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LIBRO OTTAVO
Passata che fu la mezza notte, un giovane, e secondochè egli mi parea, servo di quella fanciulla che meco appresso de’ ladroni aveva sopportate tante fatiche, arrivò alla casa di quei pastori; e postosi a sedere fra loro intorno al fuoco, e narrando cose terribili, e della morte di lei, e della rovina di tutta la casa, diceva: O guardiani di cavalle, o pecorai, o bifolchi, noi avemo perduta la sventurata Carite, e per crudelissimo accidente, e non senza compagnia se n’è ita alla casa del negro Plutone: ma acciocchè voi sappiate puntualmente come son passate le cose, io mi voglio far da capo, e narrarvi il fatto tutto intero; sicchè gli uomini dotti, a’ quali ha somministrato la natura un bello stile, possano vergar le carte con questa storia.
Egli era in una nobile città a noi vicina un giovane d’alto legnaggio, e de’ beni della fortuna abbondantissimo; ma dato a stare tutto il dì fra sgherri e ladri su per le taverne, e fra le meretrici a mangiare e bere, e lussuriare, e talora ad imbrattar le mani eziandio col sangue umano; ed era da tutti chiamato Scannadio; sì e ’l nome di lui e la fama facevano fede dell’opere sue. Era costui innamorato di Carite, sinch’ell era picciola fantina, sì ferventemente, che egli non aveva mai bene, se non quanto la vedeva; per la qual cosa, come prima ella pervenne all’età del maritarsi, egli fu de’ primi che con grande istanza chiese le sue nozze: e ancorchè egli fusse di maggior condizione che alcuno altro che la volesse, e che con larghi e magnifici doni egli avesse cercato d’inclinar l’animo e del padre e della madre al suo volere; contuttociò la sua cattiva boce gli aveva fatto tornar vano ogni suo disegno; e fu maritata la vergine a Lepolemo, giovane veramente dabbene e costumato. Perchè nutrendo Scannadio con grandissima costanza lo amore ch’e’ le portava, e mescolandovi la indignazione del negato parentado, andava del continuo ricercando una via per la quale e’ gli venisse fatto d’arrivare alla morte del povero Lepolemo; e ricercando dell’occasione, egli s’apparecchiava alla destinata e sanguinosa crudeltà. E venutosene a visitare Lepolemo, in quel dì che egli colle sue astuzie e virtuti aveva cavata la mogliera delle unghie di quei ladroni, e mostrando d’esser contentissimo e della di lei liberazione e delle nuove nozze, fu ricevuto fra i più cordiali amici di casa; e or si trovava a ragionar tutto quanto il dì co’ novelli sposi; e talor chiamato a desinare e cena, egli era venuto carissimo a tutta la casa. La qual consuetudine lo aveva affondato nel pelago amoroso sì ch’egli non ci era più via da ripescarlo. Nè ci dee di ciò maravigliare; conciossiacosachè le amorose fiamme, sebben ne’ primi ardori riscaldano un poco e par che ne porgano grandissimo diletto, avvampate poscia del fuoco della consuetudine, con grandissimo struggimento abbruciano gli uomini interi interi. Non veggendo adunque lo innamorato giovane modo alcuno di discoprire segretamente alla fanciulla il suo grandissimo dolore, e considerando che l’un dì più che l’altro la copia delle brigate che l’erano intorno, gli toglievano ogni speranza; nè immaginandosi verso alcuno donde potesse nascere occasione che disciogliesse lo amoroso laccio, che ad ognora più strignendosi, teneva legati i novelli sposi, e faceva, che se la fanciulla volesse, avvengachè ella non potrebbe volere, troverebbe turato ogni calle che il conducesse al suo desiderio: e quanto più si vedeva impedito il cammino, più si sforzava di camminarvi; parevali che Amore, impennando ognor più l’ale del suo sfrenato disio, gli sturasse tutti i valichi, e gli accortasse e appianasse la strada: perchè la speranza, l’età finalmente..... Ma state attenti, che io ve ne prego, e vedete dove lo spinse la cecità della sua furiosa libidine. Andando un dì fra gli altri il valoroso Lepolemo ad una caccia, egli menò seco lo scellerato e crudele Scannadio; e perchè Carite non voleva che questo suo marito andasse dietro alle fiere armate o di dente o di corno, egli andarono in paese dove solevano essere infinite lepri e altri simili piacevoli animali: e giunti appresso di un monticello, tutto di arbori e di virgulti ripieno, e messo per tutto le callaiuole a’ valichi, e teso le lungagnole, e posti i cacciatori alle poste, sciolsero i bracchi; i quali ricordevoli della lor sagace disciplina, posciach’egli ebbero con grandissimo silenzio cercato una buona parte del paese, avuto il segno dal capocaccia, con grandissimi e discordanti urli intronarono ciò che vi era; nè lepre, nè damma, nè di tutte l’altre fiere la mansuetissima cerva si lasciò vedere mai il giorno; ma in lor vece saltò fuori un cignale grande e smisurato, con una pelle callosa, ch’e’ non l’avria passato un verrettone, ed eransigli ritte in sul fil della schiena certe setolacce, che non parevan altro che spiedi; e dirugginando i denti, grondava la schiuma da tramendue le guance, e aveva certi occhi infocati, e un viso sì minaccevole, e tanto fremito faceva colla bocca, ch’e’ pareva, che quando e’ si moveva, ch’e’ cadesse una saetta: e assaltati con quelle appuntate sue zanne alcuni cani di quei più bravi, che gli s’erano accostati, e gittatoli morti per terra, sforzò un pezzo di rete, che aveva ritenuto alquanto quegli suoi primi furori, e se ne passò via. Laonde noi altri, tutti impauriti, come poco usi a caccie pericolose, trovandoci senza arme o difensione alcuna, non sappiendo altro che farci, ci andavamo nascondendo per le macchie, o sagliavamo su per gli arbori i più alti. Ma Scannadio, ritrovato il tempo opportuno alle sue fraudi, voltosi a Lepolemo, disse: Da qual paura abbracciati, da che stupore confusi, divenuti vili non altrimenti che i nostri servi, ci tiriamo addietro come se fussimo donnicciuole? per qual cagione ci lasciamo noi uscir di mano così bella preda? che non montiamo noi a destrieri? perchè non lo seguitiamo noi spacciatamente? piglia uno spiede, e io piglierò un giannettone. Nè vi andò guari, che saliti a cavallo, per gran prestezza si misero dietro a quella fiera; la quale, non si dimenticando delle sue naturali forze, anzi riscaldando la sua fierezza col caldo della presente stizza, posciachè ebbe fatto resistenza al primo empito loro, recatasi in piedi, e dirugginando i denti, mentre deliberava qual prima di lor due volesse ferire, Lepolemo, prevenendola, le lanciò un dardo che egli aveva in mano, e percossela in sulle reni: e lo scellerato Scannadio in questo, veduto il bello, perdonando alla fiera, diede nelle gambe di dietro del cavallo, sul quale era Lepolemo, un colpo sì fatto, che egli arrovesciandosi in terra trasse per forza il suo signore di sella: nè si era potuto ancora levare in piedi, che quel cinghiale assalitolo, posciachè gli ebbe tutta stracciata la veste, mentre ’l poveretto pur si sforzava di levarsi, lo sbranò tutto quanto. Nè si era pentito il fedele amico per la vista di sì gran crudeltà de’ suoi iniquitosi pensieri, o aveva saziato la sua efferata voglia; anzi, chiamandolo il meschino giovane, e pregandolo che gli porgesse aiuto, l’empio non si vergognò lasciare andare molte giannettate per lo già ferito corpo d’ogni intorno: e tanto più gli dava confidentemente, quanto più egli estimava le sue ferite dover essere simili a quelle de’ denti di quella fiera; la quale con agevol mano, poichè vide essere atterrato il compagno, passò più volte da banda a banda.
Morto che fu il povero giovane nella guisa che voi avete potuto udire, tutti noi altri, usciti de’ luoghi ne’ quali ci eramo nascosti, corremmo laddove egli giaceva: e quello Scannadio, ancorchè, per avere adempiuto il suo desiderio, fusse sopra tutti gli uomini contentissimo, contuttociò, coprendo l’allegrezza con mesto volto e con turbata fronte, e’ simulava grandissimo dolore: e abbracciando con finta amorevolezza quel corpo che egli stesso aveva privato di questa luce, non avrebbe mancato d’ufficio alcuno che si appartenga ad un fido amico che così sgraziatamente abbia perduto il suo compagno; se non che le lagrime sole non vollero obbedire al finger suo: conformato adunque a similitudine di noi altri, che veramente ne lamentavamo, egli poneva la soma della crudeltà delle sue mani sopra le spalle della morta fiera. Appena aveva avuto fine lo scellerato ardimento dello infedele amico, che la fama colle sue piume nel portò via; e ’l primo volo fu inver la casa del misero Lepolemo e negli orecchi della infelice sua sposa. La quale, come più tosto ebbe sentita la trista novella, montata in sulle furie, messasi a correre alla impazzata per le popolose piazze e per le diserte campagne, con disconvenevoli strida e con disordinatissimi pianti si lamentava della morte del suo marito: correvano le squadre degli addolorati cittadini, e ritrovata la miserella, accompagnavano il suo dolore, e tutta si era vota la città, non potendo credere, se e’ nol vedevano con gli occhi, l’atroce misfatto. Arrivata che fu la sconsolata donna al luogo dove giaceva il morto giovane, gittataseli addosso con grandissimo empito, non pareva che altro quivi far volesse, se non iscioglier lo spirito dal suo corpo, acciocchè libero di quello incarico e’ seguitasse quel del morto marito: e certamente che, secondochè era il suo desiderio, ella vi si sarebbe morta; se non che tolta d’indi per forza de’ suoi carissimi genitori, pur si rimase in vita. Ma quivi più assai di lei si lamenta Scannadio, chiamando quel suo amico, fratello; e le lagrime, che prima non erano volute uscire, ora per allegrezza largamente si dimostrarono. Or fornite l’esequie, delibera Carite al suo marito accompagnarsi, non per laccio, nè per coltello, ma per fame lentamente morendo. Scannadio con ostinata instanza, or per sè stesso, or per altrui, e finalmente per lo padre e madre di lei, al vivere la costringe; ma quella pur nelle radici del petto, anzi nelle midolle estreme avea il dolore infisso del morto marito, la immagine del quale, fatta formare con gli ornamenti del Dio Bacco, adorava, stando tutti i giorni e tutte le notti nel lagrimoso desiderio, ch’avere più non isperava. Ma Scannadio, d’animo strabocchevole in ogni cosa, e temerario in questa ch’egli tanto desiderava, non aspettò che il dolore piangendo saziato fusse, nè invecchiato dal tempo avesse minor forza a contrastare al suo volere; anzi con molta instanza si mosse a dimandare il matrimonio di lei: di che tanto fu Carite smarrita, quanto d’altro uomo percossa non sarebbe. E già nella mente s’indovinava il falso tradimento da Scannadio composto: pure, mossa da ottimo rispetto, prolungò il desiderio suo sotto incerta speranza. In fine, brevemente, tra questi indugi la misera anima dell’ucciso Lepolemo apparve in sogno alla moglie, sanguinosa; e con pallida faccia, mostrando le ferite, pareva così dire: Moglie mia dolce, odi quello che da altri non ti può esser detto. Se nel tuo petto più non rimane memoria di quell’amore che per buon tempo ne tenne congiunti, e se il crudel caso della mia acerba morte cacciò ad un tratto lo spirito dal mio petto, e la pietosa affezione che mi mostrasti del tuo cuore; maritati ad altri più felicemente che al traditore Scannadio; fuggi la sanguinosa mano di colui che m’ha morto: perciocchè quelle ferite che tu facesti nette di sangue col tuo pianto, non furono tutte fatte dal cinghiale, ma dalla lancia del perfido Scannadio. Aggiunse ancora altre parole, scoprendo tutto quanto il fatto com’era passato. Essa colla faccia sul letto, dormendo, tutto di lagrime nel doloroso sogno l’avea bagnato: e svegliata, maggior pianto rinnova, e battesi il petto, e stracciasi i capelli: nè però con alcuno partecipa la notturna visione, fra sè desiderando di punir quel perfido assassino, e, morendo, andare a ritrovare il suo amato marito. Ed eccoti lo sciagurato chieditore dell’improvido piacere toglie l’orecchie della meschina: ed ella, che dandogli una gentil repulsa, e una cosa nel volto mostrando, e un’altra nel petto servandone, lo andava intertenendo per condurlo al suo pensiero, per meglio tenerlo a bada, un dì fra gli altri gli disse: Ancor mi resta negli occhi quel volto del tuo carissimo fratello e mio dolcissimo consorte, ancor penetra il mio naso quell’odor di cennamo del suo dilicatissimo corpo; vive entro al mio cuore il bellissimo Lepolemo ancora: tu farai adunque il tuo migliore, se al pianto di questa sconsolata donna tu concederai quel termine che è di mestiero; e questo sarà fino a tanto che il resto di questo anno se ne trapassi: la qual cosa, e l’onor mio e ’l tuo comodo riguardando, sarà cagione che noi per la soverchia fretta non suscitiamo lo spirito del mio marito con giusta indignazione ad incrudelire contro a di te. Non solo non si mitigò Scannadio per questo parlare, o almeno si ricriò per la picciola dilazione; anzi ogni dì più rompendole il capo, le diede occasione di mettere ad esecuzione il suo pensiero. E infingendosi d’esser convinta da’ suoi preghi, trattolo un giorno in disparte, gli disse: Scannadio, egli è necessario che infino a che questo anno trapassi, che tu sia almen contento di questo, che senza alcuno di casa il sappia, ti trovi alcuna fiata meco a prenderti il guiderdone del tuo lungo amore. Fu contento Scannadio a quanto voleva la donna, e giunto dalle fallaci sue promesse, si accordò a’ notturni abbracciamenti. Perchè ella soggiunse: Ma vedi, il mio Scannadio, egli è mestiero che questa sera là sul primo sonno, senza menar teco persona alcuna, tu te ne venga segretamente alla mia casa; e travestito in guisa che niuno ti riconosca, e fischiando una sol volta così pian piano, aspetterai che questa mia balia, la qual vegliando intorno alla porta, attenderà la tua venuta, aprendoti l’uscio, ti meni al buio in camera mia. Piacque a Scannadio l’ordine delle crudeli nozze, e senza dubitar di cosa veruna, attendeva il tempo impostoli: e tutto il restante di quel giorno increscendoli lo aspettare, e della lunghezza delle ore e della pigrizia del sole e del tardo avvenimento della sera seco medesimo agramente lamentandosi; pur finalmente, avendo il sole già dato luogo alla sorella, ed essendo venuta l’ora determinata, mutatosi i panni, e fatto quanto da Carite gli era suto imposto, ingannato dalla fraudolente veglia di quella balia, pian piano se ne venne alla desiderata camera: dove la vecchierella, presa scusa che la fanciulla indugiava a venire, perciocch’ell’era intorno al padre, che si sentiva di mala voglia, facendogli mille carezze, di consentimento e ordine della padrona preso un buon fiasco di vino, entro al quale era mescolato una bevanda da far dormire quanto poteva più spesso gli dava da bere; ed egli, senza sospettar di cosa veruna, perciocch’egli era stracco, ne bevve più volte avidamente: laonde in così profondo sonno si seppellì, che egli, non altrimenti che se morto fusse, s’espose a ricevere tutti gli oltraggi del mondo. Come più tosto la vecchierella si avvide che la medicina aveva fatta buona operazione, corsasene da Carite, là entro ne la menò: la quale non fu sì tosto giunta, che con maschio animo ed efferato impeto ingiuriosamente se le mise intorno; e tutta piena d’un mal talento diceva: O fido compagno del mio marito, o egregio cacciatore, o mio caro novel consorte, questa è quella mano, la quale sparse il sangue mio; questo è quel petto, entro al quale si ordinarono i fraudolenti inganni; questi son quegli occhi, a’ quali io son cotanto infelicemente piaciuta; questi son quegli occhi, i quali non so io già come, indovinandosi le perpetue future tenebre, hanno già prevenuto la lor pena. Riposati sicuramente, sogna beatamente: non coltello, non ferro alcuno saranno cagione della tua morte: non piaccia a Dio, che ancor nella pena tu sia uguale al mio marito. Mentre che ti durerà la vita, ti negheranno gli occhi il loro uficio, nè vedrai cosa alcuna, se non dormendo: io farò ben che tu sarai sforzato a dire, ch’egli è stata più felice la morte dell’inimico tuo, che la vita che ti avanzerà. Certamente tu non vedrai la luce, e fiati mestiero coll’altrui lume supplire al tuo difetto: tu non possederai Carite, tu non goderai le sue nozze, nè sarai dalla quiete della morte ricriato nè goderai i sollazzi della vita; ma, dubbio simulacro, andrai vagabondo fra il sole e fra le tenebre, e indarno cercherai di quella mano che ti ha cacciate le empie luci del crudo volto: e quello che è nelle miserie miserrimo, tu non saprai di chi ti rammaricare; ed io farò gli estremi onori al sepolcro del mio carissimo Lepolemo col sangue delle luci tue, e alla sua santa anima farò sacrificj con questi occhi. Ma perchè col mio indugio guadagni tu un picciolo intervallo di riposo? E forse in quel mezzo ti immagini i pestiferi miei abbracciamenti: lascia le sonnolenti tenebre, destati ad un’altra caligine, alza la diminuta faccia, e riconosci la giusta vendetta; assapora lo infortunio; annovera le fatiche: in questa guisa sono piaciuti gli occhi tuoi ad una pudica donna, così hanno ad alluminare le fiaccole nuziali la camera tua: or prenderanno la vendetta quelli Angeli, a cui è cura del matrimonio; e la cecità, tua fedel compagna, senza mai da te partirsi, sarà perpetuo stimolo della iniquissima coscienza. - E avendo detto la giovane queste e altre simili parole, le quali il convenevole rancore e il giusto sdegno le sumministravano, preso un dirizzatoio d’acciaio, e fittolo per mezzo d’ambe le luci di Scannadio, lo dannò ad una perpetua notte. E in mentre che col non conosciuto dolore egli discacciava da sè e la crapula e il sonno, la giovane tutta infuriata, presa la spada, che fu già del suo marito, con essa ignuda, come una cosa pazza, si mise a correre per lo mezzo della città, e andossene al sepolcro del suo Lepolemo. Laonde a noi narrando, come il marito le fosse in sogno apparso, e qual vendetta del suo nimico avesse presa, sè stessa uccise, e fu col suo carissimo marito rinchiusa in una medesima sepoltura. Ma Scannadio, non molto dipoi conosciuto tutte le cose come erano passate, stimolato da doglia e da vergogna, volontariamente si morì di fame.
Così, piangendo e sospirando molto, riferiva il famiglio a quei contadini: i quali temendo la novità del mutato padrone, deliberarono di fuggirsi. Il cavallaro, che mi avea ricevuto con tanta cura di ben trattarmi, pose sopra le spalle mie e degli altri giumenti ciò che era in casa di valuta alcuna. Noi portavamo fanciulli e femmine, portavamo polli, capretti e cagnolini; e ciò che non poteva camminare co’ suoi, andava co’ nostri piedi: nè mi gravava la soma, benchè grande fosse e sconcia, poichè io fuggiva quel ribaldo che castrar mi doveva.
Or passato un aspro colle di monte, e camminato gran pezzo per un largo piano, giungemmo già presso a sera ad un castello grande, e di molta gente popoloso; gli abitatori del quale ne vietarono, disconfortando, il partirsi a quell’ora, dicendo, tutto quel paese esser pieno di grandi e ferocissimi lupi, i quali non solamente le pecore e gli armenti danneggiavano, ma gli uomini uccidevano; e che per tutta la strada, dove passar dovevamo, si trovavano corpi umani da loro stracciati, e tutti i luoghi dintorno essere biancheggianti di ossa; e che per questo bisognava andar con molto risguardo, nè prima che il tempo fosse ben chiaro, e il sole levato: imperocchè la furia di quelle crudeli bestie più si fa pigra per la molta luce. Ma quei ribaldi fuggitivi che noi conducevamo, per tema di esser seguiti, lasciando questo buono avviso, circa la mezza notte alla strada caricati ci condussero: io, per la paura dell’udito pericolo, quanto più poteva in mezzo della torma mi accostava, e tenendo la coda ristretta, mi pareva aver tuttavia nelle anche i denti degli affamati lupi. Maravigliavasi ciascuno della mia gagliardezza, e che carico essendo, l’andare de’ voti cavalli agguagliassi; ma non era questa gagliardia, anzi paura: così stimava io, quel Pegaso generoso cavallo essere stato imputato aver l’ali, per la tema de’ focosi morsi della Chimera. Que’ pastori che ne conducevano, in forma di battaglia s’erano armati, alcuni di lance, altri di acuti pali; tutti di sassi, che nella strada erano rotondi e copiosi, erano forniti; ma soprattutto di fiaccole accese risplendeva la nostra compagnia, nè altro ci mancava che una tromba a dimostrare una schiera armata da guerra. Così passammo questo timor vano, e incappammo in un altro daddovero: perciocchè i lupi non ci assalirono, forse smarriti dallo strepito della nostra moltitudine, o spaventati dalla luce del fuoco, ovvero ch’altrove fossero iti a procacciare: noi non vedemmo alcun lupo. Ma passando allato ad una villa, gli abitatori di quella, stimandoci ladroni, con molti gridi ci attizzarono addosso grandissimi cani; i quali con molta rovina ci assalirono, stracciando senza rispetto e gli uomini e le bestie, che spaventati, qua e là fuggendo, stramazzavano, non essendo ancora ben chiaro il giorno; e degli uomini e delle bestie fecero sì fatto macello, che era una compassione: eran giunti quei che si fuggivano, erano atterrati quei che stavano fermi, erano strambellati quei che eran per terra; finalmente egli non vi era scampo per persona. Nè sazia la Fortuna di tanto danno, anzi che questo restasse, ce ne scoccò addosso uno assai maggiore: imperocchè quei contadini che ci avevano ammessi i cani, e in su’ tetti delle lor case, e in sulla cima di certi colletti, che eran sopra di noi assai ben rilevati, ci gittavano addosso sì fatto rovescio di sassi, che noi non sapevamo discernere, qual piuttosto delle due rovine fusse utile a fuggire, o quella de’ cani che ci gastigavano da presso, o quella de’ sassi che ci ferivano da lontano. E mentre che le cose passavano in questa guisa, un di quei sassi ferì una donna che mi sedeva sopra, assai sconciamente: perchè ella, piangendo e gridando, chiamava il marito, che le venisse a porgere aiuto; ma egli fra tante angoscie non sappiendo più che farsi, rasciugando il sangue della mogliera, e degli uomini e della Fortuna rammaricandosi, con profonde urla diceva: Per qual cagione assaltate voi con sì crudeli animi gli affaticati viandanti? perchè danneggiate voi cotanto i poveri uomini? perchè ci distruggete in questa guisa? che preda guadagnate voi? che rovina discostate voi dal vostro capo? che ingiurie vendicate voi? Voi non abitate imperciò per le spelonche come le fiere, voi non abitate però per le caverne come gli uomini barbari ed efferati: perchè dunque vi rallegrate delle nostre piaghe? perchè prendete sollazzo del nostro sangue? — Egli non aveva ancor finite queste parole, che la pioggia di quei sassi restò, e la tempesta de’ cani, per essere stati richiamati, si rasserenò, e uno, che era montato in sulla cima d’uno arcipresso rispondendo a questi suoi rammarichi, disse: Non per cupidità delle vostre spoglie v’andiamo noi assaltando, ma per cercar di rimuovere dal capo nostro cotesta stessa rovina: or finalmente voi ve ne potete ire colla nostra pace sicuramente: seguitate il vostro viaggio. — E posciachè egli si tacque, noi, così feriti come eravamo, seguitammo il restante della nostra via: e mentre che noi camminavamo, era una compassione a udire contare ad ognuno le sue disgrazie: chi era stato morso da un cane, chi ferito da un sasso, e chi aveva avuto un colpo in un luogo, e chi in un altro. Ora posciachè noi fummo oltre un buon pezzo, noi arrivammo ad uno amenissimo luogo, dove era un bosco di così grandi e sì fronzuti arbori vestito, che e’ gettava entro al petto di chi il vedeva una riverenza non picciola; sicchè i pastori, invitati dal piacevole sito, fecero pensiero di posarvisi alquanto, e rinfrescarsi, e curarsi e medicare un poco le piaghe loro: perchè distesi per terra chi qua e chi là su per l’erbetta, cercarono primieramente di rivocar lo smarrito spirito col fare un poco di colezione, e dipoi si dierono a medicare i feriti corpi; questi con acqua di chiaro fiume levava il sangue dintorno alle sue ferite; quegli col bagnarle cercava di farle disenfiare; quell’altro con fasciuole di lino legava le larghe piaghe; e così ognuno, il meglio che poteva, provvedeva alla sua salute. In questo mezzo un certo vecchione, di cui alcune pecorelle che gli pascevano intorno, ne davano indubitato segno che egli fosse un pastore, veduto da un de’ nostri in sulla cima d’un colle ivi vicino, fu domandato, se egli avesse da vendere un poco di latte, o che non fusse rappreso, o che di fresco ne fusse stato fatto il cacio. Ma il vecchione, posciach’ebbe così un pezzo scosso la testa, disse: Dunque alcun di voi pensa al presente al mangiare e al bere e ad altro suo ristoro, nè sa dove egli si sia posto a sedere? Nè prima ebbe finite queste poche parole, che ragunato le pecorelle, egli diede la volta addietro, e dileguossi un gran pezzo lontano: la cui voce accompagnata dalla subita fuga, fece a quei pastori una gran paura. E desiderando di domandar delle qualità di quel luogo, e non vi essendo chi rispondesse, un altro vecchione di grande statura, e ne’ molti anni aggravato, tutto abbandonandosi in su un bastone, nè potendo a fatica muovere il passo, piangendo amaramente, ci si venne accostando. E messosi intorno alle ginocchia di quei giovani, così pregando diceva: Per le vostre più care cose, per l’anime vostre, deh! venite a rendervi all’avanzo della mia vecchiezza, e pronti e arditi porgete aiuto al carico d’anni; e ritogliendo un picciol mio fanciulletto all’inferno, restituitelo a’ miei canuti crini: un mio nipotino, dolce compagno in questo mio viaggio, seguitando una cantante passera per volerla prendere, è caduto in una fossa non guari lontana da voi, tutta di pruni e di pungenti arbuscelli ripiena, ed è posto in manifestissimo pericolo della vita; pur, secondo il gridare ch’egli fa, chiedendomi aiuto, egli vive ancora, ed io per la debolezza del vecchio capo, come voi accorgere vi potete, non lo posso soccorrere: dove che a voi per lo beneficio della vostra giovine età e della vostra gagliardia sarà agevol cosa porgere aiuto a quel fanciullo, unico successor delle mie fatiche, e tronco solo della stirpe mia, e rendere insieme un misero vecchio a’ comodi di questa vita. Veggendo questi pastori, che costui così efficacemente gli pregava, non poterono non gli aver gran compassione; perchè uno fra gli altri, e più forte d’animo, e di età più robusto, e di maggior gagliardia, e il qual solo era uscito della passata battaglia senza ferita, levatosi in piedi, subito il dimandò del luogo ove era caduto quel fanciullo: ed egli mostrandoli così col dito alcuni arboscelli non molto da lungi, quel giovane gli andò dietro. Or posciachè i nostri pastori si furono riposati a lor bell’agio, ricaricato ad ognun di noi l’usata soma, diedero ordine di rimettersi in cammino, come più tosto colui fusse tornato. Posciach’egli ebbero aspettato quel giovane presso ad una mezz’ora, veggendo ch’e’ non tornava, lo chiamarono ad alta voce più volte; e perchè egli non rispondeva, e’ mandarono uno a cercar di lui, acciocchè ritrovatolo, e rimessolo nella buona via, nel rimenasse. Il quale, posciachè fu dimorato alquanto, tornatosene smorto e interriato, ch’egli pareva un corpo uscito d’una sepoltura, raccontò cose di quel povero uomo, da far pianger le pietre; e diceva che egli l’avea veduto giacere per terra rovescio, e che sopra di lui era uno smisurato serpente, che l’avea già quasi divorato presso che mezzo; e il malvagio vecchio nè si vedeva o si udiva in alcun luogo. Il quale crudele accidente accozzato colle parole di quel vecchio pastore, che come chi doveva sapere che egli quivi del continuo dimorava, gli aveva ammoniti, fece a tutti una grandissima paura; e senza indugio alcuno, toccando a noi altri di buone bastonate, si dierono a fuggire quanto e’ poterono più ratti. E posciachè noi avemmo fatto un lungo viaggio, noi arrivammo ad un borgo di case, e quivi ne riposammo per quella notte. Io desidero narrarvi un caso certamente degno delle orecchie altrui, che di quei dì era accaduto in quella villa.
Un certo servo a cui il padrone avea commessa tutta la cura della casa sua, e il quale il più del tempo dimorava in quel villaggio, avendo della medesima famiglia una conserva per moglie, si era fieramente acceso dell’amor d’una donna libera sua vicina: del quale amorazzo essendosi accorta la moglie, per far vendetta del gran dolore che le dava la smisurata gelosia, montata in sulle furie, mise in sul fuoco tutte le scritture del marito, e tutti i miglioramenti di casa, e abbruciò ogni cosa: nè contenta di questa vendetta, anzi incrudelendo contro a di sè medesima, avvoltosi un laccio intorno al collo, e legato colla medesima fune un picciolo figliolino, ch’ella aveva di quel marito, e itasene sopra d’un profondissimo pozzo, e sè e il fanciullo vi gittò dentro. La cui morte dispiacendo al padron loro insino al cuore, lo accese a dover prender vendetta di colui, il quale colla sua lussuriosa vita era stato cagione di tanto scandolo; e presolo, e spogliatolo ignudo nato, avendolo unto di mele dal capo al piede, lo legò strettamente ad un certo fico, che entro al suo pedale, per esser vecchio e marcio, aveva un grandissimo numero di quelle formiche, che costor chiamano puzzole. Le quali, come è loro usanza, tutto il giorno camminando in giù e in su, come più tosto s’accorsero di quel mele, ad un tratto imbrunirono quel corpo, che bruno vi si vedeva; e poscia co’ lor piccioli, ma acuti morsi, a poco a poco il consumarono infino all’ossa, senza segno alcuno di carne elle rimasero attaccate al tronco del mortifero fico. Lasciando noi adunque questo abominevole paese, nel quale per lo atroce caso erano tutti gli uomini addolorati, di nuovo ci mettemmo in viaggio; e camminando tutto il dì per un piano, stracchi e lassi capitammo ad una bella e buona città, nella quale fermatisi i pastori, e conosciuta l’abbondanza del vivere e la frequenza del popolo, e’ deliberarono che quella fosse la stanza loro e la lor patria. Deliberati dunque di fermarsi quivi, e pensando levarsi daddosso tante bestie, eglino per tre dì ci diedero molto ben da mangiare, acciocchè rifacendoci un poco, noi avessimo miglior occhio in sul mercato: e quando parve loro che noi fussimo un poco più vistosi, menatici alla piazza, e consegnatici ad un banditore, e cavalli e asini tutti fummo messi allo incanto. Ma i compratori, come egli mi avevano visto molto ben per lo minuto, e guardatomi i denti, per vedere quanto tempo io mi trovava, tutti mi lasciavano indietro, come una cosa disutile: e tanto mi era venuto in fastidio quel brancicar della bocca, che accostandomisi uno con certe manacce che puzzavano come una carogna, per far l’effetto medesimo; io gli presi la destra, e tutta quanta gliela schiacciai: la qual fu cagione di rimuovere tutti i circostanti dalla mia compra, se niuno ve ne aveva che badasse al fatto mio. E il banditore, che digià era venuto roco per lo tanto gridare, beffandosi di me, diceva: E a che fare avemo noi messo in vendita questo asinaccio vecchio, disutile, spiacevole, poltrone, con l’unghie guaste, con tristo mantello, che oramai non è buono ad altro che a farne un vaglio? e però doniamolo a qualcheduno, s’egli ce ne è di quegli che non gl’incresca gittare via un poco di fieno. E con queste e altre così fatte ciance faceva morir delle rise il banditore tutta la brigata. Ma quella mia crudelissima Fortuna, la quale mi aveva per così strani paesi già tanto tempo perseguitato, cui non il fuggir mio, non tante avversità l’avevano mai potuta o da me tener discosto, o placare almeno, di nuovo mise nelle mie chiome i suoi feroci artigli: e ritrovato un compratore atto alle mie disavventure, me gli diede nelle mani; e sapete a chi? ad uno della feccia di quei ciurmadori, i quali, fingendo d’esser sacerdoti, e coprendosi col mantello di santo Antonio, vanno barando il mondo, e spogliando e ingannando quelli buoni omiciatti e semplici donnicciuole danno lor fra le mani, in iscandolo e disonor grande dei veri religiosi e della nostra religione. Ora costui per la fretta di comprare, senza guardare altro, domandò donde io fussi. A cui il banditore rispose, ch’io era di Cappadocia, e assai ben gagliardazzo: e ridomandandol del tempo, il banditor, beffandosi, rispose: Un certo astrologo, che ha veduta la sua natività, il quale allora, gli annoverò gli anni, te lo saprebbe dir me’ di me; perchè dunque non lo comperi tue? egli è un de’ buoni e dabbene asini, che sieno in su questo mercato; il quale e in casa e fuor di casa ti potrà aiutare in tutti i tuoi bisogni. Ma quel fastidioso di quel compratore gli rompeva pure il capo col domandargli or d’una cosa e or d’un’altra, e faceva una grande instanza, per voler sapere come io era agevole. Allor disse il banditore: Di questo non ti fa mestier domandare; ch’egli è una pecora, non un asino; mansueto, che se ne può fare ogni cosa, e non morde e non trae; egli è in modo finalmente, che sarebbe da dire che uno uomo fusse venuto ad abitar nel cuoio di questa bestia: la qual cosa non è molto difficile ad esperimentare, imperocchè se tu metti il viso tuo tra le sue cosce, tu conoscerai agevolmente la sua pacienza. In questa guisa uccellava quel banditore questo imbriacone. Ed egli, che si accorse della baia, divenuto simile ad uno che lo avesse avuto per male: Ahi corpo disutile, e sciocco banditore, che ti possa abbruciare il fuoco del barone santo Antonio; che tu hai oramai troppo cianciato sopra del fatto mio. Credi tu che io voglia commettere il tabernacolo del barone santo sopra d’una bestia spiacevole, acciocchè come egli aombra, e’ gitti per terra il santo tabernacolo? Come più ratto io udi’ le costui parole, pensava far qualche sconcia pazzia, acciocchè il compratore impaurito della mia fierezza, stornasse il mercato: ma la di lui sollecitudine prevenne il mio consiglio; e sborsato il pregio della mia compra, che fu ben sedici lire, il quale il mio padrone prese più che volentieri, come colui che oramai era stracco del fatto mio, e ricevute ch’e’ l’ebbe, subito mi consegnò a Filebo, che così era il nome del nuovo signore: ed egli, messosi innanzi il sergente novello, tutto allegro, parendogli avere fatto una bella e una bonissima spesa, mi menò alla casa sua; e non avendo pacienza d’entrar dentro, come egli fu in sulla soglia, egli incominciò a gridare: O fanciulle, io vi ho menato dal mercato un bellissimo servo. Erano quelle fanciulle concubine di quei venerabili religiosi; fra le quali alcuna ve ne aveva, che ancorchè si operasse in quei servigi che la natura ha provviste le donne, non altro aveva di femmina, che le vestimenta e i perversi costumi. Le quali, credendo ch’egli dicesse davvero, che egli avesse menato un uomo che le servisse, tutte cominciarono a gridar per l’allegrezza, ch’elle parevano impazzate. Ma posciach’elle si accorsero, che non una cervia in cambio d’una vergine, ma uno asino invece di un uomo vi era arrivato, arricciando il naso, cominciarono a beffeggiare il loro maestro: che egli non aveva menato un servo, ma un suo marito, e che e’ guardasse a non si goder da sè stesso così bel giovanetto, ma che alcuna volta e’ ne fesse partecipe le sue colombine. E queste e altre simili ciance dicendo, io fui legato appresso ad una mangiatoia. E un certo giovane, il quale, fuori sonando una sua viola, accompagnava alcun di loro che cantava in banca, e in casa faceva copia del corpo suo; come più tosto mi vide nella stalla, datomi da mangiare abbondevolmente, tutto allegro mi diceva: Tu se’ finalmente arrivato, successor delle mie fatiche; vivi adunque lungamente e in grazia de’ miei padroni, e porgi aiuto a’ miei oramai debili fianchi. Le quali parole udendo io, come colui che da lunge prevedeva le fatiche mie, meco stesso della mia disgrazia mi lamentava. Nè vi andò molti giorni, che parendo a’ miei padroni il tempo accomodato di fare la lor vendemmia, messisi in arnese di tutto quello che a gravi e buoni religiosi fusse convenevole, e desti i breviari e i paternostri, che già avean dormito un pezzo, e messo sopra di me il tabernacolo del baron santo Antonio, e preso lor privilegj e scartafacci, si misero in viaggio. E posciachè con assai guadagno, per non dir rubare, egli ebbero cerco una infinità di castelli, e sottratto da chi quattrini, da chi cacio, da chi latte, da chi vino, da chi farro, da chi segala, da altri dell’orzo per dare alle bestie, e da quello questa cosa, e da quell’altro quell’altra, cacciatele in certi sacchi fatti a bella posta, tutte me le misero sopra delle mie misere spalle: a cagione che aggravato da doppia soma, io fussi, camminando, in un medesimo tempo un granaio e una chiesa. E mentre che egli andavan predando in questa guisa tutto quel paese, io vi voglio contare la terribile astuzia che egli usarono contro ad uno, che volle ritor loro certi panni che aveva loro dati la moglie. Erano giunti questi mariuoli, predando piuttosto che predicando, a una certa villa, e d’ogni erba facevan fascio. Passando dunque dalla casa d’un povero lavoratore colle sue ciurmerie, veggendogli la moglie sua semplice donnicciuola, si fece loro incontra: ed eglino chiedendole limosina, per far le tovaglie dell’altare, d’un poco di filato o d’altra cosa tale, la semplice donna, non avendo altro, diede loro una tela di parecchi braccia; ed essi, fatta la preda, se ne andarono con Dio. Non furono sì tosto partiti i valentuomini, che il marito giunse; a cui subito la donna disse: Qui furono dianzi i frati del baron santo Antonio, a’ quali ho fatto limosina per Dio, ed essi hanno segnato le bestie nostre colle reliquie loro. Il marito, conoscendola di buona pasta, disse: E che desti tu loro? La tela nostra, soggiunse la donna. Il marito non aspettò più altro; ma presa una chiaverina in mano, si diede a correre quanto più poteva verso dove erano andati, talchè in poco tempo gli giunse: ed essi veggendolo correr con tanta furia, s’immaginarono di quel che era: perchè subito un di loro, preso l’esca e ’l focile, accese il fuoco da un capo alla tela, e sì la coperse. Giunto il lavoratore a’ frati, disse loro un carro di villanie, ed era anco per far loro un mal giuoco; se non che essi gli restituirono la tela dicendo: santo Antonio faccia miracolo. Il contadino, riavuta la preda, se ne ritornò alla moglie: nè fu sì tosto a lei, che sentì certo fummo; perchè guardato la tela, la vide ardere: onde temendo dell’ira di santo Antonio, e impaurito anco dalle grida della moglie, che gridava miracolo, miracolo, corse dietro a richiamare i frati: i quali giunti alla villa riebber non pur la tela, ma di molte altre cose, ch’erano loro date da que’ semplici contadini. Fatto che egli ebbero adunque così bel miracolo, e’ se n’andarono ad un certo castello non molto lontano di quivi, e tutti allegri della grossa preda, deliberarono di fare una bella cena; e involato un porco a non so chi contadino sotto spezie d’una lor profezia, apparecchiarono questo convito: e avendo adocchiato un villanotto giovane e ben robusto, con gran profferte e larghi doni il menarono a quella cena, con animo che per lo avvenire egli avesse ad essere de’ loro. Alla qual cena e’ feciono e dissero cose, e a quello esercizio adoperarono la giovanezza di quel contadino, che ora io me ne vergogno a dirlo, e allora con gli occhi miei non poteva sopportare di guardarlo. Io volli gridare; o cielo! Ma rimastemi nel palato tutte le altre lettere, io solo la prima pronunziai, e chiaramente e altamente dissi: O. La qual voce, così come non era convenevole ad uno asino, così non fu opportuna: imperocchè alcuni giovani d’una villa ivi propinqua, andando allora appunto ricercando d’uno asinello ch’era loro stato furato la notte dinanzi, andavano con gran diligenza spiando per tutte quelle case ivi dattorno, se alcun di loro il tenesse nascosto: perchè udito il ragghiar mio, stimando che entro alla casa dove io era, fusse la preda, corsisene subito verso noi, anzi che niuno si potesse accorgere di lor venire, se ne saltarono in casa: e sopraggiunti così alla sprovvista, trovarono quelle divote persone, che facevano e dicevano delle belle cose ch’io vi ho accennato di sopra. Le beffe e le scuse per allora furono grandi da trambedue le parti, ma la vergogna e la credenza assai minor di quello ch’elle dovevano: sicchè, scoperte per tutti quei paesi le egregie opere di quei santi padri, e dato a conoscere la lor castità per tutto, in tanto odio gli fece venir per quelle contrade, che fè lor mestiero in una notte ascosamente far fardello, e partirsi di quindi. E avendo camminato fuggendo di molte miglia, appena era levato il sole, che ritrovandoci in un luogo molto solitario, io gli senti’ bisbigliare non so che l’un coll’altro; e vedeva ch’egli mettevano a ordine per ammazzarmi. Levatomi il tabernacolo e tutte le altre bazzicature daddosso, e trattomi il basto e tutti gli altri fornimenti, legatomi ad una quercia, con un buon bastone di corniola tutto pien di nodi mi dierono tante le bastonate, che poco mancò che il lor pensiero non avesse effetto: e per ristoro, quando io credeva ch’e’ fusse finito di dar la battaglia, io senti’ un di loro, che mi minacciava di tagliarmi le gambe con una scure, posciach’io era stato quel che aveva scoperto il trionfo della loro candidissima castità: ma alcuni altri, non a contemplazion della mia salute, ma per non avere a portar quel tabernacolo addosso, e quelle altre cose che erano quivi per terra, giudicarono ch’egli fusse a lor proposito ritenermi in vita. Perchè di nuovo rimessemi addosso tutte quelle cose, senza restar mai di bastonarmi e minacciarmi di peggio, seguitarono il lor viaggio, sino a tanto che egli arrivarono ad una grossa villa, dove abitava un uomo ricco di bestiame e di possessioni: il quale, ancorchè per altro fusse molto religioso, per cagion del bestiame era divotissimo di Santo Antonio; e però ricevuto il tabernacolo in casa sua e tutti noi altri, con molte orazioni s’ingegnava d’impetrar la grazia di quel Santo, e con buone spese interteneva quei suoi divoti. Quivi fu dove io mi ricordo aver portato il maggior pericolo ch’io portassi mai nell’asinità; e questo fu, che avendogli un certo suo lavoratore mandato a donare una coscia d’un cervio bellissima, il cuoco l’aveva attaccata vicino all’uscio della cucina, così bassa, che un certo cane, che bazzicava per casa, accorgendosene, tutto allegro se la fece sua: del qual danno avvedendosi quel cuoco, e incolpandone la sua negligenzia, con non giovevoli lagrime si lamentava. E accostandosi l’ora del far da cena, e il padrone sollecitandolo che egli acconciasse quel cervio, il povero cuoco, come quel che dubitava di cosa peggiore, detto addio ad un suo figliolino, e avvoltasi una fune intorno al collo, si voleva appiccar per la gola. Della qual cosa accorgendosi una sua fida mogliera, corse là; che a gran fatica giunse a tempo; e levatogli quel capestro dintorno, dopo molte altre parole gli disse: Se’ tu per una così fatta disgrazia uscito in modo del cervello, che tu voglia fare e te e me e il tuo figliuolo malcontenti tutti in un tratto? Or non vedi tu il fortuito rimedio, il quale ti mostra la divina providenzia? E però, se tu rivolti niente l’animo dagli ultimi trabocchi della fortuna, ascoltami con attenzione: prendi questo asino, che hanno in casa questi romitonzoli, e ammazzalo in qualche luogo, che tu non sia veduto; e presa poscia una delle sue coscie in vece di quella che ti è stata tolta, e preparatala con soavissimi sapori in pasticci alla spagnuola, e in quegli altri modi che meglio ti parrà, la porterai al padrone; il quale se la mangerà non altrimenti che se fusse cervio. Piacque a quello imbriaco cuoco la sua salute per la morte mia; e lodando insino al cielo la sagacità di quella maladetta femmina, prese un suo coltello, e cominciandolo ad arrotare, si metteva a ordine per far la deliberata uccisione.
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