< L'asino (Guerrazzi, 1858) < Parte I
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Parte I - Come stiamo a fatti?

LA DIVINITÀ


§ VIII.

L’uomo che sia. Scenza delle donne si converte in vestiti. Gabbanelle di Adamo ed Eva. Tigna. Parrucche. Talleyrand e Machiavello. Contradizioni della Inghilterra. Perchè Dio creasse ultimo l’uomo. Tabacco e fumo. Uso del tabacco fa scartare un Santo. Il Papa, il tabacco e il Frate zoccolante. Contradizioni principesche. Diluvio di croci. Lo Spirito Santo in Danimarca è un Elefante. Il tabacco e il giuoco del lotto sostengono il trono e l’altare. Francesi aboliscono il culto di Dio e reggono il Papa. Contradizioni dei Francesi. Si parla di Grecia. Vicende di Francia. Lo Czar Alessandro postilla una favola di Esopo. I greci ladri. Francesi gabbatori e ladri; rubano il tempio di Efeso e le serrature al Vaticano. Francesi di stato non intendono niente. Ritratto dei Francesi; inventano la ghigliottina e i burattini. L’asino è fatto Dio. Una monaca condannata per avere impregnata un altra monaca. Sabaoth Dio delle battaglie col capo di Asino. Asino con le corna. Genuzio Cipo, e amore di patria dimostrato con le corna. Scomunicato si può ammazzare senza peccato neppure Veniale. Costantino ed Irene parricidi piissimi. Dante speziale. Trinità col bellico e, la donna Disodia. Senza Asino la profezia di Giacobbe non corre. Il bucato ai tempi di Giacobbe si faceva nel vino. Cuculo arrostito anteposto in virtù da gente matta alla eucarestia. Re di Francia proibisce a Dio di far miracoli.

Che cosa è l’uomo? Io lo dirò senza sospetto, che Diogene irridendo la mia definizione mi scaraventi nella scuola un gallo pelato. L’uomo è una contradizione uscita al mondo in forma di ossa e di carne per tribolare, e per esservi tribolata.

Compare mio uomo, che qui tu arricci le froge non monta, nè fa punto al caso cotesto tuo pugno levato in atto di minaccia; in primis perchè all’ora in cui siamo non si da più; secondamente perchè adesso, morti tutti, venne davvero la vera felicità dei tempi di potere sentire quanto ti pare e piace, e quello, che pensi svertare alla libera, e non quando visse Tacito1, e per ultimo dove tu conservassi tuttavia la facoltà di bastonarmi, io ti direi magnanimo come Temistocle ad Euribiade: batti, ma ascolta.

Eva appena col dente ebbe intaccato il mal frutto si conobbe ignuda, e volle subito un abito: donde il malignare dei satirici, che la scienza delle mogli stianta addirittura la famiglia dei mariti. Adamo, che pur la voleva contentare, non sapeva che pesci avesse a prendere, conciossiachè il caso non patisse indugio, e fabbriche di seta non avessero per anche rizzato su in Firenze nè il Paradisi, nè il Matteoni; alla fine come se qualcheduno lo ispirasse, si fece vicino a un fico e ci staccò il guarnello per Eva. Staccato il guarnello per lei, pensò che marito ignudo al fianco di moglie abbigliata non pareva cosa che andasse pei suoi piedi, e quindi, facendo come suol dirsi un viaggio e due servizi, prese stoffa bastevole ad un vestito anche per se. Io non so dirti se il Padre eterno, quando cotesti primi nostri padri gli comparvero davanti, o più si arrovellasse pel peccato commesso, o più ridesse nel vederli in cotesto arnese; fattosta che li condannò a morte, e cucì loro due gabbanelle per bene. Considerando meco stesso sovente cotesto successo io sono venuto in pensiero che la signora Bloomer non era stata la prima a inventare le gabbanelle alle donne, ma si venivano proprio da Dio; per la qual cosa è da credersi, che s’ella si fosse fondata sopra lo esempio esposto, invece delle inurbane accoglienze ch’ebbe a sperimentare a Londra, le gentildonne inglesi avrebbero vestito la gabbanella in onore del primo libro del Testamento vecchio2. L’altra considerazione cade sul torto grande dei sarti di essersi tolto per protettore S. Omobono; non mica che questi non risplendesse per molta bontà, che anzi lo predicarono tutti una cappa d’oro; ma a fin di conto meglio vale servirsi in duomo, che in san Giovanni, e poi mi pare dicevole, che qualcuno si prendesse Dio creatore per avvocato, mentre per iscartabellare ch’io facessi, non aveva rinvenuto mai su le pagine dei lunarii del Baccelli, e del Nipote un giorno stabilito a solennizzare l’augustissimo nome di lui. Iddio pertanto largì ai primi padri nostri la morte, e un paio di gabbanelle, e va d’incanto. Veramente se non mi tenesse la riverenza da un lato, e dall’altro la paura di parlare a sproposito, direi, che non mi parve onesto scorticare quattro Bestie per vestirne due, che tante pellicine di Agnello ci vollero per l’appunto a formare il paro delle gabbanelle; e a lui che creò il cielo, e la terra con tutte le belle cose, che vi si veggono dentro, doveva di leggieri sovvenire spediente migliore, che spogliare una Bestia per vestirne un’altra; molto più, che questo esempio fu radice di pessimi fatti nel mondo. Checche di ciò sia, io non biasimo punto, anzi lodo l’uomo, se nato ignudo, tenero, e con la pelle diligine ad ogni più lieve impressione esterna intendesse a ripararsi come meglio poteva; di questo altro lo riprendo, che in breve (conforme vuole la prava indole di lui) sopportando molesto i cancelli del bisogno e dell’utile, dentro i quali si trova costretto, gli abbattè precace e proruppe fuori a saccheggiare gli universi regni della Natura per cavarne ornati, i quali non più gli procurarono scherno, bensì danno, non comodo, bensì fastidio, e dolore, e argomento di morbi crudeli, e rovine di famiglie.

Adesso dunque hai da sapere, che gli uomini al pari degli Animali andarono sottoposti a perdere il pelo, quelli per copia infinita di vizii, questi a cagione di una infermità, la quale con rispetto parlando, si chiamò tigna. L’uomo, secondo il solito, invece di trarne argomento di compassione pei suoi fratelli vi trovò materia per istraziarlo e dirgli vituperio: questa ingiura poi sembra, che suonasse acerba, per quanto giudico dal caso successo ad Eliseo, il quale mentre saliva in Betel udendo una frotta di monelli schiamazzargli dietro: zuccone, zuccone! tuttochè profeta fosse ed uomo di Dio, lo pigliò tale una rapina, che fatti uscire dalla prossima selva due Orsi gli incombensò di scannarne acconto quarantadue3. A vero dire questo castigo, per uomo che faceva professione di santimonia, parve un tantinetto avventato; in quanto a me, che pure per parte di quei tristi ebbi a provarne delle bigie e delle nere, mi sarei contentato di meno: un cavallo e basta. Se però fu giusto tutelare dalle intemperie il petto, il ventre e le altre parti del corpo umano, doveva comparire del pari onesto difendere la calvezza con la parrucca; anzi più; avvegnadio la parrucca impedisca la infermità che venga, e venuta cacci via; la parrucca preservi la cupola del tabernacolo dove il pensiero abita di Dio; la parrucca sola sia capace a contendere con la morte; ella e non altri valga a rincorrere gli anni scappati ed agguantatili per la coda strascinarli indietro e costringerli a fermarsi per alcuno spazio di tempo sopra la fronte dell’uomo. La gaggía, che dallo stelo spinoso manda fuori l’acuto profumo, quasi un addio alla primavera che passa è la immagine della parrucca; simbolo di lei il Graal dei Templarii, e la fontana di Govenzio. Il vaccaio di Sicilia dei tempi del re Guglielmo non rinvenne mica il fiasco dell’oro potabile, che gli crebbe la vita di cento anni; coteste furono immaginazioni per abbellire la cosa; quello che veramente trovò, fu una parrucca, ed io lo so di certo4. Doveva per tanto la parrucca venire accolta, ma non fu così. Appena comparve sul cranio umano, i sacerdoti guardatala obliquo, e stuzzicandosi l’un l’altro con le gomita i fianchi presero a mormorare sommessi, poi a sfringuellare con meno ritegno; tenne dietro lo scoperto sbottoneggiare; seguitarono appresso false accuse, calunnie e ipocrisie; finalmente ansando con la lingua fuori sopraggiunsero le persecuzioni; e quando di ogni male peste terrena fu vuoto il sacco, ecco salivano alla Cancelleria dei cieli e ne cavavano fuori lettere di sigillo, per le quali le parrucche vennero scomunicate. Immane caso! Santo Clemente di Alessandria con inestimabile amarezza delle paterne viscere considerando la caponaggine di alcuni perduti in usare parrucche gli ammoniva gravemente ad avvertire che la benedizione caduta sopra la parrucca vi friggeva come olio sul fuoco, epperò non passando alla pelle, la parte più notabile del corpo umano, o piuttosto l’unica importante, il capo, rimaneva sbenedetto con danno irrimediabile dell’anima loro. Ma poichè parecchi di dura cervice si ostinavano a portare la parrucca, e mettere l’anima a repentaglio, sto per dire sopra l’asso di picche, Tertulliano smanioso saltò su in bigoncia, dove fra gli altri argomenti, che disse, propose questo solenne sillogismo: — ah! voi non volete buttare la parrucca alle ortiche? Ponete mente: Dio quando vi creava, in verun libro si legge, che vi facesse con la parrucca: se Dio non vi gratificò la parrucca, egli è chiaro che deve avervela somministrata con le sue proprie mani il diavolo: dunque la parrucca ci viene dallo inferno; dunque empietà espressa commette chi l’adopera; dunque chi porta parrucca è dannato. —

Più in giù, che nello inferno non si può ire; ma dopo il monte viene la china, e alla rovescia; quindi toccato il fondo le parrucche incominciarono a montare, e trasmodando come ogni altra cosa umana, non si chiamarono contente a vincere, che vollero stravincere, e rotti gli argini allagarono come una delle piene dell’Arno così frequenti in Toscana dopo la depressione della chiusa dei monaci operata per virtù del corpo dei guastatori... voleva dire ingegneri nostrali. Le parrucche invasero la curia, la reggia, la piazza e le chiese; veruna età si sottrasse alla dolce tirannide delle parrucche; ve ne furono di tutte le forme, o spanta co’ riccioli ciondoloni per le spalle e per il petto e fu appellata in foglio: questa ebbe in delizia Luigi XIV, e non la volle lasciare neppure quando lo effigiarono a cavallo abbigliato alla foggia degl’imperatori romani. Altra raccolta su le tempie, e rigonfia per quella parte laterale del capo là dove il Gall colloca la protuberanza del ladro e la chiamarono ad ala di piccione; questa ottenne la preferenza del Robespierre, e l’aveva in capo quando lo trassero a torgli il capo e la parrucca. Altre pendenti giù su le gote si nominavano orecchio di Cane: altre con un ricciolone da una tempia all’altra intorno alla nuca, e si dicevano a cero, predilette ai religiosi; talune mostrarono la coda nella sua splendida nudità, quasi Driade fessa la corteccia di un frassino apparisce ai mortali; tal altre la tennero misteriosamente velata di mantino nero come la faccia del Dio di Moisè fra le nuvole dell’Oreb, comparvero ancora con varia sorte colori, e nere, o grigio o rosse, e queste tenute in maggior pregio una volta, finchè certo giorno entrò nei petti umani un ghiribizzo della natura dell’assillo, insetto nefasto, che avendo la canicola fa spasimare le mogli dei Tori, e si caccia anche sotto la coda di noi altri Asini; ed egli fu di volersi dire ad ogni costo uguali; esserlo poi parve un altro paro di maniche. Per dare incominciamento a qualche cosa, i giovani come quelli che hanno copia di cuore, e senno poco, presero a sporgere le mani ai caduti nella fiumana del tempo adoperandosi ritirarli alla sponda; ma poichè ci accorsero, per lo scivolare dell’acqua impetuoso e forte e per le ripe sdrucciolevoli correvano rischio, invece di tirare, essere tirati, immaginarono altro partito e dissero: dacchè per mantenerci uguali non si riesce restituire i vecchi giovani, e questo sarebbe meglio, facciamo che i giovani diventino vecchi, e questo per avventura ci tornerà più agevole. Giovani e vecchi pertanto recaronsi al tempio della Follia, le si prostrarono davanti, e tutti di un cuore supplicarono: facci uguali! Allora la Follia prese un vaglio grandissimo, lo empì d’amido tritato, e stacciava ridendo sopra i capi dei genuflessi: parve che la neve fosse caduta sopra di loro, non si distinsero più giovani da vecchi, uguali tutti fra essi, e simiglievoli ad un gregge di montoni, che salga fuori dai lavacri della Cecina. La Follia sempre ridendo gli accomiatava con questo responso:

Così potrete essere uguali in vita,
Defunti poi ci penserà la morte.

Tant’oltre si spinse il culto dei mortali, in specie francesi, per fa parrucca, che nel secolo XVIII la bandirono simbolo e testimonianza di civiltà, come nel decimonono la presa di Sebastopoli. Una missione per dilatare il culto della parrucca parve altrettanto meritoria che le missioni dei Padri Gesuiti nella China; in pro suo si rinnuovarono le crociate; venti milioni di danaro vi si sparsero, venti e più mila anime di Francesi vi si dispersero, e parvero bene impiegate. Dubitate che burli? I Francesi liberissimi, e dignitosi sudditi di Luigi XV, per giustizia Traiano, per castità Tito, arca di ogni regia perfezione come quella di Noè di tutte le Bestie, quando mossero a rivendicare in libertà i Corsi schiavi abbiettissimi del tiranno Paoli, fecero sapere al mondo, che la barbarie di cotesti isolani era così sprofondata, che più giù non poteva cascare, e per poco avessero differito, il male non avrebbe comportato rimedio, conciossiachè i Corsi potessero certificare la miseranda bestialità loro con segno più evidente di quello di non portare parrucca5.

A proposito, e quando il papa adoperò la parrucca, e non gli nocque alla sua santità, si risovvenne egli di coloro che scomunicati prima per non averla deposta erano scesi giù nello inferno? Io non lo so di certo; ma mi figuro, che gli avrà ribenedetti coll’amnistia, nella guisa appunto, che vidi costumare nel mondo io quando la Ragione metteva paura alla Forza, e questa in ginocchioni davanti a lei recitava il confiteor, e si picchiava il petto sempre spiando il destro di grancirla per un piede, e mandarla a gambe per aria.

Questo, quanto a parrucche; circa a politica andiamo a vedere. Il Talleyrand, che si sarebbe potuto paragonare al nostro Machiavello, se non fosse stato più scarso di lui nella gamba destra un dito, nel cervello un palmo, e un braccio e mezzo nel cuore, favellando della Inghilterra disse, che se vi fu popolo al mondo da se stesso discorde, l’inglese era quello. Infatti comecchè egli si dichiarasse tenerissimo della dottrina, che mise per fondamento di ogni cosa buona la libertà dell’esame, difese con le mani e coi piedi qualsivoglia indagine nelle faccende religiose: eretico egli fu, e della sua eresia camminò orgoglioso come il Gallo dei bargigli, e gli sofferse il cuore di capitanare la santa Alleanza, di cui le forme, la favella e i fini avevano a suonare abbominazione ai suoi orecchi: comecchè annualmente si ardessero da lui le immagini del papa per le vie di Londra, ciò non fece ostacolo al Castlercag di mettersi coll’arco dell’osso a raddrizzare in piedi gli stati pontifici; così in cotesta memorabile settimana di passione dei popoli, altramente detta il congresso di Vienna, il cardinale Consalvi era sovvenuto dagli eretici inglesi contrariato dai cattolici tedeschi. Altra contraddizione: la Inghilterra libera e nata dai rivolgimenti del 1688 sprecò milioni di sterlini e fiumi di sangue per legare le nazioni con immani corde raddoppiate di fila di sbirro e di prete, e darle in mano alla duplice tirannide sacerdotale e principesca. Seconda contraddizione: gl’Inglesi frustarono il generale Haynau carnefice nè più nè meno feroce dei tanti, che l’Austria tenne in guinzaglio, e stettero a sentire senza prenderlo a torsolate lord Russell, il quale raccomandò agl’Italiani si ripiegassero meglio che potevano nella fossa, e sparissero, che l’Austria, nel gittar loro le palate di terra addosso, avrebbe fatto con garbo. Terza contraddizione: il Sig. Gladstone da privato cittadino si frugò in cuore, e ci rinvenne misericordia pei malcapitati napolitani, ed ira notabilissima contro il re Ferdinando, ma promosso a ministro cadde in sincope, e sigillò le labbra come il sacchetto dei denari messo in deposito, e chiuso a chiave dentro un armadio: cessato il ministero, tornava uomo. Quarta contraddizione: la società biblica di Londra sbraciava tesori per ficcare bibbie nei buchi più riposti dell’universo, e ridurre idolatri alla fede di Cristo; in Londra poi avevano aperto bottega d’idoli per mantenere genti salvatiche nelle diaboliche superstizioni, e via via, chè la matassa non viene mai a fine.

Ecci taluno, che contraddice notando: non fu in questo punto discorde da sè stessa Inghilterra; all’opposto fece prova di logica vigorosa, come quella, che dimostrò espressamente, che nè religione appresso lei, nè misericordia, nè morale, nè studio di libertà, una separata dall’altra, o tutti insieme aggiuntate vincessero la virtù della jarda6, con la quale misurarono il bambagino agli avventori.

Cotesta sentenza come falsa va riprovata; la ragione vera è quella, che il sangue scorre dentro le vene dell’uomo mescolato con la contraddizione e la perfidia. Il Signore, il quale presagiva di che panni avrebbe vestito costui, creò prima il cielo, la terra, il mare, le stelle, gli animali ed ogni altra cosa, in fondo l’uomo: poi lavatesi le mani disse: — quello ch’è fatto, è fatto — e si riposò: dove che se avesse creato prima l’uomo, e le altre cose dopo, egli gli avrebbe messo tante pulci pel capo e tante volte contraddetto, che tra fare e disfare, messere Domineddio a quest’ora sarebbe sempre in faccende, e innanzi che fosse giunto sabato, la eternità cascherebbe a pezzi per la decrepitezza.

Assai di politica; ora del tabacco. — È fama che i Traci fumassero la canapa, e con questa s’inebbriassero. Le autenticità dell’Ochio ci chiariscono come nella valle di Mississipi, ben cinquecento anni prima della sua scoperta, i naturali di quella fumassero. Giacomo Carter trovò l’uso del fumo nel Canadà, il Cortez nel Messico, ma prima anche di loro ad Haiti ed a Cuba l’osservarono. La pianta destinata a fumarsi, o franta ad annasarsi, in lingua del paese chiamavano cohoba, e tabacco il cannello, per via del quale tiravano su il fumo con la bocca, o la polvere col naso: taluni affermarono, che il tabacco derivasse il suo nome dalla isola Tabago, e questo certa volta scrissi ancora io; però presi un granchio. Così presso gl’Indiani fu tenuto in tal reputazione il costume del fumare tabacco, che a lui commisero l’ufficio di esprimere e simboleggiare quanto di più solenne occorre nella vita degli uomini: alla sagra di Montezuma, fra gli altri riti, fu visto incastrarci anche il fumo: narrasi dal maggiore Lang come gli Amahwas nella valle del Mississipì quando ammazzavano Bisonti, innanzi di cibarsene, fumassero, e propiziando a Dio dicessero: — Signore della vita, e questo è fumo. — Gl’Indiani della Virginia posero lo spirito di Maniton nel fumo del tabacco. I Nantchez, allorchè andavano a processione per aspettare il sole appena spuntava dai monti, lo salutavano col fumo. Ci ebbero selvaggi, i quali imbattendosi nel Serpente a sonagli gli spingevano contro grossi buffi di fumo, pensando attutirlo. Nelle adunate della tribù, a seconda della maniera diversa di adoperarlo significa o la pace o la guerra. Gli Acadi se ne servivano per richiamare in vita gli annegati. Chiunque fumava nella pipa rossa intendevasi si arruolasse nella milizia. Su di ciò io porto opinione che cotesti ingenui figliuoli della natura considerando, come nè più parlante ne più precisa immagine della inanità umana potesse trovarsi nel fumo, questo vollero ad ogni momento avere avanti gli occhi mescolandolo in tutte le azioni della vita; e se, come la dico io la pensarono essi, ottimamente si apposero, imperciocchè la esperienza, del vivere con gli uomini mi persuadesse, che un tanto vero ridotto in sostanza, e sepolto nei libri, o manifestato coll’atto una volta sola di fuga non partorisse l’effetto che fosse buono. In vero tu sapientissimo predicasti: vanitas vanitatum et omnia vanitas7, ma chi poneva mente al consiglio divino? Consacrandosi il papa, un cherico, nel bruciargli dinanzi alquanto di stoppa, lo ammoniva: sic transit gloria mundi, ma il vento si portava col fumo la memoria dello avviso; donde poi nacque, che pochi fossero i pontefici, i quali non attendessero ad allargare la propria famiglia anche con rovina dei popoli e scandalo della Chiesa infinito.

Quantunque un religioso di santissima vita, il sacerdote romano Pagano, che fu lasciato in Haiti dal Colombo nel suo secondo viaggio, ci recasse notizia del tabacco, io giudico che non gli avrebbero fatto il viso dell’arme che gli fecero, se ci avesse condotto la febbre gialla, e non in Europa soltanto, bensì da per tutto, dove con la conoscenza si estese l’uso del tabacco. Urbano VIII scomunicò chiunque osava cacciarsi tabacco dentro il naso stando in chiesa; più benigno Clemente XI restrinse la scomunica a coloro che si attentassero prenderlo nella chiesa di San Pietro in Roma. Anche in Ispagna, secondo il consueto di cotesto paese, oltre le leggi civili, per meglio perseguitarlo a tutta oltranza, chiamarono in aiuto le ecclesiastiche. Corre fama eziandio, che un’anima eletta, la quale stava lì lì per entrare in paradiso, venne rigettata dall’albo dei santi, solo perchè l’avvocato del diavolo si tolse la scesa di testa di provare che vivendo al secolo l’anima santa.... cioè l’uomo dotato di cotesta anima, aveva avuto usanza del tabacco da naso. Giacomo I che fu re d’Inghilterra e dei pedanti, dettò un libro in odio al tabacco, cui pose nome Misocapnos, che in questa nostra volgare favella suona nemico del fumo. In Russia e nella Nuova Inghilterra proibito pena la morte; in Turchia il palo, dimenandovisi contro, come il diavolo nella piletta dell’acqua santa, i Mufti; in Inghilterra le maladette narici imbrattate di tabacco condannarono niente meno ad essere forate con le lesine; che più? La China stessa l’ebbe in abbominio, così ordinando gl’imperatori della stirpe dei Mirig. Cielo, terra ed inferno ai danni del tabacco o vuoi da fumo, o vuoi da naso congiurarono.

Ora principia la seguenza delle contraddizioni, e si principia dalla Chiesa. Il papa, visto che, nonostante i monitorii e le scomuniche, il tabacco faceva capolino alle frontiere, chiude un occhio, e quello entra di straforo tenendo un piè levato e la barba sopra la spalla; indi a breve butta via il muso di Rospo di peccato mortale, poco dopo spoglia anche le farfallesche ale di peccato veniale, profumasi, attenuasi, la forma del fumo abbandona (ingrata ricordanza ai pontefici), e sotto quella di polvere s’insinua nell’aula dei vicarii di Cristo. Nè stà molto che salta sul tavolino papale, e domiciliato in ricco albergo di oro e diamanti si mette senza cerimonie a canto del campanello che chiama nunzii e legati, i quali portano le temute e a un punto riverite bolle per le cinque parti del mondo; del calamaro, vulcano di onda nera che di tratto in tratto s’infiamma, e corrusca fulmini di anatema; del sigillo del Pescatore, misterioso arnese che costringe la volontà di Dio a calare in terra a modo di favilla elettrica tirata giù pel conduttore metallico; e documento solenne a non disperare giammai, di maledetto e scomunicato, ecco splende sul velluto cremisino del tappeto pontificio, quasi pianeta scoperto di fresco dall’astronomo De Gasparis. Il tabacco in polvere per mantenersi il credito acquistato e procurarne del nuovo, accortosi dove pizzica ai preti, si trasformò in regalia e poi in appalto con esclusiva, e con questo venne a gratificarne l’avarizia; si arrampicò pei nervi olfattorii, e su in cima solleticando il cerebro inerte, sostenne lo ufficio di sentinella, affinchè il prete non si lasciasse cogliere alla sprovvista, e lo tenne caro la furberia; si convertì in tessera di amicizia profferendosi a braccia quadre a tutto uomo, avvegnachè il tuffare che fanno due creature le dita nella stessa scatola, le stringa nella medesima fratellanza, che la coppa del sangue bevuto legò Cetego a Catilina o poco meno, e piacque alla lusingheria, arte che i preti impararono dai Gatti. All’apoteosi del tabacco in Roma non mancava altro che la testimonianza di onore per parte dell’erede di San Pietro, ed anche questo egli ottenne. Narrasi che un reverendo padre francescano si recasse certa volta a baciare i piedi al papa, che credo fosse Sisto V, ma non lo so di certo. Alternando fra loro dotti e bei ragionamenti al papa cortese venne fatto di offrire tabacco al padre francescano, il quale Zotico, come la più parte di quelli del suo Ordine sono, ricusando toccarlo disse: — Santità, non ho questo vizio. — A cui il papa, sentendosi morso, con carità cristiana rispose: — Frate furfante, se fosse vizio tu avresti anche questo.

Passiamo ai re. Quel Giacomo I, che in vituperio del tabacco scrisse il Misocopnos, per mostrarsi congruente, ne promoveva la cultura in Virginia. Delle regine, due gli camminarono parziali, una di Francia, e fu Caterina dei Medici, che l’amò in polvere, a cui ne fece presente l’Abbate Nicot, donde venne, che in Francia il tabacco da naso si chiamasse polvere nicotina, e della regina; l’altra d’Inghilterra, e fu Elisabetta, che lo amò in fumo, e del fumo volle tentare conoscere il peso facendone la esperienza con quel suo famigliarissimo Gualtiero Raleigh8; poi prese in uggia il tabacco e il Raleigh: allora ella fece due cose, aperse la finestra e chiamò il boja; fuori di quella scaraventò la pipa, a questo commise mozzare il capo di Raleigh. Contraddizioni principesche per avventura un pò brusche, ma sempre galanti.

Quale o fama o istituto poterono vantarsi di universalità pari a quella del tabacco? I Turchi quasi in espiazione delle colpe commesse stavano immersi da mattina a sera dentro nuvole di fumo, e volendo onorare qualche pezzo grosso si toglievano la pipa di bocca, e, rinfilato il bocchino dell’ambra col palmo della mano, gliela porgevano. Dalle parti di Occidente invece, le scatole da tabacco furono destinate ad essere pegno di grazia e di onore, fino al giorno in cui l’avarizia, fatti i conti su le dita e trovatele care, consigliò sostituirci le croci. Allora parve che anche Dio non volesse mantenere la sua parola, e la promessa dell’arco baleno fosse giunteria; il diluvio universale delle croci incominciò. Aveva un bello aprire ombrelli, o avvilupparsi bene dentro gl’incerati la gente, che tanto nè gli uni nè gli altri al rovescio bastavano. Giù dal cielo cascavano Bestie di ogni maniera, Leoni, Draghi, Aquile e perfino lo Spirito Santo in Danimarca scese in ispecie di Elefante9. All’eminentissimo Cardinale Bernetti dai oggi dai domani scappò alfine la pazienza, e scartato addirittura la maggiore insegna del Leone belga, disse senza, barbazzale, che assai Bestie portava sul petto, e non poteva poi farne un serraglio10. Un soprastante dalla faccia di porcellana, messe insieme a catafascio certe leggi fatte, come disse Cristo, ai Genovesi, alcuni specchi statistici bugiardi più degli epitaffi, e più di lui, con non so quante incisioni da far dannare l’anima a Maso Finiguerra, caso mai gli fossero capitate davanti, e impresso il tutto a spese del governo, bene inteso, ne spargeva la fiorata in paesi stranieri, ed ecco rincorrerlo con due croci, tre croci e quattro, onde al gaglioffo entrò in testa il ticchio farne collezione, come i naturalisti costumano con gli scarabei. Un ribaldo, combattuto prima il nemico della patria, assunta anima e figura di biacco gli si fa a strisciargli fra i piedi con ribrezzo e schifo di lui; ecco una croce, due croci, quattro croci. Un mozzorecchi di provincia cui la fortuna sbagliando tirò in su pei capelli, e lo doveva pel collo; codardo ipocrita e plebeo, che aspettando i tempi di poter mettere gli uomini al tormento si sollazzava intanto a torturare le muse, raschiatura cascata in terra quando il diavolo raspò l’anima di Giuda, ed ecco rovinargli addosso una croce, due croci. Un cantaro di sego battezzato di verde rame venne in terra a sognare l’estremo dove possa giungere il flutto iemale della ignoranza commosso dalla infamia, ed anch’egli rilevò una croce o due. Insomma venimmo a tale; che il postiglione menando attorno i fabbricanti di croci di ora innanzi tremò, che invece del testone di buona mano gli mettessero in tasca una croce.

E ritornando al tabacco, stringo il molto in poco, e ricordo come di perseguitato reo di lesa maestà divina ed umana si barbasse ai piedi dell’altare e del trono, proteggesse entrambi e in compagnia del giuoco del lotto nelle vene loro infondesse sempre sangue fresco, padre d’immortale giovinezza.

Da capo la politica. Nel bel reame; io sbaglio, nella gloriosa repubblica; nè anche, nel grande impero; non corre: insomma in Francia, sul finire del primo quarto del secolo decimonono, parve civile cogliere alla sprovvista nel golfo di Navarino le armate Turchesca ed Egiziana e con orribile strage consegnarne i corpi al mare e le anime all’inferno: poco oltre il termine del secondo quarto avendo i Russi o sorpreso o incontrato nelle acque di Sinope i legni ottomani:

Fecero al gesto illustre una sorella
Minore alquanto, non però men bella.

Ed i Francesi infelloniti, non si potendo dar pace, levarono al cielo gli strilli urlando: Navarino mandò al diavolo i Turchi civilmente, Sinope ce gli ha balestrati more barbaro! Cristianissimi i Francesi vollero essere chiamati, e furono per modo che, dopo avere abolito il culto di Dio mediante decreto pubblico, circondarono i reni del Papato con una cintura di baionette, impedendo così, che si rompesse in minuzzoli; e al tempo stesso pari ufficio rendevano a tenere su ritto il papa dei Turchi, sfregio turpe in mezzo alla faccia della Europa cristiana, dimenticando, o piuttosto, com’è da credere fingendo avere obliato, che Bajazet, investita che ebbe l’Ungheria, giurò far pascere vena al suo cavallo sopra l’altare di San Pietro in Roma. Non sortì effetto il trucissimo vanto, ma i sultani eredi del disegno, e del desiderio di lui, allorquando recavansi a cingere la scimitarra ai quartieri dei Giannizzeri, bevevano la coppa, che loro offerivano, e nel prendere commiato la riempivano di oro dicendo: a rivederci a Roma! Civilissimi e sviscerati di punto in bianco i Turchi avevano ad essere fatti al nome cristiano, quasi potessero strofinarsi con la spugna le storie, le quali attestavano come quante volte si presentava alla porta un ambasciatore dei nostri; il Visir, trattenutolo nell’anticamera, andasse ad annunziarlo al Padiscià con queste parole: ecci di là un cane di cristiano ignudo e affamato, che supplica di vederti. E il cortese Padiscià rispondeva: Va, vestilo, cavagli la fame, e poi trammelo davanti. Allora l’Ambasciatore aveva pelliccia, rinfreschi, ed in appresso udienza. Quali le colpe del Russo? secondo che io intesi, la meditata conquista di Occidente; e se così, non ci aspirarono del pari i Turchi! In che cosa i Russi diversi dai Turchi? Qui come gemma in anello s’incastona il proverbio: che tra corsaro e pirata ci corrono i barili vuoti. Che se ai Turchi erano caduti i denti, bisognava pensare che non erano cessate le voglie, e i denti col tempo possono allungare da capo.

I Francesi professandosi zelatori della monarchia assoluta mossero a sostenere le parti repubblicane nella guerra dell’America contro la Madre Patria; retti a repubblica accorsero l’uno dopo l’altro come pecore a rimettere in collo ai Romani il pessimo dei gioghi, quello dei preti—re. Perchè nessuno malignasse intorno alla magnanimità delle loro intenzioni bandirono al mondo avere essi pigliato in mano la impresa russa, al fine unico di gratificare la causa della civiltà, è perchè meglio s’illuminassero i Turchi, mandarono a servirli lampanaio un soldato il quale aveva appreso in Affrica a soffocare gli Arabi per le spelonche col fumo.

E nella Grecia i Francesi... Ahime! qui il riso abbandona il mio muso d’Asino e casca quasi vela quando cessa il vento. Questa materia merita, che io ci spenda qualche diffusa parola d’intorno, imperciocchè tante vi appaiano dentro le contraddizioni degli uomini che toccano il fondo.

Quando prima si levò la Grecia povera, nuda e turpe di urcera dolorosa e di schianze per la battitura dei suoi truci oppressori, quanti serbarono in seno cuore di uomo esultarono: non ci fu famiglia dove il padre rompendo il pane ai figliuoli non ne mettesse un frusto da parte dicendo: questo è per la Grecia. Non vi fu madre, che avendo fatte recitare le sue orazioni alla bambina prima di porla a letto non gli parlasse così: aggiungiamo, cara, un Ave Maria pei poveri Greci. Uomini illustri, uomini volgari, di ogni popolo, e di ogni fede trassero a spargere il sangue per la causa della libertà greca. Troppo menerebbe in lungo, nè queste sono pagine convenienti a sì nobile soggetto, ricordare il nome degli eroi, che ebbero per lei martirio in terra e gloria nei cieli: a me basti per senso di amore non preterire in silenzio Santorre Santarosa morto combattendo a Sfatteria, e Giorgio Byron a Missolunghi nello splendido meriggio delle sue facoltà. Allora batte forte il cuore nel petto alla tarda Allemagna, la quale aperse le labbra e cantò un canto amoroso:

— Senza libertà, Ellade, che saresti tu mai? senza di te, Ellade, che cosa sarebbe il mondo?

— Venite, o Popoli di tutte le zone: guardate: coteste sono le mammelle, che voi quanti siete nudrirono col latte della sapienza; patirete voi che ve le strazzino i barbari?

— Su contemplate questi occhi divini donde si partì il raggio della bellezza, che vi ha illuminato: soffriremo noi che glieli strappino i barbari?

— Ecco la fiamma, la quale penetrando nei nostri cuori gli animò, gli avvivò, ci fece sentire chi siamo, quali dobbiamo essere, i diritti nostri e i doveri, e la libertà: tollereremo che ce la spengano i barbari?

O popoli di tutte le plaghe, venite; accorrete a sovvenire, onde si rivendichi in libertà colei che v’insegnò a vivere liberi.

— Senza libertà, Ellade, che saresti tu mai? senza di te, Ellade, che cosa sarebbe il mondo?

Questo accadeva durante l’anno di grazia 1822: trentadue anni dopo i Greci levaronsi, affinchè altri loro fratelli pigliato da essi soccorso ed esempio, la scimitarra turca rompessero e si costituissero popolo: insomma vollero ampliare quella civiltà, alla quale li chiamavano Dio prima, e poi la origine inclita, lo ingegno preclaro, le memorie antiche e le moderne necessità. Tanto non piacque allora alla Francia, che partorì un nugolo di sicarii, i quali senza neppure imbrattarsi la faccia di catrame come gli assassini d’Irlanda, tratta fuori la penna nella stessa guisa, che lo Indiano cava dal turcasso la freccia avvelenata, infusa prima nel calamaio parte della loro anima prava per annerire lo inchiostro, si accinsero a riassasinare la Grecia con vituperii, che rimbalzando sopra la fronte della Francia ci rinnuovarono il segno di Caino.

— Grecia, che sei tu? strillavano cotesti sgherri della penna; una creatura venuta al mondo tisica, inetta a stare in piedi se le mani protettrici dell’Europa non ti reggono per le briglie. Tu hai faccia di orfana accattona regalata dai liberali di Francia di una tunica sdrucita e di un cercine da bambini. Bada a non chiuderti in seno un cuore, che palpiti, però che noi ti ci abbiamo messo un protocollo e questo ti ha da bastare. Tu vivi in grazia di un protocollo, e le tue ossa, le tue vene, il tuo sangue devono comporsi con gli articoli di lui. Procura di non dimenticare mai che tu sei un’anticaglia ripulita. Intanto per darci saggio che tu sei degna di vivere la vita, che ti destiniamo, fa prova di sapere starti lunga e distesa dentro la bara, che la munificenza nostra ti largì; forse chi sa, anche per te verrà il giorno, che ti cresceremo la profenda, e qualche capo aggiunteremo al tuo armento, ma adesso tu hai a chiudere la porta in faccia ai figliuoli di tua madre, e se battono i denti lasciali fuori a intirizzire al sereno; se minacciati di eccidio gridano al soccorso, tu fa orecchia di mercante, e lasciali ammazzare. Vieni qua, siedi sullo sgabello degli accusati e ascolta i tuoi carichi. Tu non meriti la estimazione dei Governi, avvegnadio le tue terre vadano piene di Klefti e di Palicari, i quali se scomparvero dal Peloponneso, a cento doppi pullularono nella Romelia; tu non sapesti approdare della indipendenza considerandoti noi sempre povera ed infingarda. Rispondi! dove sono i tuoi colti, dove le ferrovie, le vaporiere, gli opificii, le scuole elementari, i licei, le biblioteche, le università, le accademie, i serragli delle fiere, l’opera comica, le commedie dello Scribe, l’acqua di Lobau, e il metodo infallibile per estirpare i calli? Tutto questo ti manca, e non lo puoi negare. E della libertà quale uso facesti? Gherminelle di eligendi, corrotti gli elettori brogli nelle elezioni scandalosissimi. Il tuo governo, postergato ogni pudore, compra i voti; il tuo popolo, ahi! vituperio delle genti, glieli vende. Quale puoi far valere diritto por diventare potenza? Il Turco che, da qualche taccherella in fuori, è il primo galantuomo del mondo, non ti provoca punto, all’opposto scansa ogni occasione di accattare brighe con te; sta sul suo: i tuoi confini rispetta.

Quando ebbi inteso cosiffatte parole io chinai il muso e tanto il tenni basso, finchè una voce interna mi avvertì: — guarda ed ascolta. — Allora levai le ciglia un poco in su, e vidi davanti a me una donna, e questa donna era la Grecia.

Ella teneva appoggiato il fianco infermo ad un sepolcro; calzava sandali logori; dagli strappi della veste apparivano le sue membra emunte dalla febbre; le treccie irte della folta chioma; gli occhi aveva infiammati, come persona, che abbia pianto molto, ed anche adesso ne uscivano lacrime grosse, come i goccioloni precursori della tempesta: nè la procella si fece aspettare, che dalle labbra le scoppiò un turbinio di parole smaniose, le quali suonarono così:

— Fu già in Locri una legge, la quale ordinava, che qualunque cittadino avvisasse concionare il popolo intorno alle faccende pubbliche lo potesse; a patto però, che salisse in bigoncia col canapo al collo, perchè, se proponeva cose degne, ricevesse il tributo di lode che meritava; se poi il contrario, senza perdita di tempo avessero abilità di strozzarlo o buttarlo in mare. Nobilissimo dono del Creatore alla creatura la favella, ma nel presagio degli osceni abusi doveva, a senso mio, statuire che le parole compre, mutate in forma di scorpioni, tornassero indietro a rodere il cuore di quelli che l’avevano vendute. Se nell’un modo o nell’altro fosse stato provveduto, la Francia non avrebbe pianto per la ignominia dei suoi giornalisti: ma poichè questo non fu, udite, genti, le mie discolpe e giudicate la mia causa.

Debole io sono, anzi condannata in perpetua impotenza: però a cui tocca la colpa? Alla Francia e ai suoi compagni, i quali ministraronmi la resurrezione col quartuccio, e col compasso mi misurarono la vita. Di leggeri confesso che senza gli aiuti di Europa sarei tornata ne’ miei sepolcri intera, ma sarebbe santo Cristo se operando il miracolo di Lazzaro, dalla cintola in su lo avesse resucitato, e dalla cintola in giù relitto nella tomba defunto? Compartire ai morti, senso di morte è tale un tormento, che nè anche Lucifero nella sua maligna potenza può dare. Ancora, quando si afferma ch’io mi rilevai pei sussidii di Europa, bisogna distinguere i popoli dai governi; rispetto ai popoli contribuirono tutti; dei governi un solo. L’Austria, consenziente le sorelle della santa Alleanza, a quei tempi pestava come uva matura la Italia, la quale a Torino e in Napoli si arrabattava a schiodarsi di croce. La Francia, intristita per le sofferte umiliazioni, onde far prova di ricuperata salute, in quel torno, siccome le persuadeva la tremenda vanità sua ammazzava i liberi istituti in Ispagna. Chi fu che mi salvò il collo dalle mani dell’Austria? Alessandro I di Russia, Rispetto alla Inghilterra, invece di difendermi, veniva puntellando la rabbia tedesca, non mica alla scoperta, che ciò vietavano le leggi dello Stato, e la paura del Parlamento lo vietava, bensì di soppiatto con insinuazioni perfidissime.

Ma poco monta, se popoli e governi insieme; ed anche voi soli Francesi mi abbiate porto la mano per rilevarmi da terra; dunque voi, ciò facendo, non sapeste accogliere proponimento più generoso di quello, che condannarmi lurida e importuna accattona da questo saziata di obbrobrio, e da quell’altro respinta, a vivere vita peggiore di ogni morte? Ah! ricomponetemi in pace nel vetusto avello, dove mi rendevano veneranda la religione della gloria ed i ricordi dei benefici compartiti alle stirpi degli uomini.

Senno di stato, e naturale discorso di ragione ammaestrano, che se abbiano a restaurare quei popoli soltanto, i quali col desiderio possiedano la potenza di mantenersi galiardi; diversamente lascinsi stare. Muovere i cadaveri per via del fuoco elettrico è prova di cui può giovarsi la scienza, non già la politica. Ora ponete mente, Francesi: o avete ragione nelle contumelie che contro me proferite, e voi foste insensati a rimettermi in piedi; o avete torto, e voi siete barbari, quanto inverecondi, allorchè con bocca obbrobriosa mi proverbiate.

Qual è il popolo, e quale è l’uomo, a cui la Parca filò tutti in oro i giorni suoi? Prima di morire dobbiamo quanti viviamo ricevere il bacio acerbo della sventura, che dove tocca leva il pezzo; e i Francesi pur troppo ebbero a bere le acque amare della umiliazione; ma traccia più lunga lasciò il fumo nell’aria che la esperienza in cotesti loro cervelli. E sì che la storia segnò nelle sue tavole di bronzo, che se la Francia, nel 1815, non fu messa in brani, di ciò deve obbligo alla misericordia del russo Alessandro. I russi non le hanno mai rinfacciato il benefizio; per quanto sembra, non si sono sentiti abbastanza civili, dopo averle donato un cuore, di strapparglielo ad ogni momento e sbatterlo sopra le sue guance avvilite. All’opposto i Francesi non rifiniscono mai di ribbuttarmi in viso il danaro prestato, e non solo non vergognano adoperare il benefizio a mò della borra di piombo, che l’Inghilterra un giorno pose sul petto degli accusati, di lesa maestà, ma si alla scoperta dicono volerlo pretendere e lo pretendono.

Perchè Astii, o Francia, il genio elleno ed il latino? seduta per commiserazione alla mensa del potere ti si è ingrassato il cuore, sicchè, non cape atomo di carità, e pertinace ricusi farti alquanto in disparte, onde prendano posto popoli, che valgono troppo meglio di te. Così rendi altrui la misericordia usata verso di te dal Russo Alessandro? L’Austria, alla quale adesso ti stringi alleata, quando le capitò nelle dita ossute l’aquila semiviva, volle strapparle le penne dell’Alsazia e della Franca—Contea, conquistate dalla violenza di Luigi XIV, e in parte quelle della Borgogna, grancita dalla frode di Luigi XI, re regnatelo, che chiappava gli stati altrui come le Mosche: il Russo contenne l’ustolare dell’Austria, ebbe compassione di te, ti trattò da inferma, ti pose all’ospedale governandoti a mezzo vitto senza vino, e lasciandoti centomila tra Croati, Prussiani e Cosacchi, pedagoghi per insegnarti civiltà. Che cosa saresti oggi, Francia sorella se come a me tre milioni di Turchi, avessero lasciato a te centomila Cosacchi per istruirti nelle regole dell’onesto vivere? Assumi alquanto più di carità e di modestia, Francia nodrita coi rilievi dello Czar, viva in virtù dell’elemosina russa.

Dunque i tuoi scrittori mi promettono, o Francia, che accomodandomi rassegnata ai tuoi voleri, può darsi, che un giorno tu mi faccia capo di gomitolo per dipanarci intorno qualche altro migliaio di anime perse; io comprendo, tu imparasti dalla santa Alleanza cotesto linguaggio mentr’eri schiava, ed ora pretendi insegnarmelo tiranna: io ti avviso a badare che, oltre all’essere turpe, egli contiene in sè tradimento ed inganno. Ricordo quando l’Egitto si sottrasse al dominio della Porta: tu non ti mostrasti per niente commossa dal caso; dicesti ancora ragionevole, che se ne separasse la Grecia; di equilibrio di stati non correva a quei tempi l’andazzo: però siccome il Demonio della pace aveva preso possesso di te, i tuoi sapienti di allora, solenni inventori di motti urbani per onestare cose turpi, e di parole inique per avvilire opere degne, trovarono la dottrina dei fatti compiti per costringere il Mussulmano a trangugiare il boccone, per quanto ostico gli potesse parere. Se al vetusto edifizio casca un trave, andrà a rifascio il mondo per rimetterglielo al posto? Dovrà spargersi sangue umano, per tentare la impresa disperata di restituire la gioventù ai decrepiti? Legge di natura è vivere, invecchiare e morire: — così dicevano i tuoi dottori d’allora, e l’Egitto e la Grecia, travicelli caduti dalla carcassa turca, furono spruzzati con l’acqua santa della legittimità.

Tu interprete ed oratrice per tutti, mi neghi la stima dei Governi; e perchè? Io nacqui di dolore; il latte che porsi a miei figliuoli lo succhiarono non alle mie mammelle, bensì dalle ferite dei fratelli martiri; il mio letto fu nei Sepolcri violati; vinsi, ma nel vincere giacqui a canto al mio nemico e male me viva distinsero dal morto; mi rilevai vacillando, povera, barbara e cieca di ogni lume di scienza nella Patria del divino Platone. Ora se tanto non volge agitata l’acqua della Senna che non possa rimandare indietro la immagine, ardisci affisartici, o Francia, e contempla chi sei. Donata per intercessione dello imperatore Alessandro di statuto liberale nell’anno ventitrè del secolo decimonono ti arrovelli stracciarlo di mano al re Luigi XVIII, che l’ebbe a difendere dai Francesi se non con più valore con costanza pari a quella, con la quale gli Spagnuoli e Palafox difesero Saragozza. Dov’erano allora i tuoi liberali? Tacevano, o se parlavano tu accendevi i roghi pei loro scritti, e pei loro corpi aprivi le carceri. Uscita fuori dal riparo del trono, e tornata nelle tue mani, come adoperavi, o Francia, la tua Libertà? Nel cuore le versasti l’odio; sopra la fronte le scrivesti rivolta; le educasti le labbra alla contumelia e alla ingiuria; allora Carlo X. s’ingegnò adattarle alla bocca il frenello, ed ella gli morse la mano; fugge il Borbone, e di lui vivo raccoglie l’eredità Luigi Filippo. La Francia e l’Orleanese procedono un pezzo di amore e d’accordo accomunandosi fra essi colpe ed errori; quando ecco un giorno irrequieta tu li avvisi instituire i lupercali della Libertà e la mandi in compagnia di Como e di Lieo a levare la contrada a rumore. Luigi Filippo vieta i banchetti, la libertà diventata baccante gli avventa contro la testa la coppa piena di vino, il quale spumando si versa sopra la terra, e da cotesta spuma vinosa nasce una repubblica briaca. I Francesi la guardano, e taluni come fanciulli le danno la baia; tali altri corrono a rimpiattarsi nel canto, quasi fosse loro comparso il trentadiavoli; i più stanno cheti, e attendono a filarle il capestro. Invero ella era mostruosa a vedersi: come nuvola sbattuta dal vento mutava e rimutava aspetto ogni volta più brutto, ma frequentissima ricorreva la forma di donna con le zampe di gatto. La uccidesti un giorno a sassate come si costuma coi Lupi, e tutta festosa fondasti un governo assoluto. Giudica tu se meriti la stima dei governi e segnatemente del Russo, il quale ti era tanto prodigo donatore di Libertà, che per se non ne volle serbare un atomo solo. È fama, che la notizia degli ultimi tuoi casi arrivasse allo Czar Alessandro negli elisi, mentre leggeva in Esopo del Gallo, che razzolando per la spazzatura s’imbattè in una perla, alla quale disse queste parole: — Superba lacrima del cielo pianta dentro la conchiglia dell’Eritreo, va al diavolo con tutto il cuore, perocchè io ti avrei preferito un granello di saggina. — L’ortodosso imperatore sorridendo scrisse sotto col lapis: moralità: — Francia felicitata da Alessandro I di Russia di libero statuto. La intemerata probità dei tuoi costumi si offende della rapace o feroce indole greca, e perciò mi condanni, o Francia, a perpetuo servaggio. Vi pare egli pudore, parvi giustizia questa di qualificare ordinarii delitti tali fatti, i quali sono rappresaglie di offese patite a cento doppii più gravi? E se le morti e i ladronecci sono, e veramente sono, cause per essere messi al bando dei Popoli, avverti, o Francia, tu ti sei condannata. Gabbatrice e Ladra sopra la testimonianza di scrittori vetusissimi ti chiarisce lo storico Michelet11. Cupida più di danaro,che di sangue ti dipinge Niccolò Machiavelli, quantunque di sangue ti mostrasti bramosa anche assai. La prima volta che tu li palesasti a me, e’ fu con la rapina, avendomi abbottinato il tempio di Delfo, venerazione delle genti universale a quei tempi12. Rammento, cosa mirabile e vera, quando sul finire del secolo passato tu calasti sotto colore di libertà a provare nuova foggia di catene all’Italia; Francese, suonò una cosa stessa che Cosacco (s’è vero, il nome di cosacco significare ladro)13, colà dove passavano i tuoi figliuoli non ci nasceva più erba; e la storia registra come in Roma, rapinati i quadri, le masserizie e gli arazzi del Vaticano, per ultimo si attaccassero a portar via le serrature ed i chiodi! Non con tanta religione il sacerdote dopo celebrata la messa rinetta la patena dai minuzzoli dell’ostia santa, come i figli tuoi ripulirono la magione dei papi.

Rispetto a sangue, vienmi appresso, o Francia, che questa è materia da ragionarsi fra me e te sommessamente, onde la terra non ne ricavi causa di disperazione. Nel giorno 3 di giugno 1849 certo Capitano dei tuoi, fuori delle mura di Roma, vedendosi andare incontro un manipolo d’Italiani, messa pezzuola bianca su la punta della spada gridò: — Amici siamo e fratelli! — Enrico Dandolo, generoso sangue Italiano, ordina si sospenda il combattimento, e si accosta improvvido. Adesso mira fratellanza francese! Il Capitano quando lo vede coi suoi a trenta passi vicino, si tira da parte, ed i soldati imbeccati scaricano proditoriamente ammazzando Dandolo, Mancini, Silva ed altri moltissimi14. Ne più, nè peggio commisero gli Austriaci in Brescia, nè a loro importa troppo il titolo di civili; padroni gli fece la forza, e col terrore governano.

A te basta il cuore per domandarmi quale mi assista diritto per insorgere contro il Turco? Poni la mano sulla bocca, svergognata, dei sicarii della penna e vieta loro di proferire intera la sconcia parola. Che cosa potrei rispondere io? Una cosa sola: Sii maledetta!

Secondo la dottrina di codesti sicarii bisognerà interrogare non mica il sagrificatore, bensì la vittima dello scandolo che dà al mondo non si lasciando ammazzare. Ah! voi stracciate il libro di natura e ne sbattete i fogli laceri in faccia a Dio. Tornano i tempi, nei quali Fimbria avventatosi, nei funerali di Caio Mario, contro Scevola ed avendolo percosso, non lo finì; della quale cosa imbestialito costui, strillava volerlo richiamare davanti al pretore: interrogato su qual fondamento rispose: — perchè non si è lasciato ammazzare15.

Tra turco e Greco non ricorre altro patto; e chi crede altramente od è ingannato, o s’inganna. Nemici gli fanno le religioni implacabilmente contrarie, le quali non come presso te sono forme di andazzo o di ipocrisia, bensì senso profondo e parte sostanziale di esistenza; odiatori scambievoli per memoria di antichi e nuovi oltraggi, e avversi per costumi antipatici; pochi i tiranni e ridotti a termine estremo di corruttela; gli oppressi molti e baldanzosi nella fede del prossimo riscatto. In questo modo un popolo non può durare nel dominio di un altro popolo.

I tuoi sicarii questi miei concetti sbeffeggiano e mi ammiccano dietro deridendomi come folle. Sta bene: tal ride la mattina, che piange la sera, Nemesi te riluttante ha sospinto a colpi di flagello nel fatale steccato: ora i destini di Ettore stanno sulle ginocchia di Giove. —

Io Asino, considerando meco stesso sovente coteste parole, con maravigliosa efficacia pronunziate dalla povera Grecia, ebbi a confessare, che se in talune poteva parere ci avesse messo troppa mazza la passione, parecchie altre contenevano tante verità evangeliche. Popolo grande fu il Francese, cucito a toppe principalmente dai Luigi XI e XIV, e tenuto insieme per opera del Robespierre, minestrone di buone qualità e di ree, che il Diavolo rimestando il matterello agitava sempre. Posto nel bellico della Europa, non si poteva muovere, senza che questa si rotolasse per terra come presa da colica; ma con tanta potenza di giovare, nocque più di trenta comete, e ciò perchè si nudriva di contradizioni, meglio che di pane; ed oggi volle perchè ieri disvolle: popolo rompicollo, dal cervello del quale uscivano pensieri degni dei trionfi del Campidoglio, che terminavano poi col meritarsi le forche di Montefalcone; popolo malanno gittato nel mondo come un piè di porco per dare a leva ogni cosa, i suoi sudori erano acqua forte, che dove toccava guastava; popolo arroganza, composta di trentasei milioni di arroganti, ognuno dei quali tirava l’acqua al suo molino; licenziosi per presunzione, non liberi per virtù; sinfonia di matti, dove ognuno musicava per conto suo, reputando se solo volente, e la confusione siedeva a battere la zolfa degli Ermini, — E perchè anche su questo bisogna concludere, dirò che, regnando Luigi XV, i Francesi scopersero i burattini, di quelli col filo, i quali avendo trovato grazia al cospetto reale, tutti posero loro addosso un bene pazzo: ve ne furono dei dipinti dal Bouchre, pittore lodato in cotesti tempi. Cardinali, sguatteri, consiglieri e cortigiane, non esclusa la persona augustissima del re, e quella non meno augusta della Dubarry si vedevano andare in volta deliziandosi a gesti angolosi dei burattini mossi dal filo per di sotto16: regnando Luigi XVI. fecero un’altra scoperta chiamata guigliottina, in riconoscenza del suo inventore, il quale la creò in un estro di carità pel prossimo. Cotesto fu arnese garbato che, giusta quanto accertò il Dottore Guillottin all’Assemblea, aveva la virtù di tagliare il capo ad un uomo, senzachè ei neppure se ne accorgesse; l’arnese trovò grazia al cospetto del popolo, che in quel quarto d’ora la faceva da re, e non si può significare con parole il bene pazzo che gli mise addosso; carnefici e non carnefici smaniavano di trarre in su e poi lasciare andare in giù la fune della mannaia benemerita. Anime buone instituirono legati pii in pro della fanciulla (la mannaia non portava ella il nome di femmina?) Altri la pensionarono, l’Assemblea le votò grazie solenni, ed un municipio (sono pur cari talvolta questi benedetti municipii!) le mandò in dono una cassa di lardoni, perchè ungendosene gli incastri e le carrucole, si mantenesse sdrucciolevole ai servizi del pubblico17.

Il Signor Francesco Maria d’Arouet, o vogliamo dire Voltaire, il quale, nato francese e stato sempre tra Francesi ravvolto, di contraddizione se ne intendeva; il Voltaire, che sottoscrivendosi non preteriva di aggiungere alla firma: — gentiluomo ordinario del Re, — ed imposte le mani sul capo al nipote di Franklin, lo benediceva in nome di Dio e della Libertà; il Voltaire, che fabbricò chiese, assistè alla messa, si comunicava, e poi aizzando la canetteria dei filosofi contro la religione di Gesù Cristo; scriveva: — Venite, disperdiamo l’infame!18 — il Voltaire, sentenziando della umana contraddizione, dettò queste parole, che volte nel mio idioma materno suonano così: —

— Se qualche accademia di letterati si togliesse il carico di stampare il Dizionario delle contraddizioni umane, io mi obbligo fino da questo momento a prendere e pagare venti volumi in foglio.

— Il mondo vive di contraddizioni. Qual sarebbe l’espediente da praticarsi per cacciarle via come meritano? Forse radunare il genere umano in assemblea universale. Ma pensando di che panni veston gli uomini, dubito che non fosse un prendere il male per medicina.

— Due specie io conosco di enti immutabili sopra la terra; i geometri e le Bestie: due regole conducono entrambi, che non variano mai; la dimostrazione e l’istinto: ciò nonostante i geometri qualche volta attaccarono briga tra loro, le Bestie mai19.

Compilinsi i venti volumi in foglio della storia delle umane contraddizioni; altri venti, se vuolsi, se ne aggiungano; tanto non potranno contenere esempio più illustre di quello che presenta l’Asino. Quell’io, che già per terre e per campagne fui segno agli strazii dell’uomo fanciullo, che ora m’introdusse l’esca accesa negli orecchi, ora mi appiccò un cardo sotto la coda, e quando vagellando per lo spasimo irruppi in fuga scomposta, mandando fuori dolorosi guai, egli mi trasse dietro co’ torsi, e bazza fu quando non erano sassi; quell’io, di cui il nome fu ingiuria, e la immagine sigillo di stupida ignoranza... quell’io un giorno gli uomini posero sopra gli altari, ebbi sacerdoti e divoti; nugoli di timiami m’invilupparono, udii le supplicazioni dei prostrati davanti a me; vidi le palme tese, e contro il petto percosse in espiazione dei peccati; non mancarono le sacre offerte; operai miracoli; alle mie immagini appesero voti; in una parola fui Dio.

E tu lo sai; dacchè fu la tua gente, la quale invece di menarmi alla stalla, me repugnante invano, immise nel Tempio. Cornelio Tacito, nel quinto libro delle storie riportandone la cagione, dice, che fu per gratitudine, avvegnadio gli Asini salvatichi insegnassero a Moisè nel deserto le sorgenti dell’acqua. Secondo la opinione dello storico romano, non per opera di Dio, ne per virtù della verga sgorgò la fontana dalla pietra di Oreb, bensì degli Onagri, i quali spaventati dalla moltitudine degl’Israeliti, ripararono in certe loro grotte poste in luoghi ombrosi ed umidi, dove Moisè, scavando, trovò facilmente copia di acque. Su questo io non dico sì, nè no; chino la testa.

L’autorità, da qualunque parte ci venga, è molto terribile cosa: io per me penso, che la ritragga il roveto ardente di Moisè, il quale toccato scottava, e affissato acciecava. Un dotto sacerdote predicando alle turbe intorno alla venerazione dovuta all’autorità, esponeva: — fra gli altri esempi addotti a persuadere l’eretico Giovanni Huss, vera razza di vipere, onde al diritto scelleratissimo della ragione renunziasse e l’autorità a chiusi occhi reverisse, gli citarono quello di una santa religiosa, la quale, mentiti abiti maschili, essendosi introdotta in convento, fu presa ed incolpata di avere incinto una monaca; ed ella tacque, persuasa, giovare meglio alla esaltazione della Chiesa la morte di una creatura innocente, che un vescovo scorbacchiato20. E poichè Giovanni Huss, incaponito nella sua eresia, ostinavasi a ragionare, il sacrosanto concilio di Costanza non gli tenne la fede del salvacondotto imperiale e lo condannò al fuoco.

Mettiamo pertanto da parte Moisè; e speculando sopra gli altri fondatori di religioni, capi—popolo, legislatori ed anco semplici filosofi o settarii, troviamo come tutti reputassero non che utile, necessario partecipare alle persone ed opere loro origine divina. Così Rea Silvia ingravidata al pozzo; Remo e Romolo invece di chiarirsi figliuoli di nessuno, si danno per padre Marte; Numa, desideroso temperare il costume agreste dei primi Romani, immagina Egeria ninfa gentile suasura di miti consigli; Pitagora non repugnò dare ad intendere avergli conceduto gli Dei una coscia di oro, ed Empedocle dopo lunga assenza comparve scarmigliato, la faccia pallida e i ragnateli in capo dicendosi reduce dalle rive acherontee. Se ragguagli la vita di Apollonio Tianeo con quella di Giuseppe Balsamo, o vuoi Conte Cagliostro, tu troverai che confrontano come due gocciole d’acqua. Maometto si faceva spedire proprio dal cielo i Sura o capitoli del Corano; il che era meglio, che mandare lo Spirito Santo dentro un baule, da Roma al Concilio di Trento, se ciò che racconta quel frataccio di Paolo Sarpi fosse vero, come pur troppo conosciamo falsissimo. Tutti i rammentati personaggi, al quali potriensi arrogere Mercurio e Menne tra gli Egizii, Zoroastro tra i Persiani, Confucio chinese, Giano fra i Latini, Melisso appo i Cretesi, Orfeo e Cadomo in Grecia, ed altri parecchi, pretesero incamminare l’uomo verso qualche suo miglioramento, non escluso Maometto, che, vendicati gli Arabi dalla idolatria, volle educarli al culto di Dio, e neppure escluso il Cagliostro, che a fine di conto si travagliava a modo suo intorno alla rivoluzione di Francia e, se avesse potuto, del mondo. A tal fine scansarono la via della verità, imperciocchè questa bene apparisca ignuda come Venere, ma però mostri le costole, più che ad altro somiglievole ad un cristo di Cimabue; nè si pigli un pensiero al mondo di acconciare le strade; anzi pare che cerchi le più dirotte e trovi gusto a insanguinarsi i piedi fra le spine e i sassi; all’opposto provarono per una giravolta più lunga condurcelo calcando il sentiero dello Errore, che allegro picchiando il cembalo, con mille lazzi lo invitava a farsi oltre, mentre gli spropositi suoi figliuoli promettevano spegnere la polvere nella state e spalare la neve nello inverno di su le strade.

Aggiungi, che l’Errore fu conoscenza antica dell’uomo, e appena nato gli cinse con le sue proprie mani le fasce intorno la vita, adulto gli prese domicilio tra la camicia e la carne dando la caccia alle pulci, e morto gli chiuse gli occhi e lo baciò in bocca dicendo: — ora riposa in pace, figliuolo a me più caro di qualunque sproposito partorito dal mio cervello. —

Verace affetto portò l’errore all’uomo; non ingrato l’uomo lo mise in cima ad ogni sua passione: se lo tenne al seno teneramente abbracciato, lo ricercò smarrito, lo pianse perduto: quante volte con preci, con doni e con molto suo incomodo potè ricuperarlo, non si rimase. Ai tempi miei accadde, che l’Accademia di Berlino celebre per le sue scoperte fisiche cavasse buona somma di danaro dal pubblicare l’almanacco annuale, augure, conforme la natura dei lunari, degli eventi meteorologici e politici. Vergognando gli accademici di accreditare spropositi con opera uscita dalle loro mani deliberarono sopprimere questa parte. Sapete voi, che ne avvenne? I compratori scemarono così, che invece di guadagno n’ebbero scapito, e siccome nella lodevole risoluzione perseverarono, tante levarono intorno ad essi querimonie, che a marcia forza si trovarono costretti a rimettere le cose come le stavano prima co’ prognostici, gli indovinelli, eccetera21.

Ancora l’uomo delle cose strane o difficili o inusitate stupendamente si diletta, le agevoli poi e consuete disprezza per la ragione dei contrarii. Alle vietate agonizza, le permesse lascia stare, così persuadendolo il Demonio della contradizione; e se il Padre Eterno non proibiva il pomo, gli è quasi sicuro, che in vece di coglierlo acerbo, lo avrebbe lasciato cascare a infracidire per terra, ed ei sarebbe rimasto nel paradiso terrestre. Inoltre una sua naturale pendenza lo porta al tumido fratello germano dello assurdo ma non importa; purchè appaia specioso ha in tasca il ridicolo. Di questo io raccolsi sicurissimi indizii. Gaetano Savi, cima di uomo nella scienza botanica, quante volte domandava ragguaglio ai suoi scolari, vaghi di studio come il Cane delle mazze, del nenufar o d’altra cotale pianta di nome barbaresco; invece di sentirsi rispondere: — non ne so nulla — con molta maraviglia udiva darle origine chinese per lo meno indiana e virtù mirifiche da disgradarne quanto di più superlativo ci tramandarono Plinio, Teofrasto e Solino intorno alle qualità delle erbe; ed ei lasciava dire, poi sorridendo sottile con piglio motteggevole gli umiliava: — eh! no signore, ella ha camminato troppo; se va fuori di Porta nuova lungo il fosso dello stradone, che mena alle cascine, la ne trova quanta ne vuole. — Così Napoleone Bonaparte, commesso al David dipintore il quadro del passo dell’Alpe di San Bernardo, essendo ricercato del come lo avesse a ritrarre rispose: — dipingimi imperturbato sopra un cavallo irrequieto. — E il pittore legò l’Asino dove volle il padrone. Se io sapeva trattare i pennelli e a me avesse allogato la pittura: — Sire, gli avrei detto, quello che lei ordina non ha senso comune; la non si scaldi, badi qui; se le Alpi fossero monti da passare a galoppo, ma dove starebbe allora la gloria di averli valicati? La storia, invece di appropiare a lei signoria, a Carlomagno e ad Annibale il pregio del gesto ardimentoso, avrebbe scritto accanto al suo nome quello di quanti vetturini, postiglioni e corrieri del continuo fossero andati di su e di giù per le Alpi. Questo suo fatto si vanta per la ragione che in parte fin dove le riuscì andò a cavalcione sul Mulo, poi scese e camminò a piedi; quando all’ultimo nè anco i piedi bastarono, ella se lo ricordi bene, si lasciò sdrucciolare col postione. Vada a cavallo al Mulo e sarà grande; s’incocci a rimanere sul Cavallo, e le daranno la soia. — Infatti Vernet più tardi correggendo la piaggeria del David e la melensaggine del Buonaparte — lo restituì sulle groppe del Mulo, ed il Vernet, tutto che francese fosse, mostrò in questo di sapere quante paia di gambe entrino in uno stivale.

Il rabbino Haseo arruffa il pelo, e nega a spada tratta: — non furono no, egli grida, gli Israeliti popolo prediletto al Signore, che si contaminarono con tanta abbominazione, bensì gli Avei e i Sepavei, colonie Assirie stabilite da Salmanazar, o vogliam dire Sardanapalo in Samaria, poichè l’ebbe vuotata dei terrazzani. La volgata nel libro 4. dei Re22 ecco come racconta la faccenda: — gli Avei si fecero Niba e Tairat. I Sepavei arsero col fuoco figli e figliuole a Andramelec e ad Anamelech dii dè Sepavei; ma il testo ebreo aggiunge dopo Tairtar: — che mai furono questi? Un Cane e un Asino: e dopo Sepavei: — che mai furono questi? Un Cavallo e un Mulo, — Avvertite come prescriva la legge, della quale il popolo Ebreo si mostrò in ogni tempo piuttosto ostinato difensore che zelante seguace, e giudicate se sia colpa od errore la nequissima accusa: non ti fare statua, né immagine di quanto vive in cielo sopra, o in terra sotto, o nell’acqua sotto terra; — non farti dii di argento o di oro: — fammi un altare di terra23. Voi non vedeste forma alcuna nel giorno in cui il Signore vi favellò sull’Oreb di mezzo al fuoco, onde delusi non vi faceste simulacro scolpito, o immagine di uomo ovvero di donna; nè forma di quanti Giumenti vivono sopra la terra o uccelli volano pel Cielo24.

Gli Gnostici, se Epifanio riferisce il vero, ebbero in costume di effigiare Sabaoth, il Dio delle battaglie, col capo di Asino25, e sta bene. Oh! se i Signori Bright, Morrisson, e Cobden, sviceratissimi ai tempi miei della pace universale, avessero potuto acquistare siffatta notizia l’avrebbero pagata un tesoro; come pure è da credersi, che se non la ignoravano i tre Quaccheri26, i quali nel 1853 recaronsi a Pietroburgo per dissuadere la guerra allo Czar Niccolò, di questo avrebbero fatto fondamento nelle esortazioni loro, e: — potentissimo Sire, gli avrieno favellato, bada che le conquiste della pace sono le sole durevoli, rispetto alle altre la carne non vale il giunco; ne darai e ne riceverai; se tu farai le pesche agli Alleati, gli Alleati le faranno a te, e così dopo esservi laceri da una parte e dall’altra vi troverete peggio di prima. Tu non puoi reggere la gente che possiedi, perchè vuoi crescere l’armento? Procura di felicitare i popoli posti dalla Provvidenza sotto il tuo scettro; quando lo avrai fatto, se ti resterà tempo penserai agli altri. Il Dio delle battaglie, il terribile Sabaoth, che entra per tre volte nel Tedeum, hai da sapere che porta capo di Asino; quelle, che lo circondano e a te paiono fronde d’alloro, avverti bene, sono asinine orecchie; a questo pensa nelle solenni meditazioni e trema di avventarlo a desolare la terra. —

Ma poniamo ancora che quanto venni esponendo sia baia: buttiamo tutto a monte; or vo’ vedere, o rabbino Haseo, come ti schermirai alla domanda che ti faccio; — dimmi, se la sai, la causa che spinse Moisè a spaccare le tavole della legge sopra la testa dei figli d’Israele? Eccolo eccolo scritto nel capitolo XXXII doll’Esodo, e non si può stingere: causa ne fu il vitello di oro, che, lui assente, si costituirono Dio. Ora io dico; se i discendenti di Abramo adorarono un Vitello, oh perchè non possono avere venerato un Asino? Non ci corre mica un tiro di schioppo fra l’Asino e il Bue. Certo questo ha le corna, ma oltrechè in materia di santità le corna non fanno caso, io che come filosofo sperimentale ebbi vaghezza di assaggiarle tutte, mi provai una volta di apparire nel mondo con un paio di corna in capo, e Fozio nella Biblioteca, e Filostrato nella vita di Apollonio Tianeo ne porgono testimonianza27: Eliano lo descrive esponendo le maraviglie delle corna e di lui, e non poteva fare a meno28.

Il Cuvier, sperpetua vera di ogni portento, si ruppe l’ugola a negare le corna all’Asino, come se le fossero sue, e ardì sostenere addirittura che Asini con le corna non ce ne potevano essere e non se n’erano mai visti. Non se n’erano mai visti? Sicuro eh! quando si appicca il cervello coda all’aquilone e si manda a viaggiare per aria, gli Asini con le corna non si possano vedere, ma io ai tempi miei ne incontrai non pochi a Livorno, parecchi a Pisa, moltissimi a Firenze, nè in Francia certo, specialmente a Parigi, erano reputati miracoli. Le corna, signori miei, spuntano fuori da un momento all’altro così alle Bestie come all’uomo, e ne sia prova quell’antico Genuzio Cipo pretore, il quale passando le porte di Roma sentì crescersi all’improvviso due corna in capo; su di che consultati gli auguri risposero: sarebbe stato re se tornasse in Patria. Genuzio elesse l’esilio perpetuo, dimostrando con questo come chi zela la Patria davvero lo può fare del bene anche con le corna. In memoria non peritura del caso i Romani ordinarono s’ingroppasse una testa di bronzo sul limitare della porta dond’egli uscì, la quale di ora in poi chiamarono Rauduscolana da raudera, che nella nostra favella suona bronzo29. Queste cose credevano i Romani nati, com’essi vantavano, a dare leggi al mondo, e dagli storici loro erano tenute degne di tramandarsi alla lontana posterità!

Di tutte le ragioni addotte a chiarire impossibile il culto dell’Asino presso gli Ebrei, la più spallata è quella delle leggi, che lo proibivano; come se forse leggi e cancelli non paressero essere messi a posta per far nascere la voglia nell’uomo di saltarci sopra. Anche ai Cristiani erano vietate le immagini; in primis, perchè la legge vecchia non essendo stata tolta di mezzo, nè corretta dalla legge nuova, l’antica restava in piedi; di più San Paolo, che avendo udito favellare il Signore, doveva conoscere delle sue intenzioni più in là di Gregorio II, scrivendo ai Romani gli ammonisce: — Cotesti uomini, che si vantavano baccalari solenni, al paragone si mostrassero matti, imperciocchè la gloria di Dio incoruttibile nella immagine dell’uomo corruttibile mutassero30. — Così la legge. La pratica dei Cristiani consumò col precetto, facendoci fede Minucio Felice scrittore del secolo terzo, che nei primordii della Chiesa eglino non costumassero altari, nè tempii, nè immagini. L’autorità dei Concilii confermò la legge; il Concilio d’Illeberis ordinando al canone 37: — piacque si togliessero le pitture di Chiesa, affinchè quello, che per noi si adora, non andasse scarabocchiato su le pareti. — Più solenne il Concilio VII Costantinopolitano composto di trecento trentotto vescovi di Europa e di Anatolia, dopo sei mesi di deliberazione, bandì blasfematorio ogni simbolo di Gesù Cristo, tranne l’Eucaristia: il culto delle immagini pagano. Per ultimo il Concilio di Francoforte convocato da Carlomagno, col voto di trecento sessanta vescovi, dichiarava il culto delle immagini baggianerìa espressa. I teologi e i dottori non mica eretici, tutt’altro, ortodossi bagnati e cimati misero il coperchio alla dottrina; Gregorio Cassandro con queste parole: — il culto delle immagini crebbe smisuratamente e con ingiuria della Chiesa infinita, avvegnadio volessero piaggiare le voglie o piuttosto gli errori del popolo, il quale pur troppo non cammina meno eccessivo dei pagani nella faccenda di fabbricare idoli, di più fogge vestirli, con brutte venerazioni adorarli; — Tertulliano con queste altro rimbrottando i pagani: — Una cosa ammiro nei vostri Dii, ed è, che li trovo fatti con la medesima materia dei vostri vasi. Coteste fredde statue così rassomigliano ai morti che rappresentano, che i Topi ed i Ragnateli le scelgono per metterci i nidi: — e il Dante in rima.

«Fatto v’avete Dio di oro e di argento,
E che altro è da voi all’idolatre,
Se non ch’egli uno, e voi ne orate cento?»31.

Se cosa al mondo poteva considerarsi finita, sembrava avesse ad essere questa. Oh! va che la indovini. Leone III, vergognando che i Maomettani sberteggiassero i seguaci di Cristo a cagione della loro idolatria, un bel giorno immaginando meritare bene di Dio vieta le immagini si venerassero, ordina dalle Chiese di Costantinopoli rimuovansi, e con esse i vani ornamenti; assai risplende l’Eterno con la sua gloria; manda commissarii nelle province, affinchè vigilino, i suoi precetti intorno al restituire la Chiesa di Cristo nella sua primitiva austerità sortiscano esecuzione, e poi si frega le mani preannasando il profumo delle lodi, che immaginava sentirsi diluviare addosso. Misero lui! Non l’avesse mai avuta siffatta tentazione! In Bisanzio, sotto i suoi occhi gli ammazzarono gli operai, che travagliavano a levare la immagine di Cristo di su la porta del proprio palazzo; ribellaronsi i popoli; nell’Arcipelago, allora chiamato mare santo, le sue armate rilevarono fiera sconfitta, i suoi marinari trucidati: con gl’Italiani ebbe a sostenere guerre infelici; tanto funestò la strage dei Greci e dei Romani le sponde del Po presso Ravenna, che per sei mesi i rivieraschi si astennero dal gustare i pesci del fiume, come quelli che comparivano ingrassati di sangue umano; nè qui finisce la dolente storia di Leone Isaurico e degli Iconoclasti; l’impero orientale andò diviso per sempre dall’Italia; nè in Ravenna, nè altrove rimase più vestigio di lui32.

Non furono mai vedute nel mondo cristiano tante immagini come quando le furono proibite; ai Concilii illeberitano e bisantino ne fu opposto un altro, che fu il secondo di Nicea, dove trecento cinquanta vescovi fecero sapere che i trecentotto predecessori loro nell’episcopato furono imbecilli, Atei, e dodici di meno; intorno a quello di Francoforte dissero, che veramente v’intervennero dieci vescovi di più, ma come Asini rinforzati di furfante non facevano numero, e poi essendo cotesto Concilio provinciale, non reggeva in paragone del Concilio Costantinopolitano VI, che fu ecumenico e per di più legittimato dal papa.

In mal punto posta in campo l’autorità del Dante, dacchè il padre Saverio Bettinelli della Compagnia di Gesù, presa la penna, aggiungeva alle lettere Virgiliane questa appendice: — per ultimo avverti, benigno lettore, che se l’Allighieri fosse stato qualche cosa di buono non l’avrebbero bandito da Firenze, ed invece di stillarsi il cervello a mettere eresie in terza rima, sarebbe rimasto a casa a tenere bene edificata monna Gemma Donati sua moglie, che fu una pasta di zucchero, allevare i figliuoli nel santo timore di Dio ed avanzare le faccende domestiche nell’arte dello speziale33.

— Bene stà; ma la parola di Dio come la si scarta da voi? — Ci vuol altro per confondere i preti, i quali ecco citarti dottori della Chiesa che l’insegnano, le scritture abbisognare d’interpretazione, e il commento doversi preferire al testo in ogni caso, anche quando lo contradice apertamente; così santo Agostino, il quale non dubitò sostenere, che la Scrittura in quanto a sè non avrebbe senso che valesse, dove la Chiesa con l’autorità sua non la confermasse e con la sapienza dei commenti non la chiarisse34. Dunque, rabbino Haseo, che farnetichi co’ tuoi divieti umani o divini? Sopra gli altari non una, ma dieci volte e venti furono esposte immagini così dipinte, come scolpite, e di strane fogge abbigliate; nè di Gesù soltanto, della Madonna e dei Santi, ma di Dio e della Trinità altresì, malgrado la sentenza dei Concilio secondo di Nicea, la quale dichiara: — non doversi rappresentare con figure ed immagini la Divinità, sostanza semplice, ed incomprensibile; nè presumere di onorare con cera o con legno una essenza suprema ed eterna35, — e nonostante il Concilio di Trento, mosso da verecondia, dalle immagini di Gesù Cristo e dei santi in fuori di ogni altro tacesse. Ed io Asino ricordo avere contemplato una immagine della Santissima Trinità ritratta con tre teste, come si danno al cane Cerbero guardiano dello Inferno, le quali s’innestavano sopra di un corpo ignudo, che in mezzo della pancia mostrava il bellico! Pittura non so se più profana o burlevole, ma certo empissima a un punto e ridevolissima, escusatrice l’errore di cotesta pinzochera, che recitando il pater noster in latino (lingua di cui, come per ordinario accade ai fedeli cristiani, non conosceva un’acca) sostituiva alle parole da nobis hodie, donna bisodia; laonde interrogata, per donna bisodia che intendesse, rispose; — in quanto a sè non saperlo, ma ricordarsi di avere sentito dire più volte alla sua nonna buon’anima, donna bisodia essere la mamma del Padre Eterno36.

Ed ecco come, quando e perchè i Cristiani mi venerarono Santo: incomincio dagli umili per salire di mano in mano ai più magnifici gesti. Quando sbucato fuori dai deserti apparve Pietro l’eremita a scombussolare da capo in fondo l’Europa e travasarla in Asia, le genti stupite non si contentarono riverire santo unicamente l’Eremita, ma vollero distendere la santità alle cose, che spettavano a lui, e quindi anche al suo Asino; e fin qui non ci era male; il male fu in questo altro che smaniosi dì possedere reliquie di Pietro, e non riuscendo a chiapparlo, ch’egli si sottrasse con la fuga al pericolo di essere messo in brani per divozione, si avventarono a me meschino e con religiosa violenza mi pelarono la coda37. Genova, un tempo nobilissima città del mare Tirreno, adorò reliquia la coda dell’Asino, che intiepidì coi suoi fiati l’aria dintorno al divino Infante nel presepio di Betelemme, e lungamente la serbò sospesa su la porta della Chiesa di Santa Maria di Castello38. — La Casa di Santa Croce venuta ab antiquo da Gerosolima a Roma, tra i più cari tesori della famiglia, custodì la coda dell’Asino di Balaam39. In breve parlerò della pelle intera; adesso mi giova ricordare la coda dell’Asino di Verona, la quale involata (pietoso furto!) e trasferita in Ginevra, quivi rimase, quantunque sentisse freddo, finchè perdutasi cotesta città nella eresia di Calvino, presa da dolore e da sdegno, la coda ortodossa fuggì via domiciliandosi a Genova. Donde si cava che le sante code dell’Asino, ospiti di Genova, sarebbero state due, e così credo ancora io40. Ora vorrei, che mi sapeste dire, qual santo o qual personaggio sortisse l’onore di vedere post mortem i capelli suoi avuti in tanto pregio. Per me rovistando nelle antiche e nelle moderne storie, da due in fuori non ne trovo altri: Berenice (ma non fu santa41) di cui la chioma venne assunta nei cieli, e san Pietro, un pelo della barba del quale spedito per uomo a posta da Alessandro II Lucchese a Gulielmo bastardo normanno ebbe virtù di fargli vincere e ammazzare l’emulo suo Aroldo, nella battaglia di Hastinghs42. Onde per questo caso si comprende come illepido corresse ira i Fiorentini quel proverbio: — e’ vale quanto un ghirabaldano, che ne danno dodici per un pelo di Asino. — Santo reputarono l’Asino di Santa Verdiana, e davvero fu martire, dacchè volendolo tutti i fedeli cavalcare per devozione, non istette quasi tre giorni, che il poverino scoppiò; dal quale esempio un prudente uomo, esperto nelle vicende del mondo, traeva materia per avvertire certi ufficiali di certi governi rattoppati alla peggio, adempissero al debito, dallo zelo soverchio si astenessero, contemplassero sempre il caso dell’Asino di santa Verdiana, che per farsi troppo cavalcare crepò con querimonia grande della Chiesa e pari scandalo delle anime pie; però ci perse il ranno e il sapone, che costoro tirarono innanzi di male in peggio, finchè tornò il giorno, nel quale la Pazienza, scrollate le spalle indolenzite, disse: — basta! — e per questa volta vi so ben dire, che la pagarono cara, avvegnadio l’offensore si addormenti sul seno della Superbia, mentre l’offeso chiama il Rancore a tenergli i libri della ragione, ed ogni giorno le fa tirare il conto di sorte e interessi... capitale di vendetta! interessi di sangue!

Più lunga orazione desidera da noi l’Asino di Verona. Dopo che Gesù Cristo ebbe fatto l’ingresso trionfale in Gerusalemme, è fama benedicesse l’Asino che cavalcò, dandogli licenza di ridursi a vivere in qual parte meglio gli talentasse. L’Asino in prima, come ogni Asino dabbene costuma, visitò la Palestina che gli fu Patria, e poi ebbe vaghezza di peregrinare in terre straniere. Nello zaino non portava altro viatico che la facoltà di operare miracoli, e non vi paia poco; quindi percosso dello zoccolo il mare gli disse: — diventa sodo! — e il mare eccolo diventar duro più dello zoccolo, che lo aveva battuto. Allora si condusse a Rodi, salutò Candia, si rinfrescò la bocca con un arancio colto di su l’arbore a Malta, vide fumare l’Etna in Sicilia, e corruscare per la notte Stromboli, e le Isole minori; poi bel bello costeggiando le terre, che furono più tardi felicitate dal papa Pio IX e dal re Ferdinando II. pel golfo Adriatico giunse a Venezia; vale a dire nei luoghi dove sorse Venezia; colà non gli si confacendo l’aria e non trovando per cotesti isolotti a sufficienza pastura e non salata, riprese il viaggio, e su per l’Adige entrò in Verona. Qui salito sul campanile, girati ch’ebbe intorno gli sguardi, disse: — questa terra è buona — e sceso giù vi prese casa, e credo anche moglie. Ivi venerato visse, finchè pieno di anni e di gloria lo chiamarono i cieli. Rispetto a lui non gli gravò la partita, anzi ne fu lieto, quasi invitato a nozze come quello, che troppo bene sapeva di barattare questo per un mondo migliore; il rammarico strinse coloro, che si lasciava dietro, i quali l’amarezza infinita dell’animo con ragli così prepotenti e prolungati manifestarono che per trent’anni i Veronesi con tutti gli abitanti del distretto dintorno a Peschiera patirono di sordaggine. Poichè i divoti di Verona gli ebbero fatto i funerali onorevoli e belli, lo scorticarono e ne riposero la pelle dentro un ritratto di lui scolpito in legno da valentissimo maestro, la quale anche ai miei tempi si conservava con sommo giubilo e non minore edificazione di tutti i fedeli. — Questa santa reliquia fu custodita nella Chiesa della Madonna degli Organi, e quattro monaci del Convento col piviale addosso la portavano solennemente a processione due volte l’anno43.

Io non voglio tacere, come in dispetto delle testimonianze, autorevoli non meno che copiose, le quali facevano indubbia la mirabile storia, si levassero increduli, che la sberteggiarono mettendola ad una stregua col famoso catino di smeraldo, tutto di un pezzo, conservato un tempo nel tesoro di san Giorgio a Genova, dentro il quale affermano, fosse presentata ad Erodiade, mentre stava a cena, fra le altre frutta la testa mozza di san Giovanbattista. Di vero questo arraffarono i Francesi, e portatolo a Parigi, mediante le industrie chimiche chiarirono null’altro essere che vetro colorato. Su di che mi si porgono alla mente due bellissime considerazioni, che vale il pregio di esporre; la prima delle quali è, che per conoscere se smeraldo fosse il catino ci fu bisogno di cimento chimico, ma se la pelle fosse d’Asino, no; che i Membri chiarissimi dello Istituto di Francia, vedutola appena caddero tutti d’accordo nel giudicarla, avvegnadio pelle di Asino senza tanti arzigogoli da se stessa a colpo d’occhio si palesi; la seconda considerazione rileva assai più, e consiste nel credere, che il catino fosse in sostanza smeraldo vero, ma che il Signore abborrendo, una tanta ricchezza capitasse tra gli artigli dei repubblicani (il pendolo francese, per quel secondo, dalla tirannide monarcale aveva oscillato alla tirannide repubblicana), lo convenisse allora miracolosamente in vetro verde, per restituirlo poi al pristino stato di smeraldo vero, appena venissero i monarchisti a riscattarlo; almeno io Asino aristocratico la penso così, e a parere mio fu errore grande non sottoporlo a nuovo esperimento dopo la restaurazione. Ora essendo stata omessa la seconda prova, la storia del catino resta intatta al pari di quella dell’Asino di Verona, ed è chiaro44.

Questi i fatti dei Cristiani, ma non manca il diritto. Lo so, che il fatto troppo spesso nasce dalla forza, e il diritto dalla ragione, onde i Sassoni usavano frequentemente certo loro vecchio proverbio, il quale diceva: — cento anni di forza non valere un giorno di diritto45; — però io aveva visto sempre nel mondo, che in un giorno di forza si concludeva più che in cento anni di diritto, però che questo sia infingardo, e quando la forza con un calcio nel postione lo caccia fuori di casa a ruzzolare per la strada, egli si rizza in piedi, si ripulisce i gomiti e i ginocchi, raccatta il cappello, e guardata un pezzo la casa, si cava di tasca un calamarino di corno, lo svita, e su di uno straccio di carta sugante scrive con la penna d’oca un bocconcello di protesta; ciò fatto l’accartoccia per bene, la ficca nel buco della serratura e vassi con Dio a serenare sotto un albero mormorando le parole: — In te, Domine, speravi; non confundar in aeternum. In quanto alla forza, è altra cosa; ella esce fuori dai quartieri dei soldati, dove attese ad ubbriacarsi e a far di peggio, e urlando come bestia infellonita, scrive la risposta con la punta della baionetta sul petto ai vinti. Il mio diritto pertanto viene esposto dal venerabile Claudio vescovo taurinense con queste parole: adorinsi gli Asini, conciossiachè sopra un Asino Gesù Cristo abbia condotto il suo trionfo in Gerusalemme46. Infatti, innanzi di entrare nella santa città, il Giusto disse ai discepoli: — andate nel castello che vi sta dirimpetto, e subito troverete un’Asina legata ad un puledro con essa: scioglieteli e menatemeli47. A quelli di Gerosolima quale ambasciata mandò egli a fare? — Dite alla figliuola di Sion: ecco, il tuo re viene a te mansueto e montato sopra un Asino, che porta il giogo48. — Nè, mancato l’Asino, sariasi potuto verificare la profezia di Giacobbe ai suoi figliuoli: — non sarà tolto lo scettro a Giuda, e il condottiero uscirà dal suo fianco, finchè venga quello che sarà mandato, e la gente aspetta; questi legherà il Somarello alla vigna, o figlio mio, e la sua Asina alla vite: laverà la sua camicia nel vino e la sua giubba nel sangue dell’uva49.

Su di che mi consiglio avvertire così di straforo quanto disforme corra con l’andare dei tempi la qualità delle cose. Nei giorni, che brevi ed infelici vissi nel mondo, io vidi gli uomini mandare al bucato le camicie e le tovaglie lorde di vino o di altra sozzura: ai giorni di Giacobbe tuo avo, a quanto sembra, la lisciva facevano col vino: nè basta; ai tempi miei i cerusici badavano con diligenza che il trafelato e ferito non raffreddasse e la temuta scarmana col cavare del sangue o con bevande rinfrescanti blandivano: alla rovescia in Omero guarda Nestore, che tratto fuori dalla battaglia a salvamento Macaone impiagato nella diritta spalla, attende da prima a esporlo al vento, onde temperi la vampa delle membra sudate, e poi lo conforta per ristoro con una mescolanza di cipolle, vino, cacio di capra grattato e farina. Domine, aiutaci! E non si creda mica, che in questa guisa operassero per ignoranza, però che lasciando anche stare Nestore, il quale pure va celebrato come svegliatissimo fra i principi Achei, tu hai da porre mente, che Macaone nasceva proprio dal Dio della medicina Esculapio; nè, per quanto Omero cantò, in cotesti tempi viveva nel mondo cerusico, che gli stesse a petto per levare dardi dalle piaghe e spargerle di stille balsamiche, sicchè i Greci lo tenevano in pregio di medicatore divino50. Se tale pertanto occorre differenza nei modi di lavare i panni sudici e del morire, immagina come a mille doppii più immensa avesse ad essere nelle morali, che presentano fondamento men fermo; ond’io risi di coloro, che portando il cervello sopra la berretta, dopo cinquanta secoli ed oltre, presumevano, secondo gliene chiappava il frullo, giudicare o vizii o virtù le azioni compite dagli uomini in coteste età remotissime; e tanto basti in proposito, ch’io non vorrei intricarmi in materia troppo difficile.

Per le cose esposte non poteva fare a meno il Signore di favorirmi con predilezione del tutto speciale; ed invero accadde così, imperciocchè nelle leggi scritte a dettatura sua da Moisè, abilitati i Giudei a riscattare, mediante l’offerta di un Capretto, i primogeniti dei figliuoli e degli Asini loro con parole espresse: — ma riscatta con un Agnello o con un Capretto il primogenito dell’Asino o fiaccargli il collo: riscatta ogni primogenito d’infra i tuoi figliuoli51; — gli altri animali poi tratta da bastardi. Poco prima con la medesima legge sembra che raccomandi la santificazione del sabato, quasi pel motivo unico, che in cotesto giorno riposino l’Asino e il Bove mio fratello vero nella ingratiludine e nei danni patiti dagli uomini: — sei giorni fa le tue faccende e nel settimo riposati, acciocchè il tuo Bue e il tuo Asino abbino requie52. — Senza dubbio i reverendi Padri Gesuiti ebbero in mente questa legge, quando ai tempi miei si spogliavano in farsetto, onde i cristiani nel giorno di domenica cessassero le opere.

Potrei anche riferire fatto più insigne circa le virtù del Cuculo, messa a pari e forse anteposta a quella della divina sostanza, che non lice nominare alla leggera, ma io me ne passo; avvegnadio se santi erano, come racconta la Leggenda, i solitarii del monte Baix, i quali predicavano sapere di certo, che chiunque desiderasse la salvazione dell’anima non aveva a fare altro, che provarsi a mangiare un poco innanzi alla agonia un Cuculo arrostito, bisogna confessare ancora che fossero matti53.

La religione di Maometto e quella di Gesù Cristo nacquero come due polloni sul ceppo del Giudaismo, e non si può negare, quantunque quella errore, questa verità; e veramente esse si odiarono a modo di fratelli nemici: uguali a Eteocle e Polinice, in corpo alla madre contesero, usciti al mondo si odiarono, messi insieme sul rogo, quasi il furore sopravvivesse alla morte, divisero in due punte la fiamma. Contrarie in tutto le due religioni, accordaronsi a volermi ad ogni patto in paradiso. Cerca nel Corano, e vedrai che fra le sette Bestie sortite alla gloria dell’assunzione nei cieli, due fossero razza asinina, l’Asino di Agazi e la sua sposa Borac, cavalcatura prediletta al Profeta54. Anche presso i Gentili Sileno cui mi condusse nell’Olimpo, ma non per restarci, e lo mostrò in altro luogo; mi ci condusse anche Ochio re di Egitto, consentendolo i preti, e questi per fermarci stabile dimora; imperciocchè nell’Egitto i sacerdoti si attentassero sottoporre il re, del pari che il popolo, ad un giogo di timore di Dio, ed attaccarli entrambi all’aratro; ma il re che si trovava a possedere le mani di granito chiappò il prete per la collottola e lo costrinse a piegare come arco teso; allora costui guaiolando profferse ad Ochio le chiavi del paradiso, come di città vinta, e perchè lo lasciasse vivere gli promise di vigilarne l’entrata in forma di gabellotto a riscuotere i pedaggi per conto suo55. Di qui la prosunzione di Ochio di mettere gli Asini in paradiso, e più tardi dei re di Francia di comandare a Dio e vietargli perfino di operare miracoli, come fu visto, regnando Luigi XV, al Camposanto di san Medardo, dove appiccarono un bando, che specificava così:

«Per la parte del Re si mette ostacolo
Che in questo luogo Dio faccia miracolo56».

L’ufficio santo, che presso i cristiani tenne l’Evangelio, il mio teschio lo sostenne presso i Gentili: temuto e creduto fu il giuramento preso a mano aperta su le ossa del mio capo, nè per le cose lievi soltanto, ma nelle gravissime eziandio, e più specialmente in quelle dove la fede degli uomini pare che vada più a ritroso. I re di Sicilia a simile scopo ordinarono che nel tempio di Bacco si conservasse il teschio dell’Asino, sul quale la donna incolpata di adulterio affermando la propria innocenza andava assoluta57: però tu immagina quanto mi conturbasse confusione e rovello, allorchè io lessi adoperato da Mona Tessa moglie di Gianni Lotteringhi mezzano di adulterio; perocchè se Federigo di Neri Pegolotti, che fu suo amante, lo vedesse sul palo della vigna volto verso Firenze, era segno che la notte poteva andare sicuro in traccia degli abbominati abbracciamenti; se poi rivolto verso Fiesole, restasse58. Ma che volete? Le femmine e gli uomini altresì per saziare i loro strani appetiti, ben altre cose hanno fatto, che profanare teschi di Asino. — Gli Etruschi, di cui i monumenti ci palesano quale e quanto popolo ei si fosse, consentivano al mio cranio virtù miracolosa per modo, che lo tenessero sempre inghirlandato di erbe fresche su di un palo alle prode dei campi per fecondare la terra, preservarla dalle intemperie e soprattutto poi per allontanare le streghe; il che da Popoli anche più moderni si è veduto praticare59. E come i Cattolici sogliono appendere a canto il letto la palma e l’ulivo benedetti, e i più facoltosi il Cristo di argento su la Croce di ebano, con l’angiolino in fondo, il quale sostiene con la manca una secchia di acqua santa, dove, poveretto! affogherebbe di certo, se non fosse invitato dietro le spalle, e con la destra leva in alto l’aspersorio, che pare una mazza di capotamburo; i Pagani ci appiccavano il Calvario o vogliamo dire teschio di Asino60, inesausto e pio dispensatore di sogni giocondi alla stirpe degli uomini.

Nè a me mancherebbero esempii di culto in altre parti remote della terra; ma poichè io non voglio contendere la palma all’Anson e molto meno a Cook di girare il mondo dintorno, così mi rimango contento di averti chiarito abbastanza come gli uomini, i quali un dì mi ficcavano l’esca accesa dentro gli orecchi, appeso cardi sono la coda, avvilito con le scede, rincorso a sassi, pesto con le bastonate, un altro poi o matti o briachi, o l’una cosa e l’altra insieme, mi assumessero su gli altari e mi adorassero Dio.



Note

  1. [p. 241 modifica]Rara temporum felicitas ubi sentire quæ velis, et quae sentias dicere licet. Corn. Taciti, Hist. I. 1.
  2. [p. 241 modifica]Ci porsero i Giornali Americani, che la Signora Bloomer, che volle incominciare la riforma delle donne col farle vestire da uomo, fu uccisa dal marito con una pistolettata; ai discreti parve un pò troppo.
  3. [p. 241 modifica]Regum IV., c. 2. n. 23.
  4. [p. 241 modifica]Roggero Barone Opus magnum. Graal, Coppa che raccolse il sangue di G. C., chiunque la miri aggiunge 500 anni alla sua vita; andò smarrita, e il ricercarla fu lo scopo dei Templarii: Michelet, Hist. de France, t. 3, p. 130.
  5. [p. 241 modifica]Jaussin. t. 1, p. 114.
  6. [p. 241 modifica]Jarda, misura inglese di due braccia circa.
  7. [p. 241 modifica]Ecclesiast., c, 1, n. 2.
  8. [p. 241 modifica]Gualtiero Releigh pensò avere scoperto il modo di pesare il fumo riscontrando la gravità del tabacco prima, e dopo averlo fumato; vale a dire le foglie e le ceneri.
  9. [p. 241 modifica]A certo Danese essendo stato domandato quale fusse il cordone celeste del suo paese, rispose ingenuo: lo Spirito Santo del mio Re è un Elefante! Rivist. Britan., p. 154
  10. [p. 241 modifica]Gualtiero nelle (così dette) Memorie Storiche, t. 1, p. 151.
  11. [p. 241 modifica]Io l'ho citato altrove, ma giova ripeterlo, imperciocchè la vanità francese fu tuffata e rituffata nello Stige senza lasciare fuori il calcagno; invano ti proveresti a rimprocciare i Francesi della oltracotanza loro spesso ingiuriosa, qualche volta buffona, sazievole sempre; e' fanno come i cani, dopo una scrollatina tornano a mordere [p. 242 modifica]peggio di prima. «Les Francais, scrive il Michelet, Hist de Franc., t. 1. p. 7, ont aimè de bon heure à gaber, comme on disait au moyen àge. La parole n’avait pour eux rien serieux. Ils promettaient, puis riaient et tout ètoit dit» (ridendo frangere Fidem, Tit Liv) Franci mendaces, l. 7, p. 169 Salvian., e nel l. 4. p. 14 il medesimo scrittore: "Si peieret Francus quid novi faceret, qui periurium ipsum sermonis genus pulant, non criminis, — Franci, quibus erat famigliare ridendo frangere fidem. Flav. Vopis. in Proculo.
  12. [p. 242 modifica]Pausania, Phocica, l. 10, c. 28. Justin., Hist., l. 24, ma a mente di cotesti scrittori non si ricava apertamente se lo saccheggiassero o no; essi affermano essere stati i Galli respinti, e Brenno ucciso: ma anche a quei tempi la gente credeva ai miracoli, e i preti non la tenevano a spilluzzico in questa faccenda.
  13. [p. 242 modifica]Da Kasak, che significa ladro; così Klaproth. Viaggi di Wagner. R. Britan. 1849, p. 65.
  14. [p. 242 modifica]Questo narra nella sua relazione dei fatti di Roma il fratello del tradito Dandolo. Se così i moderni, che diconsi civili, pensate se e quanto gli antichi barbari. Infatti i Galli rotti a Delfo, per accertarsi la ritirata, ammazzano 10,000 prigionieri. Michelet, Hist. de France. t. 1, p. 17.
  15. [p. 242 modifica]Valer. Maxim., l. 7, c. 11. n. 6.
  16. [p. 242 modifica]Giorn. Stor. ed aneddot. del Regno di Luigi XV. Debats, set. 1851.
  17. [p. 242 modifica]Chateaubriand, Mem d’outre—tombe, l. 2, p, 7. — Cantù, Storia di 100 anni A Richeforte, mancato il boia, un popolano si profferse a supplirlo, e fu accettato: poi il rappresentante del popolo lo menò a cena seco, quasi avesse costui un qualche inclito gesto operato.
  18. [p. 242 modifica]L. Blanc, Hist. de la Revol., t. 1, p. 382. — Vedi la Correspondance del Voltaire.
  19. [p. 242 modifica]Diction. philosoph. — Contradictions.
  20. [p. 242 modifica]Ioh. Hassii, Monumenta. Epist.
  21. [p. 242 modifica]Lagrangia narrò questo fatto a F. Arago. Galignanis Messenger, 16 Novembre 1855.
  22. [p. 243 modifica]Cap. 17. r. 30, 31.
  23. [p. 243 modifica]Esodo, c. 20, n. 4, 23, 24.
  24. [p. 243 modifica]Deuteronom., c. 4, n. 15, 16, 17.
  25. [p. 243 modifica]Heinsio Laus Asini, in fine.
  26. [p. 243 modifica]Si chiamavano sturge, Peases e Charleton.
  27. [p. 243 modifica]Bibliotheca, t. 1, p. 112.
  28. [p. 243 modifica]Filostrato, op. cit., p. 37.
  29. [p. 243 modifica]Valer Massim., l. 5, c. 6, n. 3.
  30. [p. 243 modifica]Epist. ad Roman., n. 22.
  31. [p. 243 modifica]Inferno c. 19.
  32. [p. 243 modifica]N. Spedalieri nota al c. 28. della Stor. della Dec. del Romano impero di Gibbon
  33. [p. 243 modifica]L’Allighieri era ascritto alla matricola degli speziali: però che gli statuti della Repubblica ordinassero, chiunque non esercitasse un’arte non potesse conseguire maestrato. Boccac., Vita di Dante.
  34. [p. 243 modifica]Così sfrontatamente ingenua ci fa sapere la Civiltà Cattolica.
  35. [p. 243 modifica]Concilium Nicenum, Coll. vol. 8, p, 1025. — Gibbon, op. cit. c. 49.
  36. [p. 243 modifica]Franco Sacchetti, Novel. 11.
  37. [p. 243 modifica]Guidobal., Novig. I. 2, c. 28.
  38. [p. 243 modifica]Dionomachia, c. 8. n. 6.
  39. [p. 243 modifica]Misson, Voyage, t. 2, p. 148.
  40. [p. 243 modifica]Vulpii in lect. mèm., cen 16, f. 791.
  41. [p. 243 modifica]Callimac. Inn, La chioma di Berenice. — Foscolo, Com.
  42. [p. 243 modifica]Thierry, Storia della conq. dei Normanni, l. 1. p. 500.
  43. [p. 243 modifica]Misson, op. cit., t. 1, p. 161.
  44. [p. 243 modifica]Lady Morgan, Viaggio in Italia, l. 1, p. 164. Ma sbaglia scrivendo, che servì al Messia per lavarcisi i piedi prima dell’ultima cena.
  45. [p. 243 modifica]HEINE, La confessione di un poeta.
  46. [p. 243 modifica]Haseo, Dyatrib., p. 39.
  47. [p. 243 modifica]S. Matthoeus Evang., c. 21, n. 2.
  48. [p. 243 modifica]S. Matthoeus Evang., c. 21, n. 4.
  49. [p. 243 modifica]Genesi, c. 49. n. 11.
  50. [p. 243 modifica]ILIADE, l. 11.
  51. [p. 243 modifica]Essod, c. 35, n. 20.
  52. [p. 244 modifica]Ibidem, c. 23, n. 12.
  53. [p. 244 modifica]S. Gervais, op. cit., t. 1.
  54. [p. 244 modifica]Abulfeda Vita Mohammed.
  55. [p. 244 modifica]Elianus, De Animal., l. 10, c. 28.
  56. [p. 244 modifica]De part le Roi dèfense à Dieu de faire miracle en ce lieu. Voltaire Dicit. phil., convulsions.
  57. [p. 244 modifica]Aldovrandus, de quadr. sol., l. 1, p. 168.
  58. [p. 244 modifica]Boccac., Nov. 1, Giorn. 7.
  59. [p. 244 modifica]Pallad., De re rust., l. 1. — Bonifac., Hist. ludorem c. 3. — Haseo, Dyatrib., p. 36.
  60. [p. 244 modifica]Icinius; fab. 274.
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