< L'asino d'oro
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Apuleio - L'asino d'oro (II secolo)
Traduzione dal latino di Agnolo Firenzuola (XVI secolo)
Libro V
Libro IV Libro VI

LIBRO QUINTO


Avendo Psiche disgombrata un poco la mente di tanti travagli, e riposandosi sopra al fiorito seno delle tenere erbette del soave luogo, un lieve sonno allagò le stanche membra di quello obblio, che discaccia in buona parte le tante cure de’ miseri mortali. Dal quale, posciachè ell’ebbe preso un convenevol ricriamento, con più riposato animo risvegliatasi, e’ le venne veduto un verde boschetto di natii e grandi arbori tutto ripieno, entro al quale con cristalline acque sorgeva una fontana, e nel mezzo del fronzuto bosco vicino al corso delle chiare onde della bella fonte nasceva un reale e magnifico palazzo, non da terrestri mani certamente ma da divine arti edificato; nè sarebbe alcuno, che nella prima giunta non giudicasse che così ricco e così bello edificio non fusse d’un grande Iddio. Imperciocchè, lasciamo stare che agli altissimi palchi, intagliati maestrevolmente di avorio e di cedro, sottentravano colonne tutte d’oro massiccio, ma le mura erano di finissimo argento ricoperte; entro alle quali si vedeano animali quasi d’ogni ragione, che pareva che si facessero incontro a qualunque arrivava in casa, intagliati con tanta maestria, che si poteva giudicare che uomo certamente ingegnoso e grande, anzi un semideo, anzi uno Iddio, fusse stato quello che con sì sottile intaglio avesse lavorato quello argento. I pavimenti erano di musaico di finissime pietre e di gioie sottilmente commesse, per le cui commettiture apparivano figure maravigliose: beati veramente si potevan dir coloro ben mille volte, a’ quali era concesso il calpestare i pendenti e le maniglie, come noi facciamo le pietre o i mattoni. Le altre parti della casa, le quali erano senza numero, erano state da buono architettore con convenevole larghezza e lunghezza benissimo compartite, e le mura di oro schietto rilucevano in guisa da per loro, che la casa si facea giorno, ancorchè il sole l’avesse a schifo; e uguale era lo splendor delle camere, così erano luminose le loggie, e in quella medesima guisa mostravano le porte la lor chiarezza. Nè erano le masserizie e gli abbigliamenti disconvenevoli alla maestà di tanto palagio. Sicchè tu avresti giudicato che quella fusse una stanza celeste, edificata per lo gran Giove, volendo egli alcuna volta avere l’umana conversazione. Invitata adunque Psiche dalla grandissima bellezza dello stupendo e maraviglioso luogo, si andava accostando più oltre; e di mano in mano più ardita, se n’entrò dentro alla porta: e prendendo ognora maggior piacere della bella vista, e ora una cosa e ora l’altra riveggendo, ella se ne salse su da alto; e veduto le guardarobe con grandissimo magistero condotte, piene di tante stupende ricchezze, s’immaginò quello che era in verità, che egli non fosse cosa al mondo che quivi non si ritrovasse: e quello che soprattutto la empieva di maraviglia, era, che sanza alcuna chiave, sanza alcuna serratura, senza guardia alcuna si custodiva là entro il tesoro di tutto il mondo. E mentre che ella con suo grandissimo piacere riguardava tanta felicità, e’ le venne udito una voce di corpo ignuda, che all’improvviso offertasele agli orecchi, le disse in questo modo: Perchè ti prendi, o padrona, tu così fatta maraviglia di tante bellissime ricchezze, le quali tutte sono le tue? Èntratene adunque in questa grande e bellissima camera, e messati nel letto, prendi riposo sintantochè da te sia partita cotesta tua stracchezza, e poscia, quando ti piace, vattene in quel bagno: noi, delle quali tu sola ascolti le voci, preste servitrici a’ tuoi bisogni, con gran diligenzia ti amministreremo tutto quello che ti sarà di mestiero: e curato che tu avrai il corpo, egli non ti mancheranno vivande regali, con gran prestezza e con soavità non picciola preparate. Conobbe Psiche la beatitudine della divina providenza, udendo gli ammonimenti delle invisibili voci; e pria col sonno e poscia col bagno discacciata da sè ogni gravissima stanchezza, le venne veduto lì vicino entro ad una bella e ricca stanza, fatta in guisa d’una luna, apparecchiata una tavoletta; ed estimandosi che ciò fusse stato apparecchiato e provvisto per sua ricreazione, tutta allegra là entro se n’entrò: e postasi a sedere a tavola, appena aveva finito di assettarsi i panni sotto, ch’ella vide esserle portato da invisibili spiriti un vino soavissimo, cibi vari, e in grandissima copia, e di finissimo sapore; e senza vedere alcuna persona, non altro di loro co’ sensi godeva, che il suon delle voci che lor cadevano; e sole voci per servire aveva. Levate le tavole, egli entrò dentro uno, e cantò non veduto, e un altro sonò la citara; nè la citara si vedeva; e un coro di più bellissimi e concordevoli suoni e accenti soavemente le empiè gli orecchi; nè alcuno agli occhi suoi si dimostrava. Finiti quei cotali piaceri, essendo già l’ora assai ben tarda, Psiche se n’andò a dormire: e quando la notte era assai ben in là col suo viaggio, udito un piacevole mormorio ingrombrarle gli orecchi, e veggendosi in tanta solitudine, tutta tremante e pavida dubitava della sua virginità, e più le pareva aver temenza di quelle cose che ella manco poteva pensare che nuocere le potessero. E già è presente l’incognito marito, e già è entrato nel letto, e già si ha fatta Psiche sua mogliera: e già venuta l’ora vicina al giorno, egli da lei con gran prestezza se n’è partito: ed eccoti la moltitudine delle voci, che compariscono in camera della nuova donna, e con ogni diligenza curano la ferita della rubata virginità: e quel giorno con gli altri con maravigliosa cura la provvedono di tutto quello che le faceva mestiero. E come è naturale a tutti, la nuova usanza di quelle voci per la lor continua conversazione già le cominciano a porgere grandissimo diletto, e ’l lor suono uno spasso della sua solitudine: sicchè assai contenta si passava le non bramate nozze. I miseri genitori in questo mezzo, sanza saper quello che della lor figliuola avvenuto fosse, nel continuo pianto e nella lunga doglia s’andavano invecchiando. Ed essendo pervenuta la fama del doloroso accidente agli orecchi delle due maggiori sorelle; afflitte e meste, abbandonata la propria casa se n’eran venute anzi al cospetto de’ lor genitori a condolersi con loro di tanta fortuna. E la medesima notte che elleno da casa s’erano partite, il marito di Psiche, il quale dal vedere in fuori non era avaro di soddisfare agli altri sensi, prese a parlare alla mogliera in questa guisa: La crudel Fortuna, la mia dolcissima Psiche, ti tende una pericolosa trappola, la quale con grandissima cautela ti fa mestiero cercar ch’ella non iscocchi: le tue sorelle, turbate per la falsa credenza della morte tua, ti vanno ricercando per ogni contrada, e tosto arriveranno a questo scoglio; delle quali se alcuno lamento ti venisse udito per isciagura, non solamente non risponder loro, ma non ti curar più di riguardarle; perciocchè altrimenti facendo, a me procacceresti dolor grandissimo, e a te la tua manifesta rovina. Acconsentì la mogliera agli ammonimenti del marito, e promiseli di far tutto quello ch’egli le ’mponeva. Ma essendo poscia partito al partir della notte, la miserella con amare lagrime tutto il vegnente giorno s’andò consumando, e dicendo infra sè stessa, che allora conosceva la sua disavventura; posciachè rinchiusa in così bel carcere, priva del colloquio umano, non solamente non potea aiutar le sue sorelle, che per lei cercare fussero affaticate, non con bagno, non con cibo, non con alcuna ricreazione sovvenirle; ma non pur l’era concesso riguardarle. E stata tutto il giorno in questo travaglio, venuto la notte, se n’andò a dormire: nè vi andò guari, che il marito tornato un poco più avaccio che l’usato, entratosene accanto a lei, e abbracciandola e baciandola, che ancora piangeva amaramente, come se di lei si volesse dolere, le disse: Così adunque, la mia Psiche, mi hai osservato la promessa? che poss’io dunque tuo marito più ripromettermi del fatto tuo? che sperare? posciachè il dì e la notte, e in mezzo a’ dolci abbracciamenti, dai luogo al tuo dolore? Governati oramai come ti piace, e ubbidisci all’animo tuo chieditor de’ tuoi danni; e ricordati almeno delle mie amorevoli parole, quando, benchè tardi, ti pentirai di questi tuoi folli pensieri. Allora ella con pieghevoli parole e con dolci lusinghe, e dimostrando di voler morire se egli non le consentiva ch’ella potesse mirar le sue sorelle, confortarle, abbracciarle, baciarle, e ragionarsi con loro, fece in modo ch’egli fu forzato a voler quel che voleva la sua nuova donna: e soprappiù le concesse ch’ella donasse lor quella quantità d’oro, di perle, di gioie e d’altre robe, ch’ella volesse. E poscia infinite volte l’ammonì, assai sovente la minacciò, molte volte la pregò ch’ella non fusse sì sciocca, ch’ella mai si lasciasse persuadere dal loro pernizioso consiglio, ch’ella ricercasse della forma del marito; e mossa da questa sacrilega curiosità, non si gettasse da lei stessa dal monte di tanti innumerabili beni nel profondo di tutte le miserie, e privassesi de’ congiugnimenti del suo caro marito. Posciachè Psiche lo ebbe ringraziato infinite volte, già tutta divenuta lieta, li disse: Prima muoia io, il mio dolce consorte, ben mille volte, ch’io mai perda la tua dolce compagnia: io ti amo, io ti adoro, e sii chi essere ti vuoli, io ti voglio ben come all’anima mia, nè con esso Cupidine ti cambierei: ma d’un’altra cosa ti vo’ pregare ancora, che tu comandi a quel tuo sergente Zeffiro, che in quella guisa ne conduca qui le mie sorelle, ch’egli ne condusse la tua mogliera. E appiccandogli certi confortevoli baci e saporiti, e con dolci abbracciamenti stringendolo, e colle dilicate membra accostandoseli, aggiunse queste così fatte carezze: Mia dolcezza, mia contentezza, marito mio, anima soave della tua Psiche. E offertoli le dolcezze dell’ultima mensa di Venere, così vinse lo innamorato Amore, ch’egli, ancorchè malvolentieri, tutto lieto le promise ciò ch’ella addomandava. E mentre che egli fra le materne dolcezze si stava, accortosi che l’Aurora voleva lasciar solo il suo Titone, egli si tolse delle braccia della sua Psiche, e volò via. Già erano le sorelle arrivate a quello scoglio, dove sapevano che Psiche era rimasa; nè sappiendo quivi altro che farsi, straccati gli occhi col pianto, percossesi le mammelle colle mani, e colle unghie stracciatesi le molli guance, facevano così sconcio romore, che il suono delle lor grida, sforzando i sassi e le caverne di quello scoglio, forzarono la misera Eco ad affaticare la voce sua: sicchè avendo più fiate chiamata Psiche per il suo proprio nome, la nuda voce portò il penetrabil suono delle loro stride agli orecchi di lei. Perchè ella quasi fuor di sè per una subita paura che l’assaltò, udendo le repentine grida, uscitasi di casa, se ne corse laddove elle si lamentavano; e disse: Perchè indarno vi affliggete voi con così miserande lamentazioni? perchè sì stranamente vi dolete? quella che voi piangete, è presente: lasciate le meste voci, e rasciugate le bagnate guance, poichè voi potete abbracciar colei ch’era cagione che le lagrime piovessero sì largamente, e che i lamenti volassero sì altamente. E così dicendo, chiamato Zeffiro, e ricordatili i comandamenti del suo signore, gli disse, che al palagio ne le portasse. Ed egli obbedientissimo, allora allora, senza alcun loro affanno, con lieve aura le condusse al desiato luogo. E posciachè con amorevoli abbracciari e lieti baci, posto le due freno alla doglia, si godevan l’una l’altra le tre sorelle, Psiche, piangendo per l’allegrezza, disse loro: Entrate nelle nostre stanze, e ricreate le afflitte anime insieme colla vostra Psiche. E mostrando le ricchezze dell’aurea casa, la bellezza del luogo, e facendo pervenire alle loro orecchie l’obbediente suono della popolosa famiglia, entro a un gentile bagno, e a mensa non con umane arti fabbricata, con regali vivande abbondantemente le ricreò. Ma la sazietà e la gran copia di quelle celesti ricchezze già aveano entro al petto delle due sorelle stuzzicato il veleno della rabbiosa invidia; nè restava una di loro di domandare Psiche punto per punto, filo per filo, e segno per segno, chi fusse il padrone di quelle maravigliose ricchezze, chi fusse e come fusse questo suo marito. Nè ella però obbliata de’ comandamenti del suo consorte, fece palese pur uno de’ segreti del cuor suo; ma infingendo così alla sprovvista una sua risposta, disse, che egli era un certo bel giovane, nel cui bel volto appena appariva alcun segnuzzo di barba, il quale i più de’ suoi giorni per li boschi dietro alle fiere se n’andava spendendo: e dubitando che alcuna nota del precedente parlare non le scoprisse i suoi segreti consigli, avendole in prima cariche d’oro e d’ariento, e d’altre robe d’infinito pregio, chiamò Zeffiro, che subito le riportasse. E mentre che le venerabili sirocchie se ne ritornavano a casa, avendo già il fiele della invidia allagato lor tutto il petto, elle andavano con assai dispettose parole così fra loro ragionando della semplice Psiche; e finalmente disse l’una: O cieca, o crudele, iniqua Fortuna, così ti è paruto giusto, che fra quelle che sono d’un medesimo padre e d’una medesima madre generate, si conosca tanta disagguaglianza, che noi, che le maggiori siamo, ci troviamo maritate, anzi vendute per ischiave a mariti stranieri, lontano dalla patria nostra, dalla casa nostra, e da’ nostri parenti, in peggior luogo che se noi fussimo andate in esilio; e questo rimasuglio, il quale lo stracco ventre ha gittato fuori nell’ultimo parto, oltre a tante ricchezze, gli è concesso godersi uno Iddio per suo marito, che non sa ella stessa che cosa sì sia così fatta ventura? Vedesti ben, la mia sirocchia, quali robe sono in quella casa? quanti pendenti, quanti vezzi, quante maniglie! che gemme vi rilucono, che veste vi risplendono, quanto oro vi si calpesta! Che se per nostra disgrazia il marito è anche sì bello come ella dice, egli non è donna al mondo che sia più felice di lei: e ch’è peggio, che essendo egli Iddio, e’ farà tanto questa lor lunga consuetudine, e tanto lo stimolerà il coniugale amore, ch’egli sarà costretto far diventare ancor lei una Iddea: anzi l’ha già fatta per mia fede; così si portava, così faceva: già ha dritti gli occhi nel cielo, già rende odor di divinità quella donna, a cui le ignude voci servono come donzelle, a cui obbediscono i venti come famigli: ed io tapina, la prima cosa, ho avuto un marito più vecchio di mio padre, più rimondo che una zucca, più voto che una canna; il quale non è buono se non a guardar la casa, e serrarla con mille stanghe e con mille catene. E l’altra allora: Lascia dire a me, che ho a sopportare un marito torto bistorto, che non ha giuntura addosso che e’ non se ne dolga; il quale appena di cento anni un tratto, e quello male, mette i rugginosi e debili ferri nel mio giovine orticello; nè mai c’è altra faccenda col fatto suo, che stropicciarli le dita; e sai, la mia sorella, ch’egli è come toccar le pietre a fargli le fregagioni o alle braccia, o alle gambe, o presso ch’io nol dissi: e pensa da per te, come quelle puzzolenti medicine con panni sudici e con gl’impiastri fetenti mi conciano queste mie dilicate mani: nè sono verso di lui i miei ufficj quelli della buona moglie, ma quelli d’una affaticata fanticella. Eh la mia sirocchia, egli mi par che con troppo paziente animo, anzi servile (io dirò liberamente come io l’intendo) che tu comporti cotanto oltraggio: io per me non posso sofferir sì felice fortuna caduta nelle costei mani indegnamente. Non vedevi tu con quanta superbia, con quanta arroganza ella si portava con esso noi? e come con quella vanagloriosa ostentazione ella dimostrava quel suo animo gonfiato? Non ponesti tu mente, che di tante ricchezze come malvolentieri la ce ne diede questa picciola particella? e come tosto, offesa dalla nostra presenza, ella comandò al soffiar de’ venti, che ce ne rimenassero? Nè mi parrà mai esser donna, nè viver certamente, insino a tanto ch’io non la fo tombolar giù di tanta felicità: e se la comune ingiuria t’ha acceso l’animo ancora a te, come sarà conveniente, amendue penseremo del modo, e prenderemo sopra di ciò saldo e buon consiglio. Queste cose che noi portiamo, a me non par che noi nè a’ nostri genitori nè ad alcun altro le dimostriamo; anzi fingiamo di non avere avuto notizia delle sue prosperità; e quello ch’avemo veduto noi, che ce ne rincresce, non lo bandiamo a tutto il popolo: nè sono già ricchi coloro, le ricchezze de’ quali conosce nessuno: e in questa guisa ella si accorgerà che noi non le siamo schiave, ma sì ben sorelle maggiori. Andiamo al presente da’ nostri mariti, e ritorniamo a veder le nostre povere cose, e poscia armate di miglior pensieri con gran punizione assalteremo la sua incomportabile superbia. Piacque come buono alle due pessime il pessimo consiglio, e ascosi quei grandi e ricchi tesori ch’avea lor donati la buona Psiche, con isparsi crini e simulati pianti, colle loro cattive novelle rinfrescarono il dolor de’ miseri genitori; e così mal consigliate, piene di veleno, e infuriate, ordinando contro alla incolpevol sorella lo scellerato inganno, anzi procacciandole la morte, se ne ritornarono alle lor case.

Non restava in questo mezzo infra i suoi notturni ragionamenti il non conosciuto marito di ammonire la sua mogliera; e le diceva: Tu non ti accorgi, la mia Psiche, in che rovina accenni la Fortuna spingerti, standoti ancor discosto; nella quale se tu non ti avrai diligentissima cura, fattasi più vicina, ella ti farà rovinare senza fallo alcuno. Le perfide puttanelle, con quello sforzo ch’elle possono il maggiore, ti vanno ad ognor tendendo mille lacciuoli, de’ quali questo è il maggiore, ch’elle ti vogliono persuadere che tu veggia il volto mio; il quale, come io ti ho già predetto più fiate, tu non vedrai: però se da quinci innanzi quelle pessime streghe verranno da te con sì perverso animo (io so certo ch’elle verranno), non parlar loro per niente: e se pur per la tua natural semplicità, e per la tenerezza dell’animo tuo, egli non ti dà il cuore di fare il mio volere, almeno non porger gli orecchi a cosa ch’elle parlino del marito, nè risponder cosa del mondo. E noi già, la mia dolcezza, moltiplicheremo la nostra famiglia; che porta seco questo tuo giovincello ventre un altro giovincello, il quale, se nasconderai i nostri segreti, sarà divino, se gli discoprirai, sarà mortale. Brillava Psiche, e per lo sollazzo della divina progenie tutta ardeva di letizia: rallegravasi per la gloria del futuro figliuolo, e della dignità del materno nome si godeva grandemente; e già piena di sollecitudine divenuta e i vegnenti giorni e i preteriti mesi numerava; e riguardando i principj della nuova soma, non poteva non maravigliarsi che di sì picciola puntura fusse tanto gonfiato il ricco ventre, nè se ne poteva dar pace a modo alcuno. Già era venuto il tempo che quella mortal peste, quelle spaventose furie, soffiando veleno come le vipere, navigavano alla volta della sua rovina; laonde il momentaneo marito, che di ciò s’accorse, con queste nuove parole la sua moglie confortava: Il giorno ultimo, lo estremo caso, lo infesto sesso, lo inimico sangue già ha preso l’arme contro di te; già hanno mosso il campo, ordinate le squadre, dato il segno; e già le tue iniquissime sirocchie colle spade ignude non vanno altro chieggendo che la tua gola: oimè! da quanti travagli siamo noi assaltati, la mia Psiche! abbi pietà di te e di noi, e con religiosa continenza libera dal soprastante infortunio la casa, il marito, te, e cotesto nostro figliuolo; nè volere quelle scellerate donne (cui dopo il pestifero odio, dopo il troncar del vincolo del nostro sangue, egli non ti è lecito di nominar sorelle) o vedere, o udire, quando poste sopra dello scoglio colle spaventevoli voci elle faranno i sassi rimbombare. E Psiche allora, singhiozzando, che appena s’intendevan le sue parole, rispose: Tu hai veduto già più tempo fa, per quanto io mi do ad intendere, la esperienza della mia fede e delle mie poche parole, nè per lo avvenire sarà da te manco approvata la fermezza dell’animo mio; e però comanda di nuovo al nostro Zeffiro, che usi con loro il medesimo uficio dell’altra volta; e invece del tuo negato sacrosanto cospetto, lasciami fruire la vista delle mie sirocchie; e per questi tuoi d’ogni intorno odoriferi e scherzanti capelli, per le tenere e ritondette guance, e in ogni parte simili alle mie, se io almeno in questo pargoletto riconosca la immagine tua, pregato dalle pietose parole della supplice e affannata tua donna, consentile il frutto de’ sirocchievoli abbracciamenti, e ricria l’anima della tua divota e obbligata Psiche: nè altro più ricerco io del tuo bel volto, nè mi dan più noia le notturne tenebre, purch’io tenga te mio lume e mio splendore. Da queste e altre simili parole e dolci abbracciamenti incantato lo innamorato marito, rasciugando le di lei lagrime co’ suoi capelli, fu forzato prometter ciò che ella desiderava. E poscia, anzi che le stelle avessero reso al sole il lume loro, partitosi Amore, lasciò Psiche soletta, come era usato, entro al suo letto. In questo mezzo le due concordevoli sorelle, senza pure aver fatto motto al padre loro, montate in nave, senza aspettar buon vento altrimenti, per forza di remi, per la più corta drizzarono le navi verso il nominato scoglio; e arrivate ch’elle furono, non iscordatosi Zeffiro del regale comandamento, presole nel grembo della spirante aura, ancorchè contro a sua voglia, le pose appiè del bellissimo palagio. Ed elleno senza alcuna dimora entratesene dentro, abbracciando e baciando la lor preda, e ricoprendo il seno delle lor frode col mentito nome della sirocchia e con allegro volto, così l’andavano adulando: O Psiche nostra, non fanciulla più oramai ma donna, posciachè tu se’ madre, quanto nostro bene pensi tu di portare entro a cotesto grembo! con quanta allegrezza allagherai tu tutta la casa nostra! O beate a noi, cui empierà di letizia quello che è fra tanto oro nutricato; il quale se, come è necessario, risponderà alla bellezza del padre, io non dubito che egli nascerà un altro Cupido. E simulata in questa forma una carnale affezione, pigliavano i passi per assaltare a man salva il disarmato animo della semplice sorella. E come prima col sedersi un pezzo elle ebbero discacciata la stanchezza della via, la buona Psiche, fattole passare entro a certe magnifiche stanze, con ottimo vino e soavissime vivande le ricreò. E posciachè furon levate le tavole, comandato alla citara che parlasse, egli si udì la sua melodia; a’ flauti, che sonassero, esse ascoltarono i dolci accenti; a’ conserti, che spiegassero le lor note, esse sentirono i lor canti: le quali musiche tutte, senza che alcuno si vedesse, con soavissima melodia pascevano gli animi di tutti coloro che l’udivano. Ma egli non furon però così dolci, ch’egli rammorbidassero la perfidia delle scellerate femmine, le quali, annestando ragionamenti che conducessero la povera Psiche ne’ destinati lacci delle lor frodi, senza che paresse lor fatto, la cominciarono a domandare chiunque fusse questo suo marito, e di che schiatta venisse la chiarezza de’ suoi maggiori. Allora ella per soverchia semplicità, dimenticatasi del parlare dell’altro giorno, trovò un’altra sua nuova favola, ch’egli era d’una grandissima provincia, e trafficava di molti danari, e che egli era già arrivato a mezzo il viaggio del comun corso dell’umana vita, e appunto allora cominciavano i crini, ove uno e ove un altro, a imbiancarsi. Nè dimorando guari in questo ragionamento, avendo loro di nuovo empiuto di preziosissimi doni, le rendè alla ventosa treggia. Le quali mentre che dal tranquillo fiato del soave Zeffiro erano rimenate verso casa, con parole così un poco soprammano ragionando, disse una di loro: Che diciamo noi, la mia sirocchia, di quella sconcia bugia di quella pazzerella? Poco fa era giovanetto colle guance appena di tenera lanugine ricoperte, ora di mezzo tempo, sopra de’ cui crini è già cominciato a nevicare. Chi è quegli, il quale essendo giovane, che in sì picciolo spazio divenga vecchio? niente altro ritroverai, la mia sirocchia, che o questa pessima femmina infinge una grandissima menzogna, o ella non sa come si sia fatta la forma di questo suo marito: delle quali cose sia quale essere voglia, egli è da sterminarla di tanto bene: e s’ella non conosce il volto del suo marito, ella è sanza dubbio alcuno maritata a uno Iddio, e porta dentro al ventre un altro Iddio. Oh io ti dico ben, che se io udissi mai che costei fusse madre, la qual cosa tolga Iddio, d’un divino fanciullo, che io mi appiccherei per la gola: e però ritorniamo in questo mezzo dal nostro padre, e alla tela del nostro primo parlare tessiamo quelle maggior fallacie che noi sappiamo; e ritornando poscia da costei, vedremo con ogni miglior modo di dar effetto al nostro ragionevole pensiero. Nè prima fur giunte, che stimolate dalle furie della pestifera invidia, che giorno e notte le molestava, detto addio assai rincrescevolmente a’ lor genitori, di notte tempo messesi in via, la mattina a buon’ora se ne giunsero all’usato scoglio: e d’indi col solito aiuto volatesene alla casa di Psiche, e fattosi collo stropicciarsi gli occhi piover giù un rovescio di lagrime, con questa nuova trappola parlarono alla fanciulla: Tu felice e beata ti stai certamente per la ignoranza del tuo male, senza esser de’ tuoi pericoli curiosa; ma noi che con estrema diligenzia avemo cura alle cose tue, per li tuoi danni siamo miseramente cruciate. Noi avemo inteso per cosa certa (nè a te il possiam celare, ben che appena soffra l’animo di raccontarlo, tanto è sì grande infortunio), che uno smisurato serpente, il quale tuttavolta sta colle venenose fauci per imbrattarsi del sangue tuo, nascosamente si giace teco tutte le tue notti. Ricordati al presente dello spaventevole oracolo di Apolline, il quale disse che tu eri destinata alle nozze di un’atroce bestia. Molti lavoratori e cacciatori, che quivi intorno costumano di ritrovarsi, e altri paesani lo videro iersera, tornando da cibarsi, andare qua notando per questo fiume vicino; e tutti affermano per una voce, che le sue carezze non dureranno molto, ma ch’egli, come più tosto il tuo ventre sarà vicino all’ora del desiderato parto, essendo allor più grassa e più piena, ti divorerà. Oramai sia tuo il pensiero, se tu vuoi prestar fede alle parole delle tue sorelle sollecite per la tua salute, e schifata la morte, viverti con noi sicura da tanto pericolo; o veramente, sprezzando il nostro consiglio, brami piuttosto rinchiuderti nelle viscere di quella bestia. E sebben la solitudine di queste voci, questa solitaria villa, e i puzzolenti e pericolosi congiugnimenti della non veduta Venere, e i velenosi avvolgimenti di questo crudel serpente ti dilettano, a noi basterà aver fatto l’uficio delle buone sorelle. Udendo la povera Psiche così fatta novella, come semplice e tenera d’animo ch’ella s’era, tanto timore la sopraggiunse, che uscita fuor di sè, e dimenticatasi de’ buon ricordi del marito e delle sue promesse, ella si gittò nel profondo del pelago delle sue calamità; e divenuta nel volto come di terra, e tremando a foglia a foglia, con parole tronche, e con inferma voce, disse: Voi, le mie carissime sirocchie, come era convenevole, avete osservato il debito uficio della vostra pietà; e coloro che vi hanno detto così gran cosa, non credo già che dicano le bugie; perciocchè io non ho mai veduto il volto di questo mio marito, nè seppi mai di che gente o donde egli si fusse: ma ascoltando alcune sue notturne voci, mi ho sopportato un non conosciuto animale, e uno che è nimicissimo della luce, e come molto ben dite voi, una qualche bestia, la quale sempre mi ha fatto paura con questo suo aspetto, e minacciatami d’una gran rovina, ogni volta ch’io sia curiosa di volerlo vedere. Ora se voi potete, procacciate alla vostra inferma sorella qualche giovevole medicina: soccorretemi oramai, e fate che la straccurataggine degli ultimi rimedj non guasti il beneficio de’ primi provvedimenti. ritrovato adunque le scelleratissime donne il nudo animo della meschinella colle porte aperte, lasciati i coperti lacci da canto, impugnate le spade, con manifeste frodi assaltarono le sue paurose cogitazioni; e disse una di loro: Perciocchè il vincolo della nostra origine non ci lascia a beneficio della tua salute scorgere alcun pericolo, noi ti metteremo per quella strada, che, secondo da noi è stato più e più fiate pensato, sola ti può condurre al bramato porto della tua salute. Prendi adunque un ben arrotato rasoio, e ascondilo in quella parte del letto dove tu se’ solita giacere; e abbi una buona lucerna piena d’olio, che faccia il lume chiaro, e nascondila dietro ad un panno d’arazzo o ’n qualche altro simile luogo, sicchè ella non apparisca in modo alcuno; e dissimulato tutto questo apparecchio, aspetterai la sera. E posciachè egli colli suoi soliti ravvolgimenti se ne sarà salito in sul suo letto, che tu ’l sentirai russare, scesa del letto, a piedi ignudi, pian piano andra’tene con sospesi passi a pigliar quella lucerna. Posciachè tu avrai scoperto il lume, tu potrai col tuo valoroso ardimento prender quel partito che la opportunità sua ti consiglierà; e impugnato il tagliente coltello, alzando la destra con quella forza che tu potrai la maggiore, taglia audacemente il capo del venenoso serpente; e noi poscia non ti mancheremo, bisognando, del nostro aiuto. E come più ratto colla tua mano ti sarai guadagnata la tua salute, con grande sollecitudine ti aspetteremo, menatone teco queste tue compagne; e congiugnendo te donna con uomo, felicemente celebreremo le tue magnifiche nozze. E avendo colle accese fiamme di queste parole riscaldato le viscere della sfortunata, dubitando del fatto loro, per essere state le consigliere di così pessimo consiglio, fattesi portare colla forza dello usato vento sopra dello scoglio, abbandonata la sorella, subito se ne fuggirono. Ed ella rimasa sola, anzi in compagnia delle inquiete furie, e divenuta per la lor rabbia simile alle acque marine, ora verso lo scoglio e ora verso il porto guidava la ricca barca de’ suoi pensieri. E avvegnachè con ostinato animo già inclinasse al doloroso consiglio, ancora in dubbio di sè stessa ondeggiava colla mente, ed era combattuta da infiniti affetti della sua calamità: sollecita, differisce, ardisce, teme, spera, diffidasi, adirasi, s’acquieta; e quello che era più maraviglioso, in un medesimo tempo ha in odio la bestia, e amava il marito. Appropinquandosi nondimanco la sera, con assai sollecitudine ella appresta tutto quello che faceva mestiero intorno al fiero suo proponimento. Già era apparito la notte, già era venuto il marito, e avendo rotto nel campo di Venere le prime lance, già era seppellito nel sonno; quando Psiche, d’animo e di corpo non sana, aiutata dalla crudeltà del suo fato, tutta divenuta fiera, e cangiato il femminil timore in maschio ardimento, trasse fuor la lucerna, e prese il rasoio per insanguinarlo col sangue del suo marito. Ma come più avaccio i segreti del non conosciuto luogo per lo discoprimento del lume si manifestarono, ella scorse di tutte le fiere una mansueta e dolcissima bestia, quello stesso Cupido bellissimo di tutti gl’Iddii bellissimamente dormire; per lo cui aspetto, rallegratosi eziandio il lume della lucerna, divenne più splendido e più lustrante, e il taglio del sacrilego rasoio, eziandio divenuto in guisa d’una stella, pareva che se ne volesse volar verso il cielo. Ma Psiche in su questo principio impaurita, e divenuta del color del bossolo, tutta tremando, cadutasi a sedere sopra delle gambe, non sappiendo altro che farsi, volea nascondere il coltello entro al suo seno; e sarebbele venuto fatto, se non che il ferro per tema di sì gran peccato, volando, non si li fusse tolto di mano. Sicchè priva d’ogni aiuto e d’ogni consiglio, guardando interamente la divina bellezza del divin volto, tutta nell’animo si ricriava, e mirava la bionda chioma dell’aureo capo tutta d’ambrosia profumata: vedea gl’innanellati crini maestrevolmente disordinati pendere sopra della bianca fronte e sopra le purpuree guance; ed era lo splendor loro sì chiaro e sì potente, che il lume della lucerna appariva a fatica: contemplava le rubiconde penne, che dietro alle spalle del volante Iddio in guisa di mattutine rose fiammeggiavano; e godeva a vedere fra le più grosse penne alcune tenerine piume ballare al suono d’una dolce aura che vi spirava: così traboccava di letizia a vedere il giovin corpo e delicato, cotale che Venere non si poteva sdegnare ch’e’ fusse suo figliuolo. Innanzi a’ piedi del letto giaceva l’arco, la faretra, le saette, arme proprie del grande Iddio. Le quali tutte cose mentre che Psiche interamente considerava, mentre che ella quelle arme andava toccando, cacciata della faretra una di quelle saette, e’ le vien voglia di tentar come la pungeva: perchè accostatasela alla polpa del dito mignolo, ella sel punse in guisa, che ne uscì alcune picciole gocciole di sangue. E così la semplicella, senza saper come, da sè a sè s’accese dello amore di esso Amore: e divenuta soverchio cupida di Cupido, postasi bocconi sopra di lui, stemperandosi per lo amor grande, dubitando nondimeno che ’l tempo non passasse del suo soverchio dormire, con lascivi e dolci baci baciandolo, cercava di ammorzare in parte il suo gran fuoco. E mentre che ella, ubbriaca divenuta per tanta dolcezza, non sapeva che farsi, quella lucerna, o per sua natia perfidia, o che la invidia dell’altrui contento la stimolasse, o che pur un subito disiderio di toccare e baciare anch’ella quel bellissimo corpo le nascesse, ribollendo così un poco in sulla cima del lucignolo, ella schizzò una gocciola sulla destra spalla del grandissimo Iddio. O audace e temeraria lucerna, ministerio vilissimo di Amore! tu dunque lo Iddio di tutto il fuoco abbruci? essendo uno amante stato la cagione dell’esser tuo; il quale, per potere eziandio la notte godere il suo disiderio, fu di te il primiero inventore. Sentendosi adunque Amore inceso in quella guisa, subito si rizzò; e per diffalta della manifestata fede, spiegate le ale, incontanente volandosene, si volse tor dagli occhi e dalle mani della infelicissima moglie. Ma ella, come più tosto il vide muovere, preseli con ambe le mani la destra gamba, e stretta tenendola, così pendendo per l’aere il seguitò, sinchè stracca, non potendo più stringere le mani, se ne cascò per terra: nè la volendo però l’amante Iddio, mentre ch’ella così giaceva abbandonare, volato sopra d’uno arcipresso, che era quivi vicino, dall’alta cima tutto sdegnato le disse: Facendo io poca stima, o semplice Psiche, de’ comandamenti della mia madre, la quale m’impose, che riscaldando il petto tuo dello amore del più vile e più vituperoso uomo che fusse al mondo, io fussi cagione che egli ti divenisse sposo, in quello scambio tuo amante divenuto, da te me ne volai: ma io fui in ciò soverchio leggieri, il conosco or troppo bene, chè come destro arciere mi trassi sangue colle arme mie, e feciti mia mogliera, acciocchè io ti paressi una bestia, e che tu mi tagliassi colle arme tue quel capo, in cui dimorano quegli occhi che ti amavano cotanto. Quante fiate ti dissi che tu ti guardassi da questo? con che amorevoli parole te ne pregava io? Ma quelle tue valorose consigliere tosto tosto pagheranno la pena di così bel magistero: a te non darò io altra punizione che ’l fuggir mio. E battendo le penne, insieme con gli ultimi accenti di queste parole se ne volò via.

Rimasa Psiche come una cosa balorda, non sappiendo altro che farsi, riguardando dietro al marito finch’ella il potè vedere, gli avrebbe voluto chieder mercè; ma nè la voce nè la mente erano capaci delle forze loro. Come il volar delle amorose piume portarono Cupido in parte dove non arrivava la speranza di poterlo o prendere o vedere, ella, fuor di sè, accostatasi ad un’alta ripa d’un fiume ch’era quivi vicino, si volse torre dalla penosa vita; e lasciatasi ire, si ritrovò entro al seno delle fuggitive onde. Ma il clemente fiume in onor di quello Iddio che suole alcuna volta mettere il fuoco in mezzo alle acque, dubitando di sè medesimo, con piacevole rivolgimento del corso suo la riportò sopra d’una ripa di tenere erbette e di fiori odoriferi ripiena. Sedevasi appunto allora, per ventura, sulla ripa di quel fiume il rusticano Iddio Pane, e avendo in mano la bella Siringa, le insegnava ritenere entro a sè la dolcezza di tutte le voci; e vicino a lui alquante caprette, rodendo or questo or quel virgulto, scherzavano colle verdi frondi: perchè veduto il piloso Iddio la stanca e affannata giovane, non ignorante delle sue fortune, e di lei tutto compassionevole divenuto, con benigna voce a sè chiamandola, con queste amorevoli parole confortandola, sì le disse: Bella fanciulla, ancorch’io sia un rozzo guardiano di lanosi armenti, nientedimeno per beneficio di molti anni io ho apparato assai cose; laonde, secondo ch’io posso far conghiettura (che è quello che i prudenti uomini chiamano indovinare), a quel dubbio andare, a que’ tremuli passi, a quella soverchia pallidezza, a’ continovi sospiri, agli occhi lagrimosi mai sempre, tu mostri d’essere innamorata agramente: ascolta adunque le mie parole, nè essere così presta a gittarti giù per le balze; ricerca con altra morte spegner la tua eccessiva bellezza; lascia il pianto, pon freno al dolore, e cerca piuttosto colle preghiere mitigare Amore, grandissimo di tutti gli Iddii, e obbligartelo colle parole: la qual cosa ti fia vie più agevol che tu non credi, essendo egli giovanetto dilicato, e lascivo sopra tutti gli altri Iddii. Posciachè il pastore Iddio le ebbe dette queste parole, Psiche, senza rendergli altra risposta, adorata prima la sua salutare deità, senza sapere dove si gisse, seguitò suo viaggio: e innanzi che ella fusse andata gran fatto in là, ella arrivò ad una certa città, nella quale regnava il marito d’una delle sue sorelle. La qual cosa udendo Psiche, subito se ne venne al real palagio, e fatto intendere alla sirocchia, come aveva disiderio di parlarle, subito introdotta dentro, posciach’elle ebber fatte le vicendevoli accoglienze, e che quell’altra la ebbe domandata della cagion della sua venuta, ella le disse: Io so che voi vi ricordate del vostro consiglio, col quale voi mi persuadeste che io con tagliente coltello ammazzassi quella bestia, prima che colle bramose zanne egli m’inghiottisse, che con mentito nome di marito si giaceva con esso meco; ma come più tosto, secondochè noi eravamo rimase d’accordo, io scopersi il lume, e vidi il volto suo, io vidi un divino, un maraviglioso spettacolo: io vidi quello figliuol di Venere, quello stesso Cupido bellissimo di tutti gl’Iddii dolcemente dormirsi; e mentre che io commossa dalla subita vista di tanto bene, e alterata dalla soverchia copia di sì grandissimo sollazzo, io combatteva colla carestia del godermelo (o crudel Fortuna!), la invida lucerna schizzò una importuna gocciola d’olio caldo sopra d’una delle sue spalle; per lo cui dolore egli subitamente risvegliatosi, e di arme e di fuoco armata veggendomi, disse: Tu, che dunque ardisci tanta crudeltà, partiti subito del mio letto, e pigliati le cose tue, ed io mi prenderò la tua sorella (e nominotti per lo tuo proprio nome) per mia cara donna: e detto questo comandò a Zeffiro subitamente, che me ne portasse fuor de’ termini della casa sua. Nè avea Psiche finito appena questo parlare, che la pazza sorella, agitata da’ furiosi stimoli delle false nozze, e da una crudele invidia, che di continovo la rodeva, infinto non so che menzogne, e dato ad intendere al marito, ch’avea inteso non so che romore della morte del padre, d’indi partitasi, se ne montò in su una nave, e dato de’ remi in acqua, il più tosto che potè se ne venne al bramato scoglio. E tratta dalla falsa credenza, sanza guardare che vento si traesse: Prendi, dicendo, o Cupido, quella mogliera che a te solo è convenevole; e tu, Zeffiro, ricevi la tua padrona: si gittò giù di quel sasso; nè ebbe tanta grazia, che almeno così morta ella arrivasse al desiderato luogo; imperocchè lacerando e stracciando le sue membra su per quei taglienti sassi, seminò le sue interiora per quelle balze, e fu pasto delle rapaci aquile e degli altri simili uccelli: e cotale fine ebbe la cieca invidia e la folle speranza della maligna sorella. Nè indugiò lungo tempo la vendetta di quell’altra; imperocchè Psiche con incerti passi arrivata alle sue case, e indottola colle medesime fallacie nella medesima speranza, ella le fece fare un medesimo fine. Non lasciava in questo mezzo Psiche alcuna parte del mondo, che ella non ricercasse, per vedere se potesse il suo caro marito ritrovare, il quale, per la doglia del cociore di quella lucerna rammaricandosi, si giaceva nel letto della sua madre. Allora quel bianco uccello che suole del continuo colle acquatiche anitre guerreggiare, tuffatosi entro alle onde, se ne andò infino nel profondo dell’Oceano; e ritrovata Venere, che notando su per le marine acque si lavava le dilicate membra, accostatosele, le raccontò l’arsura del suo figliuolo, e il dubbio della sua salute, e com’egli, lamentandosi altro non faceva che giacere; aggiugnendo che per comune voce di tutti i popoli oramai si parlava soverchio disconvenevolmente della famiglia di Venere; che Amore per li monti colle meretrici, ed ella per le onde marine diportandosi, dal consorzio umano si stavano sequestrati; perchè egli non si gustava più piacere alcuno, nessuna grazia si scorgeva, niuna gentilezza s’usava: anzi ogni cosa era in dispregio, il mondo insalvatichito, gli uomini rozzi e villani diventati; non nozze sollazzevoli, non amicizie compagnevoli, non amor di figliuoli; ma una pioggia di squallidi congiugnimenti, e un fastidio d’ogni cosa cresceva sopra la terra. Queste e altre simili parole soffiando negli orecchi di Venere, lacerava quel garrulo e soverchio curioso uccello il suo figliuolo. Laonde ella, messa subito una grandissima voce, disse: Adunque si tiene quel mio figliuolo la concubina? deh! di grazia tu, che solo se’ così amorevole ne’ miei servigj, dimmi il nome di colei, la quale ha stimolato per sì fatta maniera un nobil fanciullo senza barba, o se ella è del gregge delle Ninfe, o del numero delle Iddee, o del coro delle Muse, o della famiglia delle mie Grazie. Non celò ancor questo segreto il loquace uccello, e disse: Io non so ben, la mia padrona, le sue qualità, pur mi par essere accorto ch’ella sia donna mortale, e se io me ne ricordo bene, Psiche la ho sentita nominare. Non potè più Venere, udendo sì fatto nome, e raddoppiato, anzi per ognun cento accresciuto lo sdegno, gridò forte: E tanto peggio: Psiche adunque, l’emula della mia bellezza, la mia vicaria, la involatrice del nome mio, ama questo pessimo di tutti gl’Iddii? E quello che mi raddoppia la stizza, che ci sono stata adoperata per ruffiana; posciachè per lo mio mostrargliele, egli ne è amante divenuto. E con queste e altre più querule parole rammaricandosi, con gran fretta uscitasene del mare, se n’andò alla sua aurea camera; e ritrovando esser vero tutto quello che le era stato detto, cominciando a gridare fin dalla porta, diceva: Belle opere son queste per certo, e convenienti alla nostra nobiltà! la prima cosa mettersi sotto a’ piedi i comandamenti della sua madre, anzi della sua signora: e un fanciullo dell’età che se’ tu. prendersi per sua colei, che come mia capitalissima nimica io ti aveva imposto che con vilissimo amore tu cruciassi; e congiugnersi con sì ignobil femmina a’ suoi non leciti e immaturi abbracciamenti, acciocchè Venere avesse a sopportare di vedersi per nuora una sua vil fanticella. Ma tu ti dai forse ad intendere, sciocco che tu se’, guastatore d’ogni cosa, che non se’ buono se non tra il tuo fuoco e fra le tue fiamme, che io sia così vecchia, ch’io non sia più abile ad ingravidare? Io voglio adunque che tu sappi, che io sono per generare un altro figliuolo, il quale sarà molto migliore che non se’ tu: anzi, acciocchè tu ti accorga meglio dello error tuo, io voglio adottare un di quei miei schiavetti, e a lui donar le penne, le fiamme, l’arco, le saette, e tutta la mia masserizia, la quale io ti diedi, a cagione che tu l’usassi ad esercizio migliore; delle robe del padre tuo, non ce n’è alcuna che sia alle tue arti accomodata. Ahime! che tu fusti troppo male allevato nella tua fanciullezza: tu hai le mani troppo ben preparate a far male; e tante volte con poca riverenza hai battuto i tuoi maggiori, e la stessa madre tua, me dico, me medesima, omicida crudele, ogni dì mi vituperi, ogni dì mi percuoti e dispregimi; non altrimenti che s’io fussi una povera vedovella. E in oltre ti fai beffe del patrigno tuo, di quel ferocissimo e gran guerriere; e per mio maggior dispregio e dolore mille e mille volte gli hai procacciate.... Ma io ti prometto di trovar via, che tu sarai punito di cotesti tuoi scherzi, e che coteste tue nozze ti sapranno d’amaro. Ma or che io son la favella di ognuno, che farò io? dove mi volgerò io? in che modo restrignerò io questa tarantola? chiederò io aiuto dalla Sobrietà, che so pur quanto ella mi è nimica, e come per la costui lascivia io l’ho offesa infinite volte? Infine egli mi bisogna sanza fallo alcuno esser con questa villana donna, la quale è sì secca e sì vincida, che io ne triemo: nientedimanco io non posso dispregiare il sollazzo d’una tanta vendetta; e però me la conviene chiamare, ancorchè io non voglia: niun’altra è al mondo che meglio possa gastigar questo cianciatore, sfondargli la faretra, spuntargli le saette, spezzargli l’arco, spegnerli le faci; anzi il corpo suo con aspri rimedj ristrignerli com’ella vuole: allora mi parrà essere in parte soddisfatta di cotante ingiurie, quando io gli avrò tosate quelle chiome, le quali io ho tante volte con lacci d’oro con queste stesse mani ristrette e annodate; e quando io gli averò tarpate quelle penne, che così spesso ristrignendomele in seno, io d’ambrosia ho allagate. E avendo dette queste parole, tutta infuriata, tutta tinta, tutta in collora se n’usci fuori. Allora Cerere e Giunone accompagnandosi con lei, veggendola così conturbata, la presero a domandare qual fusse la cagione, che con sì brutto piglio ella adombrasse la venustà de’ suoi occhi scintillanti. Ed ella: A tempo veramente venite a far violenza al mio ardente petto, per volermi mitigare il giusto sdegno: deh perchè non piuttosto con tutte le vostre forze mi ritrovate voi quella volatile e fuggitiva Psiche? io so ben che egli non vi è nascoso la pubblica favola della casa mia, e l’egregie opere del mio.... anzi nol voglio chiamar più il mio figliuolo. Allora elle, disiderando spegnere in parte cotanta ira, così le dissero: E in che cosa, dicci, padrona nostra, ha fallato Amore, che con ostinato animo tu ti opponi a’ suoi piaceri e desiderj, per rovinar la sua innamorata? per che cagione gli abbiamo noi attribuire a peccato lo aver con suo diletto risguardato una bella giovinetta? Or non sai tu che egli è maschio, e che egli è giovane? se’ ti tu già dimenticata degli anni suoi? e perchè egli ne porti così destra la sua persona, nè barba copre le sue tenere guance, hatti egli però a parere sempre un fanciullo? Tu gli se’ madre tu, e se’ donna astuta e sagace: e spierai tu dunque sempre mai i sollazzi del tuo figliuolo, e in lui dannerai la lascivia? in lui riprenderai gli amori e l’arti tue, e biasimerai le tue delizie in così bel fanciullo? Chi dunque degl’Iddii, chi degli uomini ti potrà oggimai più sofferire? la quale vai per ogni canto i tuoi desiderj seminando, e or non vuoi che in casa tua amino gli Amori, e serri la pubblica bottega de’ presenti delle donne. In questa guisa prestavano il lor patrocinio le due Iddee, per tema delle sue saette, a Cupidine, ancorchè e’ fusse assente. Ma Venere veggendo prendersi altrui in giuoco le ingiurie sue, posciach’elle fur partite, sdegnata più che mai, con velocissimi passi di nuovo se ne prese la via verso l’Oceano.


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