< L'apologia di Socrate
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Platone - L'apologia di Socrate (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Francesco Acri (XIX secolo)
Capitolo trentatreesimo
Capitolo XXXII

Ma dovete sperar bene anche voi, o giudici, in cospetto alla morte: e, se non altro, credere per vero solo questo: che a colui che è buono non accade male alcuno, né vivo né morto, e che gl’Iddii non trascurano le cose sue. Né quello che a me è avvenuto ora, è per caso: perocché chiaro vedo che il morire ed esser liberato dalle brighe del mondo per me era il meglio. Perciò non mi contrariò mai il segno dell’Iddio; e io stesso non sono niente in collera con quelli che m’han votato contro e con gli accusatori, quantunque non con questa intenzione m’avessero votato contro e accusato, ma sibbene credendo farmi del male. E in ciò sono da biasimare. Ma ad essi io mi rivolgo ora, e cosí li prego: I miei figliuoli, quando saranno giovani, castigateli, o cittadini, tormentandoli come io voi, se vi paiono piuttosto aver cura del danaro o d’altro, che della virtú: e se vi paiono voler mostrare d’esser qualche cosa non essendo nulla, svergognateli, come io voi, per ciò che non curano di quel che devon curare e si credono valere qualche cosa, non valendo nulla. Se ciò farete, avremo ricevuto da voi quello che giusto era che ricevessimo, io e miei figliuoli. Ma già ora è di andare: io, a morire; voi, a vivere. Chi di noi andrà a stare meglio, occulto è a ognuno, salvoché a Dio.

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