Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Libro V | Libro VII | ► |
LIBRO SESTO
________
In questo mezzo Psiche, per varie parti del mondo il dì e la notte discorrendo, con ogni maggior diligenza ch’ella poteva, andava il suo marito cercando; e pensava intra sè che, ancorchè fusse con lei adirato, ch’egli non fora gran fatto, se non colle matrimoniali carezze, almeno con preghi e uficj servili, renderselo benivolo e proprio. E mentre che ella si stava in questo pensiero, le venne veduto sulla cima d’uno alto monte un tempio; e però disse da sè: e perchè non potrebbe egli essere il mio Signore là entro? E così dicendo, con gran prestezza dirizzò lassù i suoi debili passi, a’ quali ne prestarono e la voglia e la speranza quelle forze, che loro avea tolto il lungo viaggio. Avendo adunque salito quell’altura assai francamente, e accostandosi agli altari della sacrata casa, ella vide molte spighe di grano e assai d’orzo, altre in mazzi, infinite in arrendevoli ghirlande: videvi eziandio un gran numero di falci con tutti gli altri strumenti che si adoperano alla mietitura, ma tutti a caso giacevano distesi per terra, e come interviene, da mani di stanchi lavoratori e offesi dal soverchio caldo gittate così là dove ben lor veniva. Perchè Psiche, come colei che stimava che egli non fosse a proposito d’alcuno Iddio dispregiar la religione, ma da cercar di guadagnarsi di tutti loro la benivola misericordia; fattasi da un canto, ogni cosa compose per ordine, e rimise al luogo suo. E mentre ch’ella assai diligentemente usava il pietoso ufficio, l’alma Cerere sopraggiuntala in un tratto, gridò forte: Ahi poverella Psiche, e degna di compassione, Venere tutta infuriata ti cerca per mare e per terra con ogni sollecitudine, nè altro bramando che il tuo ultimo esterminio, con tutte le forze della sua Deità va chiedendo la sua vendetta; e tu, badando a rassettare le cose mie, pensi ad ogni altra cosa che alla tua salute. Allora Psiche gittatasele innanzi inginocchione, bagnando colle sue copiose lagrime i santi piedi, e co’ suoi capelli spazzando la terra, con umil prece e pietose parole le dimandava perdono, dicendo: Io ti priego per cotesta tua frugifera destra, per le allegre cerimonie delle biade, per li taciti misterj de’ tuoi tabernacoli, per gl’impennati carri de’ tuoi sergenti dragoni, per li solchi delle siciliane zolle, per lo carro rapace e terra tenace, per li descendimenti delle buie nozze di Proserpina, per gli saglimenti de’ luminosi ritrovamenti della tua figliuola, e per le altre cose le quali la sagrestia dell’Attica Eleusi con sacrato silenzio ne tiene ascose; soccorri alla passionata anima della tua supplice Psiche, e consentimi, che io mi asconda in quella bica di quelle spighe almen tanti giorni, che le mie forze debilitate per la lunga fatica ritornino nel suo valore, la mercè di questa piccola quiete. E Cerere: Le tue lagrime mi commuovono e le tue preci, e bramo di porgerti aiuto; ma egli mi è tolto il potere, perciocchè io non mi voglio perder la grazia di Venere: imperocchè, oltrechè ella è una donna dabbene, ed è mia nipote, io tengo con lei una strettissima amicizia. Partiti adunque senza tardanza alcuna di questo tempio, e pensa ch’e’ sia per lo tuo migliore, che tu non sia stata da me nè ritenuta nè custodita. Scacciata adunque Psiche da Cerere fuor d’ogni sua credenza, e affannata per doppio dolore, diede la volta addietro: nè era andata in là molti passi, ch’e’ le venne veduto entro ad un boschetto non molto folto un altro tempio con grandissima arte lavorato; nè volendo lasciare alcuna via, benchè dubbia, che le mostrasse migliore speranza, anzi avendo diliberato impetrar perdono da tutti gl’Iddii, si approssimò alle sacrate porte, le quali, insieme con alcuni arbori che erano all’intorno, tutte di bellissimi doni ripiene si dimostravano, fra i quali erano moltissime vesti; e con lettere d’oro, delle quali elle eran circondate, insieme colla grazia ricevuta manifestavano il nome di quella Iddea. Allora Psiche inginocchiatasi innanzi all’altare, e abbracciatolo con ambe le mani, posciachè si ebbe rasciutte le lagrime, così mosse le preci sue: O sorella e mogliera del gran Tonante, se ora ti ritrovi ne’ vetusti templi di quella isola, la quale del tuo querulo parto, e de’ tuoi primi pianti, e del primiero latte si tien sì cara; o pur frequenti le beate sedi della gran Cartagine, la quale ti adora in forma d’una vergine ascendente al cielo, la mercè del forte lione; ovvero lungo la riva del fiume Inaco, il quale già ti predica moglie del Rettor del cielo e Reina delle altre Iddee, custodisci le inclite mura de’ tuoi cari Argivi; la quale, Zigia chiamandoti, onora tutto l’Occidente, e l’Oriente, appellando Lucina, t’invoca nel tempo del partorire; porgi aiuto, o Giunone, agli estremi miei danni, e libera oggimai la stanca ancilla tua dalla tema dello imminente pericolo. E per quanto io ho più fiate inteso, tu suoli pure spontaneamente sovvenire alle pregnanti, e soccorrere coloro a cui fa mestiero dello aiuto altrui. Supplicando Psiche in questa maniera, Giunone con quella sua augusta dignità, fattasele incontro, le disse: Come vorre’ io, la mia Psiche, per lo sacrato vinculo della fede accomodare il mio favore alli tuoi prieghi! ma contro alla volontà di Venere mia nuora, la quale io ho sempre amata come figliuola, egli non mi sarebbe lecito sanza mia gran vergogna porgerti soccorso veruno: ed inoltre le leggi, alle quali io non posso nè debbo far contro, me lo proibiscono; le quali vietano contro alla voglia de’ padroni il poter raccettare gli altrui fuggitivi schiavi. Impaurita adunque Psiche per la seconda ripulsa, nè dandole più il cuore di ricercare il volatile suo marito, perduta ogni speranza, non sappiendo più altro che farsi, prese fra sè stessa questo consiglio, e disse: Che altro rimedio si può egli ora mai cercare alle mie disgrazie, alle quali le Iddee medesime, eziandio volendo, non hanno avuto baldanza di porgere aiuto? Come scamperò io i miei piedi da’ tesi lacci? in che casa, in che tenebre ascondendomi, fuggirò io gl’inevitabili occhi di Citerea? Che non prendi adunque un virile animo, e renunzii gagliardamente ad ogni vana particella di speranza che ti rerestasse? Rappresentati volontariamente innanzi alla tua padrona, e con una lunga umiltà mitiga i crudeli impeti dell’ira sua. E che sai tu, se colui che tu hai cercato tanto tempo, tu lo trovassi in casa della madre? Fermatasi adunque in questo proposito, e preparata alla dubbia servitù, anzi al manifesto pericolo, andava seco stessa pensando il principio delle future preghiere. E Venere, avendo in questo mezzo rinunziato ad ogni occasione di ricercarla in terra, se n’era andata in cielo, e avea comandato che le fusse fatto un carro, il quale Vulcano con gran diligenzia condotto, anzi ch’ella gli facesse conoscere le dolcezze de’ suoi abbracciamenti, ne le fece un presente. Era inarcato il bel carro in quella guisa che è la Luna, allora quando il fratello, non le potendo per lo componimento della terra porgere tutto il suo splendore, la fa cornuta parere; e il forbito oro, che in ciaschedun corno veniva diminuendo, lo faceva col suo danno parere assai più bello: e delle molte colombe che intorno alla di lei camera dimoravano, quattro candidissime, con allegri passi girando il dipinto collo, sottentrarono al gemmato giogo, e ricevuta la padrona lietamente, spiegarono le ale loro, e accompagnando il nuovo carro con uno stridulo canto, andavano scherzando le lascive passere e altri infiniti uccelli; e co’ loro dolci accenti facevano risonar le valli, e soavemente spiegando le lor voci, annunziavano lo avvenimento di Citerea. Fuggivansi le nugole, aprivasi il cielo alla figliuola, e il purificato aere con allegrezza riceveva la bella Iddea: nè temeva la musica famiglia dell’alma Venere il riscontro delle rapaci aquile o degli affamati sparvieri. Andatasene adunque in questa guisa alla casa del gran Giove, con assai arroganti parole, domandato di Mercurio, gli disse, che seco se ne venisse; perciocchè facendole bisogno di mettere un certo bando, ella aveva mestier dell’opera sua: e così tutta lieta insieme con Mercurio ritornandosene, ragionando seco per la via, gli disse queste parole: Tu sai, il mio fratello, che la tua sorella Venere non ha mai fatto cosa alcuna sanza la presenza tua; e anche so che egli non t’è nascosto quanto egli è ch’io non ho potuto ritrovare una mia ancilla; e però io voglio che colla tua tromba tu metta un bando per tutto il mondo, e prometta a quegli che me la insegnassero un buon beveraggio: fa adunque che con ogni prestezza tu eseguisca il mio comandamento. E a cagione che se alcuno fraudolentemente la tenesse celata, e’ non abbia cagione di difendersi, col dire: io non la conosceva: egli sarà ben che tu manifesti gl’indizj, co’ quali ognuno la possa chiaramente conoscere. E dette queste parole, gli porse una scritta, dove si conteneva il nome di Psiche e gli altri suoi contrassegni: e avendo eseguite tutte queste cose, torse il carro suo inverso casa. Nè lasciò di far Mercurio con ogni diligenzia l’uficio impostogli. E discorrendo per le bocche di tutti i popoli, così esponeva la imbasciata della sorella. Chi avesse o sapesse dove fusse una fuggitiva figlia d’un re, chiamata Psiche, ancilla di Venere, sia contento di andarsene dietro all’oratorio Murzio, e quivi la faccia palese a Mercurio banditore: e Venere per premio del suo indizio è contenta donargli sette dolci baci, e uno, mercè della sua lingua, dolcissimo di tutti gli altri. Avendo bandito in questa guisa, il disiderio di tanto premio aveva acceso l’animo di tutti i mortali a ricercar la fuggitiva donna. Della qual cosa Psiche accorgendosi, rimosso da sè ogni indugio del già preso partito, con presti passi se ne andò verso la casa della sua Signora. Nè fu prima arrivata alla porta, che una delle di lei sergenti, chiamata per nome la Consuetudine, fattasele incontro, con grida quanto mai della gola l’usciva, disse: Tu ti se’ pure accorta finalmente, iniquitosa schiava, d’aver padrona: fingi tu di non sapere, temeraria e pessima di tutte l’altre, quanti disagi, quanti affanni abbiamo sopportati per ritrovarti? ma ringraziato sia Iddio, che tu se’ primieramente capitata alle mie mani, che ben ti so dire, che tu ti se’ già accostata al cancello di quel luogo dove tu pagherai la pena della tua contumacia. E mentre diceva queste parole, messole le audaci mani entro a’ biondi capelli, senza ch’ella facesse alcuna resistenza, la strascinò dinanzi alla padrona. La quale, come prima la vide, con un licenzioso riso, e come soglion far quegli che sono adirati davvero, scotendo il capo, e stuzzicandosi l’orecchio destro, le disse: Tu ti se’ pur degnata alla fine di venire a far motto alla suocera tua! se tu non se’ già venuta per vedere il tuo gentil marito, il quale per li tuoi buon portamenti si potrebbe bello e morire: ma sta di buona voglia, ch’io ti riceverò come è convenevole una buona nuora. E dove sono la Sollecitudine e la Tristizia, mie serve? E fattele chiamare, senza altro dire, la diede loro a tormentare. Le ubbidienti ancille, posciach’ell’ebbero rigidamente fatto il volere della padrona, tutta afflitta e tormentata la presentaron di nuovo innanzi al cospetto di Venere. La quale un’altra volta alzando le risa, disse: Ecco costei che col ruffianesimo del gravido ventre ci crede muovere a compassione. Beata a me, posciachè egli mi farà avola di così chiara progenie! felice veramente, poichè nel fior della mia età io sono chiamata suocera, e un figliuol d’una vil fanticella si sentirà nominare nipote di Citerea! Ma io son ben pazza a chiamarlo figliuolo: le nozze diseguali fatte in villa, senza testimonj, senza il consentimento del padre, non si posson chiamar legittime; e però sarà bastardo questo che nascerà, se noi avremo tanta pazienza, che noi te lo lasciamo condurre al tempo. E il dir di queste parole, e lo avventarsele addosso, stracciarle la veste, e scompigliarle i capelli, e sconquassarle il capo, fu tutt’uno. E posciachè per una volta ella le ne ebbe dato un carpiccio de’ buoni, preso del grano, dell’orzo, del miglio, del seme di papavari, de’ ceci, delle lenti, e delle fave, e fatto un mescuglio d’ogni cosa, le disse: Tu mi par così brutta schiavolina, che io non so pensare in che altro modo tu ti possa guadagnar la grazia di alcuno amadore, se non con una diligente servitù: e io ne voglio veder la prova. Sceglieraimi adunque questi semi di queste biade, che sono in questo monte, e porrai ognun da per sè; e innanzi che sia sera fa che tu me l’assegni in tanti monti, quanti ci son semi differenziati. E dette queste parole, essendo già venuta l’ora, se ne andò a cenare. Non dava il cuore alla poverella Psiche di poter fare l’una delle mille parti del crudele comandamento; e però senza mettersi a sceglierne granello, si stava come una cosa insensata: laonde la picciola contadinella, la diligente formica, mossa a compassione della incomportabile fatica della mogliera di tanto Iddio, e dispiacendole insino al cuore la crudeltà della suocera, senza curar disagio, discorrendo or qui or qua, ragunò tutte le squadre delle formiche di quel paese, e disse loro: Abbiate compassione, o snelli allievi della onnipotente Terra, abbiate misericordia della moglie di Amore; soccorrete con ogni prestezza al grandissimo pericolo della vaga pulzella. Corrono queste, vengono quelle, e come l’onda, l’un formicaio seguitava l’altro. Le quali giunte al desiderato monte, con ogni maggior prestezza attesero a trascegliere quei semi l’uno dall’altro; e compite che ell’ebbono la bisogna, tutte alle lor buche prestamente se ne ritornarono. Nè vi andò guari, dopo la partita loro, che fu là sul ritorno della oscurissima notte, avendo Venere già cenato, tutta di perle incoronata e di vermiglie rose, e riempiendo ogni cosa di odor soavissimo di finissimi e odoriferi profumi, se ne ritornò da Psiche, e veduta la incredibile esecuzione della maravigliosa opera, disse: Non tua faccenda è questa, pessima e scellerata e ingorda femmina, nè delle tue proprie mani, ma di colui, al quale con tua mala ventura se’ tanto piaciuta: e senza dirle altro, prestamente gli portò un pezzetto di pane, e se ne andò a dormire. Stava Cupido in questo mezzo tutto solo riserrato entro alle più segrete parti della casa in una cameretta guardata con grandissima diligenzia, parte perchè egli con qualche lussurioso disordine non fusse cagione che la ferita inciprignisse, e parte per torgli il modo di ritrovarsi col suo disiderio; e così sotto ad uno medesimo tetto sequestrati e disgiunti i due ferventissimi amanti si passarono quella orrenda notte. E poscia l’Aurora col suo rosato carro ne apportava la novella del vegnente giorno, Venere già levata in piedi, e avendo fatto chiamare a sè Psiche, le disse queste parole: Vedi tu là quel fronzuto bosco, il quale è circondato dalle profondissime ripe di quel corrente fiume, i cui più bassi pelaghi risguardano quel fonte vicino? quivi alcune risplendenti pecorelle a loro diletto si vanno liberamente godendo quella pastura: io voglio che della preziosa lana delle auree chiome tu me ne arrechi un fiocco, con quel miglior modo che tu potrai. Andando Psiche, senza aspettare altro, più che volentieri, non già per adempire il rigido comandamento, ma per dar fine, col gittarsi giù per un di que’ balzi di quel fiume, alle sue fatiche; come fu vicina al fiume, la nutrice della soave musica, una verde canna, da un dolce mormorio d’una lieve aura divinamente inspirata, confortandola, così le disse: Psiche, da tante angosce tribolata, non macchiare le mie serene acque colla tua miserrima morte; nè muovere eziandio gli stanchi passi contro a quelle formidabili pecore di quel bosco, insino a tanto che l’acqua dell’oceano non avrà cominciato ad intepidire i raggi del cadente sole: perciocchè allor che egli ugualmente distando dalle sue onde con maggior forza ne fiere, elle sono usate uscir fuori, cacciate da una rabbiosa furia, e con acute corna e dura fronte e avvelenati morsi incrudelire in danno de’ mortali; ma posciachè il sole sarà vicino al suo albergo (essendo stata nascosta sotto quel platano, che tu vedi là, il quale meco insieme bee l’acqua di questo fiume), perciocchè le bestie, per la serenità dell’aura di questo fiume rinfrescate alquanto, avranno un poco addolcito il rigido animo, tu te ne potrai uscir fuori: e ricercando tra le frondi del bosco ivi vicino, ritroverai alcun bioccolo dell’aurea lana, i quali ad ogni passo rimangono attaccati su per li sterpi e per li pruni. E avendo insegnato in questa guisa la gentil canna alla povera Psiche la sua salute, ed ella avendo con gran cura osservato le sue parole, nè mancando di far quanto vi si conteneva, con agevol rapina empiutosi il grembo di quella lana, a Venere ne la portò. Non potè perciò il pericolo della seconda fatica acquistar fede alla seconda testimonianza, anzi con turbato ciglio ridendo, tutta veleno le disse: Ancorchè adesso egli non mi sia nascosto lo adulterino autore di questa impresa, contuttociò io voglio fare al presente certissima pruova se tu se’ di così forte animo e di tanta prudenza, quanto le altrui forze ti fanno mostrare. Vedi tu là in sulla sommità di quello altissimo monte, cinto di grandissime ripe, il negro fonte dal quale piovono quelle oscurissime acque, le quali rinchiuse nel profondo della valle che gli è vicina, corrono per la Stigia palude, e nutrono il picciol fiume Cocito? Prendi questa brocca, e portalami piena dell’onde interiori di quella fonte. E così dicendo, le diede un vaso lavorato a tornio, che era di finissimo cristallo; e minacciandola di più aspre fatiche, s’ella non la portava, le diede commiato. Ed ella certa d’avere a morir quivi, ancorchè non volesse, affrettando i passi per cotal cagione, se ne salse sull’estremità del mostrato monte: e come prima ella fu sul giogo, ella cognobbe le impossibili difficultà del mortale comandamento: imperciocchè un sasso altissimo fuor di misura, lubrico e repente sì ch’egli era impossibile salirvi col pensiero, non che co’ piedi, spargeva del mezzo delle sue fauci le acque dello spaventevole fonte, le quali per alcuni piccioli pertugi cadendo a basso, per certi tortugli canaletti, e d’ogni intorno ricoperti, ascostamente se ne discendevano nella propinqua valle: e dal destro e dal sinistro lato in certe grotte erano alcuni dragoni, condannati per sempre a star quivi senza mai dormire, per averne la cura: e fuor di loro le parlanti acque da lor medesime si facevano la guardia: imperocchè: «E partiti: e che cerchi? vedi quello che tu fai: guardati, e fuggiti: e tu capiterai male» si sentiva dir lor continuamente. Divenuta adunque Psiche, per la insuperabil difficultà, fredda come una pietra, e benchè fusse quivi col corpo, volata co’ sensi in altra parte, essendo ricoperta al tutto dalla inestimabile macchina del manifesto periglio, era eziandio privata delle lagrime, ultimo sollazzo delle miserie de’ mortali. Nè fu ascosta la calamità della innocente anima alli giusti occhi della divina providenzia: imperocchè il regale uccello del gran Giove, la rapace aquila, spiegate ambedue l’ali, se ne volò da lei; e ricordevole dell’antico uficio, quando, la mercè di Cupido, ella avea portato a Giove il frigio coppiere, e onorando la sua deità nelle fatiche della moglie, disideroso di porgerle rimedio opportuno, le prese a dire in questa forma: O semplice donzella, e ignorante di quei segreti, hai tu speranza di potere involare o toccare almeno pure una gocciola di questo non men tremendo che santissimo fonte? Or non imparasti tu insieme col parlare, che le onde stigie fanno paura agl’Iddii, e a Giove stesso? e che così come voi giurate per la lor deità, egli giurano per la maestà di queste? E così dicendo, fattasi porgere la brocca, e tostamente presala ed empiutola, e battute le maestre penne fra le mascelle de’ crudeli denti e fra il brandire delle inferzate lingue de’ dragoni, e dirizzando il volar suo e da questa e da quell’altra parte, perciocchè elle minacciavano di rivoler le acque, che così le promettevan lasciarla partire senza oltraggio alcuno, ella finse, che tutto quello ch’ella facea era per comandamento di Venere, e che a lei le portava: laonde assai le fu agevole il poternela portare. Avendo Psiche fuor d’ogni sua credenza ricevuta la piena brocca, tutta allegra, con presti passi da Venere se ne ritornò. Nè manco potè per questo placare il crudel ciglio della adirata Iddea; la quale ridendo, tutta stizza, e minacciandola di maggior male, così le parlò: Oramai, se io ti ho a dire il vero, io credo che tu sia una valente maga, posciachè così gagliardamente tu hai obbedito a questi miei comandamenti; e però voglio io, la mia luce, che tu mi faccia ancor questo altro servigio: prendi questo bossolo, e vattene immediate infino all’inferno; e arrivata che tu sarai alla casa del crudel Plutone, dallo a Proserpina; e di’ ch’io la prego, che sia contenta di mandarmi tanto della sua bellezza, che sia bastevole per un dì; perciocchè mentre ch’io sono stata intenta alla cura del mio infermo figliuolo, io n’ho perduta quanta io n’avea: e fa che tu sii di buona tornata, perciocch’egli mi è necessario fra picciol tempo ritrovarmi nel teatro cogli altri Iddii, e non voglio parer così sozza. Allora parve bene a Psiche, ch’e’ fusse venuto l’ultimo trabocco delle sue rovine, e che a viso scoperto ell’era mandata alla beccheria; nè avrebbe creduto altrimenti, veggendosi sforzare a suoi piedi andare infino nel profondo dell’inferno. Nè volendo perdere più tempo, messasi in via, se ne andò da una altissima torre, per volersi di quivi gittare in piana terra; chè niun’altra via sapeva la meschinella meglio di quella per condursi all’inferno. Ma come ella vi fu presso, la detta torre mandò fuori per una delle finestre queste parole: E per che cagione, bella giovane, ti vuoi tu tor del mondo con sì fatta caduta? perchè ti arrendi tu in questa ultima fatica così inconsideratamente? e se lo spirito tuo si separerà per questa guisa dal corpo, tu andrai bene al profondo del baratro dello inferno; ma il tornar poi non sarà a tua posta, chè di quindi non si esce per modo alcuno. Ascolta adunque le mie parole. Non molto lungi da qui è una città chiamata Lacedemone, nobilissima di tutte le città dell’Acaia; vicino alla quale in luogo assai remoto è un promontorio, che quelli del paese appellano Tenaro. Quivi entro degli spiracoli dello inferno, e per apertissime porte vi si mostra lo scuro cammino, per le cui soglie entrando, potrai agevolmente arrivare alla casa di Plutone. Ma egli non si debbe andare per quelle scure tenebre così a man vote, perciocchè in ciascuna delle mani egli ti fa mestiero portare una schiacciata, ed entro alla bocca due quattrini; e quando tu avrai varcata buona parte della mortifera strada, tu riscontrerai uno asino con una soma di legne, con un vetturale carico come lui; il quale ti pregherà che tu gli ponga alcune fascine della cadente soma; ma tu facendo le vista di non lo udire, camminerai a tuo viaggio: nè vi andrà guari dopo questo, che tu arriverai al morto fiume, al cui passo è preposto il vecchio Carone, il quale subito ti chiederà il passaggio; imperocchè egli con picciola barchetta varca tutti i passeggieri: sicchè, come tu puoi comprendere, l’avarizia vive nel regno de’ morti, nè Carone nè quel grande Iddio fanno cosa alcuna senza premio: e morendo un poverello, gli fa mestiero di cercare danari per pagar questo passo; e se per disgrazia egli non avesse così in pronto la moneta, nessuno lo lascerebbe finir di morire. Adunque degli due quattrini che tu porterai, dara’ ne uno per tuo passaggio allo squallido vecchio; ma in questa guisa: cioè, che egli di sua mano lo pigli della bocca tua. E mentre che tu passerai per lo pigro fiume, un morto vecchio e puzzolente, notando per quelle onde, alzando ambe le mani, ti pregherà che tu sia contenta prenderlo entro alla barchetta; ma non ti lasciar muovere alla non lecita pietade. Nè avrai gran fatto camminato, posciachè sarai smontata del picciol legno, che tu troverai certe vecchie tessitrici, le quali ti pregheranno che tu sia contenta di aiutar loro un poco a tessere una tela ch’ell’hanno in sul telaio; e questo manco farai, perciocch’egli non ti è permesso toccar quella tela per cagione alcuna. E tutte queste trappole e questi inganni ti avverranno, la mercè di Venere, a cagione che tu ti lassi trar di mano una di quelle stiacciate: nè pensare che così fatta perdita sia da non essere stimata molto; perciocchè perdutone una, e’ te ne seguirebbe la perdita di questa luce: e la cagione è, che egli sta sempre innanzi alla soglia del palazzo di Proserpina un fortissimo cane a far la guardia alle vacue stanze del gran Plutone; il quale con rabbiose zanne, ancorchè indarno, cerca mettere paura a quegli uomini, che essendo morti non sono capaci d’altro male. Il cui furore affrenando con una di quelle cofacce, egli agevolmente ti lasserà passare: e così te ne verrai al palazzo di Proserpina. Ed entrata che tu sarai, ella con lieta fronte ricevendoti, ti pregherà che tu ti assida sopra d’una ricca sedia, e prenda delle sue realissime vivande: ma tu postati a seder per terra, chiederai del pan negro; il quale come più ratto avrai mangiato, esporrai la cagion della tua venuta. E preso quello ch’ella ti darà, subitamente ritornerai: e placando la rabbia dello affamato cane con quell’altra schiacciata, e dando all’avaro barcaiuolo quell’altro quattrino, e passato ch’avrai il fiume, per la medesima strada te ne ritornerai al ballo di queste celesti stelle. Ma una cosa soprattutto ti bisogna avvertire: che egli non ti venga voglia nè di aprire nè di guardar quel bossolo, che tu porti, nè d’esser curiosa di scoprire l’ascoso tesoro della divina beltade. - E in questa guisa la misericordiosa torre diede fine al propizio uficio della sua divinazione. Non messe tempo in mezzo Psiche, avendo uditi i santi ammonimenti; ma andatasene a Tenaro prestamente, e provvisti i quattrini e le schiacciate, se n’entrò nella sdegnata strada: e fattasi beffe del debile vetturale, e data la sua mercede al barcaiuolo, e divenuta sorda alle raccomandazioni del notante vecchione, e finto di non udir le ingannevoli preci delle vecchie tessitrici, e mitigata con una delle schiacciate la rabbia del crudel cane, se ne passò in casa di Proserpina: dove medesimamente disprezzando l’offerta della delicata seggiola, e rifiutato i soavi cibi, postasele avanti umilmente, e d’un solo pane contentasi, espose la imbasciata di Citerea. Perchè Proserpina, senza indugio empiuto segretamente quel bossolo, e dandogliene in mano, le diede commiato. Ed ella dando la volta addietro, sedato il canino abbaiare come l’altra volta, e dato al nocchiere il restante quattrino, più ratta che mai se ne ritornò al paese de’ viventi. E ritrovata e adorata questa chiara luce, ancorchè volentieri ella desse fine all’uficio impostole, e’ l’entrò nella mente una temeraria curiosità, e disse fra sè: vedi s’io son pazza, che essendo portatrice della divina bellezza, io non me ne so prendere una particella, colla quale io possa poscia maggiormente piacere a quel mio bellissimo amatore. Nè prima ebbe finite queste parole, che ella aperse quel bossolo, entro al quale nè bellezza v’era nè cosa alcuna, ma un sonno infernale e stigio veramente; il quale, subito levato il coperchio, se n’uscì fuori; e ingombratole gli occhi e tutte le altre membra d’una foltissima nebbia, sicchè ella non sentiva niente, la fece cadere in terra come morta. Ma Cupido, al quale già la margine dell’arsura era assai ben rassodata, sicch’e’ si poteva dire quasi guarito, non potendo più sopportar l’assenzia della sua bella Psiche, scapolato per una strettissima finestra di quella camera dove egli era ristretto, rifattesi per la lunga quiete le penne assai migliori, con maggior velocità che l’usato volando, se ne venne laddove ella dormiva; e levatole il sonno daddosso, e con diligenza rinserratolo in quel vasetto medesimo, puntola con una picciola e non nocevole puntura, la risvegliò, e poscia disse: Ecco, che per la tua medesima curiosità tu eri perita un’altra volta, ma finisci nondimeno per ora strenuamente il precetto della mia madre, e delle altre cose a me lascia il pensiero, che io l’eseguirò. E avendole dette queste parole, spiegate le penne, via se ne volò. E Psiche, senza indugio andatasene da Venere, le portò lo addomandato presente. In questo mezzo l’agile amatore acceso d’uno incomportabile desiderio della sua donna, e temendo grandemente della repentina severità della madre, fece pensiero di aprir la borsa delle sue frode; e con preste ali penetrato la sommità del cielo, esposta la sua causa al gran Tonante, supplichevolmente si gli raccomandò. Allora Giove prese la sua picciola e bella bocca, e accostatasela alla sua, e baciatola più volte, gli disse: Avvenga, il mio figliuolo e padron mio, che tu non mi abbia renduto mai quell’onore che mi è stato concesso e decreto da tutti gli altri altissimi Iddii, anzi abbi più fiate questo petto mio, entro al quale si dispongono le leggi degli elementi e gli scambiamenti delle stelle, e con più e più colpi ferito, e assai sovente macchiato col fango della libidine de’ terrestri amori, e contro alle disposizioni delle leggi e della giustizia, e massimamente, e fuor di quel che vuole la pubblica onestà e disciplina, sminuito la mia fama co’ brutti adulterj e la mia estimazione, in serpente, in fuoco, in fiere, in uccelli, e in altri simili animali il mio volto sozzamente trasformando, nientedimeno, perciocchè non posso mancar della mia natia modestia, e poichè tu se’ cresciuto tra queste mani, io farò il tuo volere, purchè tu ti ricordi che egli si vuole aver l’occhio agli emuli tuoi; e inoltre, che se adesso alcuna pulzella è giù nel mondo vaga e gentile, che tu mi se’ obbligato coll’amor suo a ricompensar il presente beneficio. E avendo finito queste parole, fattosi chiamar Mercurio, gli comandò che allora e’ bandisse il consiglio di tutti gl’Iddii, con condizione, che se alcuno mancasse, egli s’intendesse esser caduto in pena di diecimila ducati. La cui tema fu cagione che tutti con maravigliosa prestezza si presentassero nel teatro: dove sedendo Giove sopra ad una eminente sede, imposto silenzio ad ognuno, fece questa orazione. Iddii descritti nella matricola delle Muse, questo giovane, il quale io mi sono allevato con queste mani, come io so che tutti voi vi ricordate, io ho giudicato che egli sia oramai bene con qualche freno ritenere i caldi impeti della sua gioventù, ch’e’ non trascorrino più oltre di quello che egli hanno fatto. Assai è egli per li molti adulterj e per altre corruttele infamato insino ad oggi; e però egli è da tor via ogni occasione, e raffrenar la puerile lussuria co’ fortissimi lacci del matrimonio. Egli medesimo si ha eletto una fanciulla, ed halla privata della sua virginità: tengasela, posseggasela; ed abbracciando Psiche, sempre si goda i suoi amori. E voltosi verso Venere, seguitando le disse: Nè ti contristar per questo, la mia figliuola, nè aver temenza della tua schiatta, nè del tuo stato, per lo mortal matrimonio; chè provvederò in modo che queste nozze a uguali divenute sieno, e secondo la disposizion delle leggi civili. E così dicendo comandò a Mercurio che ne menasse in cielo la bella Psiche, subito ch’ella fu giunta, datole a bere un bicchiere d’ambrosia: prendi, disse, o Psiche, che sia immortale, nè mai si sciolga Cupido da’ legami tuoi. E dato ordine alle nozze, ch’elle fussero magnifiche e grandi, in breve spazio fu preparato un realissimo convito. Sedevasi nel principal luogo della tavola il novello sposo, e in grembo aveva la sua bramata Psiche: accanto a lui era Giove colla sua Giunone: e poscia ordinatamente secondo le lor preminenze seguitavano gli altri Iddii di mano in mano. A Giove porgeva il nettare, che è il vino di quel del cielo, il coppier suo, quel rustico Ganimede; agli altri dava Bacco da bere: Vulcano fece la cucina: le Ore e colle rose e con altri fiori fioriron la casa: le Grazie la profumarono: le Muse ferono doppia musica: Apollo cantò in sulla citara: Venere al suon d’un soave conserto dolcemente ballò. Il consorte era in questa guisa: le Muse cantavano, e un Satiro sonava i flauti, e Panisco una sampogna. E in questa guisa arrivò Psiche nelle mani d’Amore. La quale, posciachè egli fu venuto il tempo del partorire, fece quella piacevol figliuola, che noi altri chiamiamo la Voluttà.
finisce la favola d'amore e psiche
Queste cose raccontava quella sciocca vecchia e mezza cotta alla prigioniera fanciulla. E trovandomi io per avventura assai lor vicino, mi doleva a cielo di non avere i fogli e la penna, che io potessi notar così bella novella. In questo mezzo i ladroni, avendo fatto non so che grande espugnazione, carichi di roba a casa se ne vennero: e disiderando di ritornar prestamente per certe altre cose che, secondo che egli dicevano, avean lasciate nascoste in non so che spilonche, trangugiatosi il disinare, lasciando imperciò alcuni di loro i più valenti, che erano feriti, in casa, acciò si potessero curare, tratto fuori me e ’l mio cavallo, si rimisero in via; e per erte e chine e balze e sassi straccatoci e
rovinatoci, sul far della sera ne condussero alla disiata spilonca: dove caricatoci senza discrezione, e’ te ne tornarono per la medesima via: e per lo sospetto grande, che egli avean di esser trovati, sollecitandoci a camminare, e’ mi diedon tante e tante percosse, ch’e’ mi feciono arrovesciare in su un sasso che era in mezzo della via: e ancorch’io fussi a giacere, non restando di bastonarmi la gamba destra e l’unghia del piè manco, mi fecero levare in piedi; il perchè disse un di loro: Ed insino a quanto avrem noi pacienza a gittar via le spese che noi diamo a questo asinaccio tutto guasto e azzoppato di nuovo? E un altro: Tanto più ch’io credo e’ portasse seco in casa nostra tutti i cattivi angurj del mondo; chè poichè noi l’aviamo, e’ non s’è mai fatto guadagno che da veder sia; anzi sono stati morti i più valenti uomini che noi avessimo. E quel primo soggiunse: Io ho diliberato, che com’egli ha portato questa soma, ch’e’ porta così malvolentieri, di gittarlo a terra d’un qualche balzo: se non altro, io darò pure una buona cena a parecchi uccellacci. E così mentre che i piacevoli uomini contrastavano della morte mia, noi eravamo già arrivati a casa; perciocchè la paura de’ loro ragionamenti m’avea fatto ale delle unghie. Nè fummo a fatica giunti, che senza pensar più a’ casi nostri o alla mia morte, e’ ci tolsero daddosso quelle robe; e chiamati i compagni, ch’eran rimasti in casa feriti poco anzi, presto alla caverna se ne ritornarono, con animo di pagarci, secondo ch’e’ dicevano, del tedio ch’eglino aveano avuto della nostra tardità. E a me nondimeno era entrata una pulce nell’orecchio non picciola, considerando alle crudeli minaccie; e però diceva infra me: che indugi, Agnolo? ch’altro attendi? la morte, e anche quella crudelissima, per decreto de’ ladroni ti è stata ordinata; e la cosa non ha bisogno d’un grande sforzo: tu vedi qua queste rovine non guari lungi da noi, e quelle pietre aguzze che vi sono, le quali da ogni canto che tu cadrai ti sforacchieranno in mille parti; imperocchè quella tua preclara maga, ancorchè non solamente ti desse il volto, ma e le fatiche tutte dell’asino, ella non ti fasciò d’una pelle sì grossa, come hanno gli altri animali così fatti, ma ti coperse di quella cartilagine che hanno dentro le canne. Per che cagione non ti porti tu oramai da uom maschio, e mentre che tu puoi cerchi la tua salute? tu hai una opportunità grande; fuggiti, mentre che i ladroni sono assenti: avrai tu paura della guardia d’una vecchia mezza morta? la quale tu potrai finire con un sol calcio de’ tuoi piedi, ancorch’e’ sieno zoppi. Ma dove diavol fuggirò io? chi mi raccetterà? Deh come sono inetti e veramente asinini questi miei pensieri! degli uomini che vanno per via, chi sarà quegli che non prenda volentieri seco un che lo porti? E con allegro sforzo rotta la fune colla quale io era legato, mi diedi a correre quanto mai m’usciva di tutti quattro i piedi: nientedimanco io non potetti scampare gli occhi di nibbio di quella falsa vecchia, la quale veggendomi sciolto, preso ardire nè alla eta nè a donna conveniente, corse da me; e raccolta la fune, ch’io mi strascinava dietro, sforzandosi di menarmene a casa, tirava quanto mai ella poteva. Ed io allora ricordevole del mortal proponimento de’ miei padroni, ponendo da canto ogni pietà, le lasciai andar co’ piè di dietro un paio di calci sì piacevolmente, ch’io la feci battere per terra: ed ella, ancorchè fusse prostrata in quella guisa, tenendo pur quella fune pertinacemente, ed io tirando quanto più poteva, me la strascinava dietro: perchè ella con grandissime strida chiamava aiuto da più forti braccia; ma tutto era indarno, chè niuno non compariva. Ma chi voleva comparire? conciossiachè in casa non era niuno altro che quella verginella; la quale udito il suono di quella voce, prestamente se ne venne fuora, e vide una bellissima commedia: quella vecchia non ad un toro, ma ad un asino stava attaccata: perchè ella preso un maschio ardire, si mise a fare un egregio fatto, e tratta la fune per forza delle mani di quella vecchia, con piacevoli risa rivocatomi dallo impeto del correre, mi salse addosso e di nuovo a correre mi diè campo. Laonde io per lo volontario disiderio del fuggirmi, e per veder s’io poteva liberar la misera verginella, e anche per la tema delle minacciate busse, che mi era un continuo sprone, mi diedi a correre come un cavallo. E avrei voluto poter rispondere alle delicate parole della gentil fanciulla; ma non potendo altro fare, simulando alcuna volta di volermi grattar le reni, torcendo il capo, le baciava i bellissimi piedi. Ed ella altamente sospirando, e volto il viso inverso il cielo, disse: Porgete finalmente, o celesti Iddii, aiuto alle mie supreme angosce: e tu, dira Fortuna, cessa oggimai d’incrudelire contra d’una innocente verginella; a bastanza ti dovrebbero pur già aver placata le mie disgrazie. E tu, o presidio della mia libertà e della mia salute, se tu alla mia casa salva me ne rimenerai, e alli miei genitori e al mio formoso amante mi renderai; che obbligo ti averò io? che onor ti farò io? che cibi ti donerò io? E pettinati primieramente questi tuoi crini, co’ miei vezzi verginali e colle mie collane te gli tutti adornerò; ma prima ravvierò la ravviluppata fronte: e i peli della coda per la straccurataggine rabbaruffati, con estrema diligenza ti pulirò; e con belle borchie e fibbie e rosette tutte d’oro adornandoti, ti farò allegro delle belle pompe rilucere, come un cielo stellato; e portando nel mio ricco grembo e fra la morbida seta soavissimi pinocchiati, ogni dì, o mio liberatore, te ne darò una satolla. Ma nè anche, oltre a’ dilicati cibi e il profondo ozio e la beatitudine della vita tua, ti mancherà la gloria e la dignità; perciocchè con perpetuo testimonio sarà segnata la ricordanza della mia presente fortuna e della divina providenza: e facendo dipignere in una tavola la storia della presente fuga, a tuo perpetuo nome l’appiccherò nelle logge della casa mia. Vedrassi, udirassi fra le altre novelle, e colle penne degli uomini dotti sarà fatta immortale questa rozza storia: fuggendo una regia fanciulla su uno asinello, si libera dalla servitù de' pessimi ladroni. Sarai ancor tu fra gli altri antichi miracoli numerato; e crederanno per la verità del presente esempio, che Frisso sopra del montone notasse, e Arione collo aiuto del delfino scapolasse, ed Europa sopra del toro si riposasse. E come egli si dice, che Giove già si nascose entro a quel toro; perchè non potrebbe egli essere, che in questo mio asinello fusse nascosto o il volto di uno uomo o qualche divino spirito? - E mentre che la fanciulla mescolava con infiniti sospiri queste parole, noi arrivammo ad un certo trebbio; dove ella tirando il mio capestro, faceva ogni cosa per voltarmi dalla man destra, perciocchè quella era la via che arrivava a casa del padre. Ma io, che sapeva che i ladroni erano andati di là per lo restante di quelle robe, me le contrapponeva il più ch’io poteva: Che fa’ tu, infelice fanciulla? che cerchi? perchè t’affretti tu d’andarne allo inferno? che ti sforzi tu di fare co’ piedi miei? tu non rovinerai te sola, ma me insieme con essoteco. E così l’un tirando in qua, e l’altra in là, nella causa de’ confini e della proprietà del terreno, anzi della divisione della strada contendendo, stemmo tanto, che i ladroni, che tornavano carichi di roba, ci ritrovarono: e per lo splendor della luna riconosciutoci da discosto, e con un maligno riso salutandoli, un di loro ci disse: E dove sete voi avviati con tanta prescia, or che egli è di notte? nè temete delle ombre nè degli spiriti che vanno attorno in questo tempo? Dove ne andavi tu, buona fanciulla? a rivedere il tuo padre e la tua madre? ma noi, a cagione che tu non vadi sola, ti farem compagnia, e ti mostreremo una via più breve per ire a’ tuoi. E mentre ch’egli parlava in questa guisa, presale la cavezza di mano, mi rivoltò indietro; nè restò mai con un baston pien di nodi, ch’egli avea fra mano, di darmi all’usato di strane tentennate: e perciocchè io ritornava malvolentieri alle mie rovine, ricordandomi del dolor delle unghie, menando il capo in su e in giù, cominciai a zoppicare. Perchè quegli, che mi aveva fatto tornare indietro, disse. Di nuovo vai zoppo, e non puoi muovere; e cotesti tuoi piedi sciancati posson fuggire e non andare? poco fa vinceva egli la celerità dell’impennato cavallo di Pegaso. E mentre che ’l buon compagnone, non restando di mazzicarmi, cianciava così con essomeco, noi eravamo arrivati agli ultimi ripari della lor casa: e alzando il capo, io vidi quella povera vecchia, che si era con un capestro attaccata per la gola ad un ramo d’un arcipresso: la quale i ladroni come ebber veduta, spiccandola, e con quel medesimo capestro legandola, la gittarono a terra da una di quelle balze: e sciolta la fanciulla, e andatisene in casa, con ferina fame s’inghiottirono quella cena che la infelice vecchierella con estrema diligenza avea lor preparata. E mentre ch’e’ diluviavano ogni cosa e’ cominciaron a ragionar della nostra pena e della lor vendetta; e come fra una furiosa brigata è conveniente, e’ vi furon vari pareri: il primo voleva che la fanciulla si abbruciasse viva: l’altro ch’ella si desse a mangiare alle fiere: il terzo ch’ella si appiccasse per la gola: nè mancò chi dicesse, che datole di molti tormenti, ella si tagliasse in mille pezzi: e finalmente, secondo la sentenzia di tutti, ell’era destinata alla morte. Laonde uno de’ principali di loro racchetò il tumulto di tutti, e così cominciò: Nè alla setta del nostro collegio, nè alla mansuetudine di tutti noi, e molto manco alla mia modestia è convenevole di sopportare che voi incrudeliate contro a costei fuor de’ termini del delitto: nè le fiere, nè la forca, nè fuoco, nè tormenti, nè frettolosa morte caccin costei nel baratro infernale: ascoltando adunque i miei consigli, donate la vita a questa fanciulla; ma in quel modo ch’ella l’ha meritata. Io so ch’egli non vi è ancora uscito di mente quello che voi diliberaste fare di quello asinaccio infingardo, ma un diluvione de’ voraci, e bugiardo, che infingendosi sempre d’esser zoppo, è stato al presente autore e ministro della fuga di questa fanciulla, piacciavi adunque domani di sparare questa bestiaccia: e cavatole di corpo tutte le interiora, cucirgli nel mezzo del ventre questa rea femmina ignudata; e lasciando solamente il viso di fuori, l’altra parte rimanga in questo modo, cioè ristretta dentro alla pigra fiera, e poscia espostola sopra qualche altissimo masso, la rilasciate al più ardente sole: e in questa guisa amendue sosterranno tutte quelle pene che voi possiate aver ragionato. L’asino avrà la morte che egli ha meritato un pezzo fa; le membra di costei saranno stracciate da’ morsi delle fiere e dalle punture de’ vermini, e il sole, quando avrà ben riscaldato il gravido ventre, si farà l’effetto del fuoco; e la forca e i grandissimi tormenti proverà, quando i cani e gli avoltoi la stracceranno tutta a pezzi a pezzi. Ma considerate le altre sciagure e le atrocissime pene: ella viva abiterà nel ventre d’una bestia morta, empiendo continuamente il naso di quel corrotto fetore; e stando in questo modo, senza prender cibo alcuno, si mancherà per la fame, nè avrà pur tanto contento, che ella si possa almeno affrettar la morte colle sue mani. Avendo dato adunque il crudele uomo tanto orrendo consiglio, non co’ piedi, come si dice, ma con tutti gli animi andarono i ladroni nella sua sentenzia. La quale posciachè io colle mie grandi orecchie aveva udita, che poteva altro fare, se non piagnere la mia trista e disavventurosa morte?