< L'apologia di Socrate
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Platone - L'apologia di Socrate (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Francesco Acri (XIX secolo)
Capitolo ventottesimo
Capitolo XVII Capitolo XXIX

Dirà forse alcuno: - Ma non sei buono, Socrate, di vivere tacendo, stando quieto dopo andatone via da noi? - Ma fare intendere ad alcuni di voi questo, è la piú malagevole cosa: perché se dico che questo è disubbidire all’Iddio, e che è impossibile che me ne stia quieto, pensando che io voglia ironeggiare non mi crederete voi; e se dico ch’è grandissimo bene a un uomo far ogni dí ragionamenti su la virtú e quelli argomenti su i quali mi udivate conversare ed esaminare me e gli altri (la vita senza esame è indegna di uomo); se dico questo, tanto meno mi crederete voi. E pure cosí è, come dico; ma non è cosa facile persuadervene. Ma, da altra parte, anch’io non mi sono assuefatto a credermi meritevole di alcun male. Onde se avea danari, mi multava in danari, quanti ce ne voleva; ché non me ne venia danno. Ma non ne ho: salvo che non vi contentiate di quel tanto che posso pagare io (una mina d’argento la potrei forse pagare). Dunque io multo me di tanto. Platone ch’è qui, Ateniesi, e Critone e Critobulo e Apollodoro vogliono che io mi multi di trenta mine, rimanendo essi mallevadori. Dunque io multo me di tanto. E v’entran mallevadori del denaro questi qui; persone delle quali ci è da fidarsi.

(FU CONDANNATO A MORTE).

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