenda oblía verga dorata
105da’ lubrici distinta attorti serpi,
per cui ne’ regni eternalmente bui
mandar può i vivi, o richiamar le levi
imagini de’ morti ai nervi, all’ossa,
e mille altri condur prodigi a riva:
110ché tanto in essa di poter infuse
l’onnipossente adunator de’ nembi.
Alato il capo, alato il piè, nel volto
arieggiante di Giove il voler, scende
pel sentiero de’ venti e delle nubi
115il celeste, uccisor d’Argo, messaggio,
ratto cosí, che va men ratto il nibbio
su le spase ali, alto-stridente augello,
e lo sparviere che disteso aleggi.
Fu giunto a terra, ragguardò, di corto
120Androgino trovato ebbe, e fe’ motto.
— Libero cenno dell’egíoco Giove,
largo-veggente, agitator del tuono,
di lui, che a tutti per possanza è sopra,
mandami a te. Gl’insani vanti, ond’oso
125di conturbar fosti l’Olimpo, e nuda
render di scettro l’invincibil destra
vibratrice del fulmine, in te vuole,
misero! menomar, e farti saggio
che in ciel v’ha un tale, che fa forza ai forti. —
130Disse: e, levata la terribil verga,
divinamente pel diritto mezzo
Androgino percosse. In duo fendute
ecco scoppiarsi ed allenar le membra
in pria giá tanto poderose, ed altro
135prendere aspetto le disgiunte parti,
e pur di ricongiungersi bramose.
Cosí, partita da veloce remo,
o da possenti notatrici braccia,
l’onda gorgoglia, e ricorrendo a tergo
140risarcir cerca lo squarciato velo.
Cillenio intanto messaggier, recando
novella in ciel dell’ubbidito cenno,
degli umani descrisse il dolor grave,
onde in selve, tra fiere, e a queste uguali,
145l’un senza pace ognor dell’altro in traccia,
menan la vita disperatamente
preda d’ambasce e di bestemmie e d’onte,
dannando il giorno, che mirâro il sole,
chiaman funesto d’esistenza il dono.
150Un riso acerbo cacciò fuori il padre
degli uomini, e de’ numi, e da quel riso
il piacer tralucea della vendetta.
Quando di mezzo alle stellanti ruote,
tutta atteggiata di soave affetto,
155mosse Pietade, e la seguiano ancelle
con gli occhi in pianto e pallor tinte il volto,
le vacillanti pavide Preghiere,
e disse: — Padre, cui Destino e Forza
sortirono l’impero alto del cielo:
160tu, che l’impari cose adegui, e all’ime
leghi le somme, e le inimiche accordi,
spirando a tutte spirito di vita,
e d’ammirabil tempri ordine il mondo,
a noi facil consenti. Or giá tua voglia
165empié la retto-consigliante Astrea:
giá del malnato Androgino per lei
l’alterezza piegò, mendossi il rio,
che in te commise. Ve’ quai pene ei soffre,
a portar tormentose, a mirar triste,
170da se stesso diviso, e da se stesso
fuor d’ogni speme, e senza posa, attratto.
Ascolta, o padre, con quali alte grida
ei chiama Morte, che lo afferri e spegna.
Né fia sorda colei, che d’ossa albergo
175fatto vorrebbe l’universo, e tutto
silenzio, solitudine, deserto.
Né altare a te piú sorgeria, né tempio
dell’uman culto testimon, né l’inno,
che ti fe’ spesso a rimirar invito
180e d’agnelli incorrotti e pingui capre
ostia votiva e di novenni buoi. —
Lo priego di Pietá scosse la salda
mente di Giove. Lampeggiò d’un riso
promettitore di conforto e pace
185l’egíoco padre: indi ad Amor fe’ cenno,
ad Amor, che bellissimo fra’ dii
surse di Caos con ali d’oro a tergo,
e nella mole delle cose immensa
per varie guise sua virtú comparte,
190perché, scendendo e saettando i cori
con quell’arco possente, a cui non vale
ferrata maglia e adamantina piastra,
ciascun di sua metá facesse accorto:
e fu poi cura d’Imeneo la bella
195opra compir, cui diè principio Amore
e, sbramando i desii, le salme unendo
in sacro alterno indissolubil nodo,
ammendar morte e rintegrar natura.
O lui beato, che per don d’Amore
200veracemente sua metá ritrova!
E te beato tre fiate e quattro
o giovine signor, che la trovasti
nell’insubre donzella, a cui t’annodi
tra le speranze della patria e i plausi
205che a te, suo buon cultor, scioglie Elicona.