< L'apologia di Socrate
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Platone - L'apologia di Socrate (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Francesco Acri (XIX secolo)
Capitolo ventiseiesimo
Capitolo XXV Capitolo XXVII

Colui vuole dunque la mia morte? Sia. Ma che pena mi assegnerà da me, o Ateniesi? È chiaro: quella che merito. E quale pena debbo patire o pagare io, perciò che in mia vita non mi quietai mai dalla voglia di apprendere; perciò che non curando di quel che i piú curano, danaro, governo della casa, esser capo di milizia o capopopolo, e gli altri maestrati; e non curando delle congiurazioni e sedizioni nella città, giudicandomi di piú temperato animo che non si convenisse perché, immischiandomici dentro, salvo rimanessi, là non andai, dove andando non poteva giovar niente né a voi né a me, ma dove poteva fare a ciascuno privatamente il maggior benefizio, là andai; provandomi di persuadere ciascun di voi che non dovesse curare delle sue cose prima che di sé medesimo, acciocché buono divenisse e savio quanto potesse, né delle cose della città prima che della città, e via via a questo modo? Adunque quale pena merito io, se sono cosí? non pena, ma premio, se io mi devo assegnare quel che in verità merito: e un premio che mi convenga. E che si conviene a povero e pur benefico uomo, il quale ha bisogno di non intendere ad altro che a confortare voi al bene? Nulla è piú che si convenga, come l’essere cotale uomo nutricato nel Pritanéo; molto piú che se alcun di voi con cavallo o biga o quadriga vinto avesse nei giochi olimpici. Imperocché quello vi fa parer felici, io vi fo essere; e quello non ha niente bisogno di cibo, io sí. Se mi devo dunque assegnare quel che merito, questo mi assegno: vitto nel Pritanéo.

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