< L'asino d'oro
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Apuleio - L'asino d'oro (II secolo)
Traduzione dal latino di Agnolo Firenzuola (XVI secolo)
Libro X
Libro IX Novella dello sternuto

LIBRO DECIMO


Non so quello che si facesse nel seguente giorno il mio padrone ortolano, ma io fui menato via da colui che fu nella strada così maltrattato. Io era armato sopra le spalle di elmo, di scudo e di lancia, di maniera ch’io spaventai molti viandanti: e così col carriaggio del soldato addosso, per via piana e non molto aspra arrivammo ad una picciola città; e quivi non nella osteria ma in casa d’un cittadino fui consegnato a un servo per lo nuovo padrone, e n’andò prestamente a un suo colonnello, il quale avea il governo di mille fanti. Nel tempo ch’io stetti fermo in quel luogo, intesi una grandissima e scellerata cosa, la quale così come fu vera a voi la racconto.

Aveva il padrone di quella casa un figliuolo e di lettere e d’ogni altra virtù tanto eccellente, che un tale non se ne potrebbe augurare. Morta la costui madre già molto tempo avanti, e menata nuova moglie, aveva generato un altro figliuolo, il quale era d’età di dodici anni. Questa matrigna, più di bellezze che di buon costumi ornata, alla beltà del figliastro aveva posto gli occhi; o che di natura fosse impudica, o che la Fortuna a questo estremo male destinata l’avesse. Sappi, lettore, che non una favola, ma una tragedia leggerai; e però l’animo all’altezza del fatto apparecchia. Ben potè questa misera femmina con silenzio comportar l’amore, mentre che picciolo fu, nel principio uguale alle sue forze; ma poichè le midolle dell’esecrabil fuoco accese la sforzarono cedere allo amore, simulandosi inferma del corpo, copriva la ferita dell’animo, mostrandosi d’occulta febbre assalita; perciocchè l’amore e la febbre ne’ segni di fuori convengono assai: così la difforme pallidezza degli occhi sbattuti, le ginocchia stracche, il sonno interrotto, i tormentati sospiri, e il trepidante polso, febbrosa la mostravano in ogni effetto; se non che oltre alle soprascritte passioni, ancora piangeva. Ahi vane menti de’ medici! il polso della vena, lo stemperato caldo, il faticoso spirare, e le spesse voltazioni or su uno or sull’altro fianco, sono segni incerti e dubbiosi; ma il conoscer l’amorosa passione è agevole a ciascuno intendente, quando si vede alcuno ardente senza corporal calore stimolato. Questa femmina dunque ardente del focoso pensiero, fece chiamare a sè il figliastro, il cui nome avrebbe volentieri levato, per non farlo accorto della sua vergogna. Venne il giovanetto alla camera della moglie di suo padre, e madre del suo fratello. Ma ella lungamente con silenzio tormentata, siccome ella fusse stata entro una palude di dubitazione inviluppata, tutte le parole che pensava essere attissime al suo ragionamento e lodava e vituperava, nè sapeva come si dovesse cominciare. Ma il giovanetto, che ogni altra cosa che questa pensava, con piacevole volto, la domandò della cagion della sua malattia. Allora, parendole che le parole fussero cadute a suo proposito, preso un poco più baldanza, coprendosi il viso col lenzuolo per la vergogna, e accompagnando le sue parole con una larga copia di lagrime, gli prese a dire in questa guisa: La cagione e ’l principio del presente mio male e del mio grandissimo dolore, e la medicina mia e la mia salute se’ tu medesimo; cotesti splendentissimi occhi tuoi, passati per gli occhi miei alle fimbrie del mio cuore, mi hanno acceso entro al misero petto tanto il grandissimo fuoco, che più sopportar nol posso: abbi adunque misericordia di colei che muore per tua cagione, nè ti spaventino il vincolo e la necessità paterna; e perciocchè tu sarai quegli che gli preserverai la povera mogliera, che senza l’aiuto tuo non si può più sostenere in vita, e la quale, in te riconoscendo la di lui immagine, nel tuo volto ama, e meritamente, il suo marito: l’essere noi due qui soli ne porgono quella fidanza e quella comodità che tu vuoi; e quello che non saprà persona, ancora ch’e’ si faccia, è quasi come s’e’ non si facesse. Andò tutto sottosopra il costumato giovane udendo l’abbominevol domanda: e ancorachè egli abborrisse così grandemente lo enorme peccato, ch’e’ fusto per torsele davanti senza mai altro rispondere; pur meglio riconsigliato, e’ non gli parve da esasperarla col dirle così ad un tratto di no: ma pensò ch’e’ fusse più al proposito con alcuna dilazione di tempo intertenerla, per poter vedere di torle dalla mente sì sozzo e strano pensiero. E però le rispose, che attendesse a guarire, e stesse di buona voglia, che egli le prometteva di renderle bonissimo guiderdone dell’amor suo; e come il padre, assentandosi un poco dalla terra, desse loro agio di poter essere lungamente insieme, e che ella fusse ben guarita, che egli farebbe di sè tutto il suo piacere: e mille anni gli parve di levarsi dinanzi al temerario desio della disonesta matrigna. E pensando infra sè, che una così fatta rovina avesse bisogno d’un gran consiglio, egli giudicò ch’e’ fusse ben riferire ogni cosa ad un saggio vecchione, appresso del quale egli avea utilmente consumata la sua fanciullezza, e ora sostenevane la sdrucciolevole adolescenza. Al quale, come chi conosceva bene quello che una infuriata donna potesse, e quanto strano le paresse non esser compiaciuta, parve con veloci passi che egli fusse da fuggire la imminente tempesta della incrudelita fortuna. Ma avanti che la prudente deliberazione sortisse effetto, la impaziente giovane, a cui un sol giorno era un anno vertente, seppe tanto ben fare, che dando ad intendere al marito, che egli era bene che egli andasse ad alcune sue possessioni assai discosto, imperocchè ella aveva inteso che egli vi andava male ciò che v’era, ella il sospinse fuori per non so quanti giorni: e subito partito ch’e’ fu, fattosi venire il giovane, il costringeva pure ad attenderle la promessa. Ed egli or questa or quella scusa prendendo, s’ingegnava tener pasciuto di parole il suo desiderio, finchè con un suo lungo viaggio egli dinanzi se le levasse. Ma ella, cui la grande speranza aveva fatto troppo più che l’usato impaziente, accortasi per la varietà delle debili scuse, che egli quanto le prometteva più, più si dilungava dallo osservargliele, sdegnata, e voltato in un subito lo scellerato amore in uno odio vie più scellerato, avuto a sè uno schiavetto, che ella aveva menato seco di casa sua, e al quale ogni gran male sarebbe paruto piccolo, con lui si consigliò del modo che si avesse a tenere a vendicarsi della onesta costanzia (ma perfidia la chiamava ella) dello innocente giovane: nè parve lor finalmente cosa più al proposito che con veleno torre la vita al meschinello. Nè prese indugio il fellone servo a dare effetto al crudo pensiero; anzi allora allora andatosene fuori, non prima ritornò a casa, che egli portò in un bicchiere una sua bevanda, la quale avendo mescolata col vino, in camera della madonna dentro ad un armario la pose. E mentre che egli aspettava occasione di porgerlo al giovane, come volle la fortuna, quel più giovane, e figliuol naturale della pessima donna, essendo ritornato una mattina dalla scuola, e avendo fatto un poco di colezione, si gli fece sete; e venendogli per le mani quel bicchiere, il quale la imprudente donna, o per istraccurataggine, o pur perchè così la giudicava il suo peccato; ella aveva lasciato in quello armario senza serrarlo; nè sappiendo quello che entro vi si fusse, tutto se lo bevve: nè piuttosto ebbe bevuto il crudele e destinato pericolo del suo fratello, che egli cascò disteso in piana terra. Della qual cosa accortosi un suo maestro, montato in sulle furie per così terribile e repentino accidente, piangendo e mettendo a romore ogni cosa che vi era, fece ivi correr la madre e tutta la famiglia: i quali tutti, conosciuta la cagion della sua morte, chi l’apponeva ad una persona, e chi ad un’altra; ma quella malvagia femmina, e unico esempio delle malizie delle matrigne, non commossa per l’acerba morte del picciolo figliuolo, non dalla coscienza macchiata da così abbominevol peccato, non dalla rovina di tutta la casa, non dal dolor del povero marito, anzi arrabbiata, infuriata, indiavolata più che mai, cercò modo, con accrescimento d’occasione, di vendicarsi di quella offesa, che essa si aveva fatta da sè stessa. E spacciato subito uno a posta al marito suo, e fattogli annunziar la morte del figliuolo, come più tosto fu tornato in casa, copertasi con una maschera d’una indicibile temerità, gridando, e mettendo a soqquadro la casa, diede ad intendere all’infelice padre, che ’l veleno del figliastro aveva tolto la vita al suo figliuolo. Ma in questo ella non diceva però menzogna; conciossiachè quel veleno, che aveva a trar dal mondo il figliastro, quello stesso aveva morto il suo fratello: e perchè la cosa avesse più del verisimile, ella aggiungeva, che ciò era avvenuto per non avere ella voluto acconsentire alla sua scellerata libidine; e, mentendo, aggiugneva d’essere stata minacciata di morte da lui. Quando questo scopre lo infelice padre, percosso dalla morte del figliuolo, anzi quasi d’amendue, assai più del suo infortunio si doleva: perciocchè il più giovane già si vedea portare davanti alla sepoltura, e ’l maggiore per lo incesto e parricidio sapea di certo dover essere alla morte condannato. Or da’ falsi lamenti della moglie ingannato, ognora più di rabbioso odio contra il figliuolo s’infiammava. E appena erano l’esequie compiute, che ’l miserabil vecchio si parte dalla sepoltura, e siccome era col volto lagrimoso ne va al palagio; e quivi con lagrime e con preghi s’adoperava alla morte di quel figliuolo, che solo gli era restato, chiamandolo incesto per lo paterno letto macchiato, parricida per l’ucciso fratello, e assassino per aver minacciata la matrigna di morte. E con tanta indignazione aveva mossa la plebe e la corte, miserabilmente parlando, che ognun gridava, dicendo: Questo sì grave peccato doversi pubblicamente punire, lapidandolo, senza perder tempo in accusa nè difesa. Ma gli ufficiali, per tema del proprio pericolo, ora pregando i signori, ora acquetando il popolo, persuasero che dirittamente e secondo il costume antico fosse la sentenza diligentemente intesa, nè a guisa di barbarica fierezza o di tirannica potenza fosse condannato alcuno senza udire la sua ragione; e che esempio tanto crudele non si mettesse in usanza, che per indignazione e non per giuste prove s’uccidesse alcuno. Piacque a ciascuno questo parere, e però furono chiamati in corte i consiglieri. Fu secondo il costume della legge citato il reo, e denunziata la causa all’accusatore. Ma con quai parole l’uno accusasse e l’altro si difendesse, non saprei io dire, perchè io mi stava legato alla mangiatoia: e questo che fin qui v’ho riferito, intesi dal parlare che facevano insieme le persone. Ora, poichè la contenzione del parlare fu finita, non piacque ai giudici di terminar questi così gravi peccati per conghietture o sospizioni, ma per ferme prove e certa verità. Onde parve loro che quel servo fosse quivi presentato. Così quel servo, continuo compagno della forca, fu condotto, senza smarrirsi punto, al cospetto di tante onorevoli genti, nè sbigottito della coscienza del male che egli avea fatto; anzi cominciò, mostrando molta paura, a dipingere una certa sua favola, dicendo che questo giovane, sdegnato del fastidio della matrigna, lo avea domandato, che in sua vendetta volesse uccidere il figliuol di lei, promettendogli gran premio, e che ricusando questo, egli lo minacciò di morte; per la qual tema egli fu costretto a comperar quel veleno, il quale stimava lui avere poi di sua mano dato al fratel minore. Pareva molto presso all’immagine del vero quello che questo ribaldo mentiva; con tante simulazioni di paura e semplicità di parole aveva quella scellerità ordita. Nè rimase alcun giudice tanto amico al giovane, che non giudicasse doversi porre al tormento. Ed essendo già per iscritti brevi il parer d’ognuno gittar nel bossolo le fave nere e bianche; e dipoi quella sentenza non si poteva distornare, che dandosi il malfattore in mano al manigoldo, davasi esecuzione alla sentenza, quando un medico di molta integrità e autorità in quella corte, gettò la mano sopra la bocca del bossolo, coprendolo sì che alcuno non vi potesse por dentro le fave; e rivolto agli altri, così disse: Io mi allegro poter dire, cha insino a questa età sia da voi riputato buono, nè posso patire, un manifesto omicidio essere da tutti noi commesso, i quali per giuramento siamo astretti di giudicare il diritto: ma che sarà, se io solo contra l’affermazione d’un altro mi oppongo? Io però son quello che mi stimate voi, ed egli è un servo ribaldo degno di mille forche. Io so che la mia coscienza non m’inganna, e però udite la cosa com’ella sta veramente. Questo ribaldo, son già molti giorni che m’ha sollecitato ch’io gli venda veleno subitano, offerendomi in prezzo cento ducati d’oro; dicendo averne bisogno per dare ad un certo infermo, il quale cruciato il giorno e la notte da una immedicabile idropisia e da mille altri dolori, avea desiderio, la mercè della morte, uscir di tante fatiche; e voleva ch’io gliel’ordinassi: perch’io veggendo questo ladroncello andare cincischiando le parole, mentre egli cotali sue artificiose scuse ritrovava, cominciai a dubitare ch’egli non volesse fare qualche gran male, e fui per dargli commiato; ma pensando poi fra me, che se io gliel negava, ch’egli se ne andrebbe ad un altro manco avveduto di me, che ne lo compiacerebbe, io giudicai che fusse bene dargli una pozione, e gliele diedi, ma di che natura ella fusse, voi l’intenderete più giù di sotto. E tenendo per cosa certa, che questa cosa si avesse col tempo a ricercare, io non volli prender subito il prezzo ch’egli m’avea offerto; ma voltomigli, dissi: Perciocchè io dubito ch’e’ non ce ne abbia di quelli che sieno falsi o leggieri, mettera’li qui in questo sacchetto, e segnera’li col tuo anello; e poscia un altro dì, quando avremo maggiore agio, ce n’andremo al banco, e faremogli vedere: e giuntolo in questa guisa, io gli feci suggellar quel sacchetto col suo suggello. Ora io me l’ho fatto portar dietro da un mio fante, ed ecco ch’io ve lo fo palese: vegga egli e riconosca il suo suggello, e dica in che modo può essere incolpato questo giovane di aver dato quel veleno al suo fratello, il quale ha comprato questo vile schiavo. - Mentre che il valente uomo diceva queste parole, quel pessimo, divenuto come un corpo disotterrato, e tremando dentro a verga a verga, gittava di fuore alcune gocciole d’un sudor freddo come un ghiaccio; e movendo i piedi ora innanzi e ora indietro, e or gittando il capo in qua a ora in là, cominciò con una bocca piccina a masticare non so che inezie, in modo che niuno ragionevolmente l’avrebbe potuto giudicare innocente. Nondimanco il temerario ribaldo, fattosi colla sua audacia incontro al timore, e via discacciatolo, ripreso ardire, e cominciato a ritrovar le vecchie astuzie, colla medesima prontezza d’animo, accusando quel medico di menzogna, negava tutto quello ch’egli avea detto. Ma il ben vissuto vecchio, per non macchiar la netta sua fama nell’ultimo degli anni suoi, con ogni instanza s’ingegnava di mostrare la verità della cosa: e però fatto trarre ad un degli esecutori della giustizia lo anello di dito a quel servo, e confrontatolo col segno di quel sacchetto, e trovato ch’egli era così come il medico diceva, l’ebbero per indizio sufficiente da metterlo alla tortura. Ma nè corda, nè dado, nè stanghetta, nè uovo, nè acqua, nè fuoco, nè cosa del mondo il poterono mai far cangiare d’opinione. Allora il medico, mosso da una giustissima indignazione: Io non patirò, disse, io non patirò che contro ad ogni debito di ragione voi condenniate questo povero giovane alla morte, e che costui, schernito il vostro tribunale, se n’esca libero sanza danno alcuno e senza pena; e darovvi al presente così evidente argomento, che egli non ci fia che replicare. Voi avete dunque a sapere, che volendo questo pertinace scellerato, come già vi ho detto, che io il provvedessi di quel veleno, nè mi parendo che egli fusse convenevole ad un buon medico esser cagione della morte di veruno, come quegli che sapeva che la medicina era stata per salute e non per danno dell’umana generazione dimostrata agli uomini dal cielo; e dubitando, come eziandio di sopra vi ho accennato, che se io così subitamente gliel negava, che la inopportuna repulsa non lo facesse o cercare altrui, o a ferro o a cosa peggiore volgere il pensiero; io gli diedi non veleno, ma una pozion di mandragola, che fa dormire sì profondamente, che mentre che dura la di lei operagione, colui che l’ha presa non diviene altrimenti che se fusse morto. Nè vi maravigliate, che questo empio di tutti gli empj sopporti così leggiermente ogni martoro; imperocchè egli non è così fuori di cervello, che e’ non consideri, che la morte che egli per la sua indicibile ribalderia ha meritato, dee esser tale, che tutti i martirj che voi gli avete dato, sono appo quella e dolci e leggieri: e però se quel fanciullo ha preso la pozione, che io colle mie mani ho temprato, egli vive, e si riposa, e dorme; e come più tosto la fortezza della natura avrà discacciato la folta nebbia di quel sonno, la nostra luce di nuovo bella come prima gli apparirà: ma se egli è morto davvero, ricercate d’altronde la cagione, nè dubitate che costui ne sia stato il mezzano.

Dette che ebbe queste parole il pietoso vecchione, e’ parve a tutti, che egli fusse, sanza indugiar niente, da andare al luogo dove era sepolto il giovane, per chiarirsi di questo fatto: nessuno del palazzo, nessuno gentiluomo, nessuno della minima plebe rimase, che non andasse a veder così fatto miracolo. E giunti ch’e’ furono al luogo, il padre del giovane fu quelli che colle sue mani volle rimuover la pietra d’in sul monumento. Nè voleva star più il pietoso soccorso; imperocchè già aveva la natura discacciata da sè la oscura sonnolenza, ed era il giovane ritornato dal regno di Plutone. Perchè il padre, abbracciatolo con quella tenerezza che voi vi potete pensare, per non avere parole sufficienti alla presente allegrezza, tacendo il trasse fuori della sepoltura, e così vestito delle funebri vesti, come egli era, il presentò dinanzi al podestà. Il quale, avendo poscia compiutamente inteso la scellerata opera dello iniquo servo e della scelleratissima donna, diede a ciascuno il meritato guiderdone; e al buon medico di comun consenso fu lasciato il pregio avuto dal servo per pagamento della sonnolente bevanda: e quel padre, che era in pericolo di perdere due figliuoli, barattandogli colla pessima moglie, che fu perpetuamente sbandeggiata, allor vivi e innocenti gli riebbe, quando la Fortuna pareva che morti e colpevoli glieli volesse torre.

Nè vi andò guari dopo così fatto accidente, che quel soldato, che senza vendita altrui mi aveva comprato, e senza danari suoi mi aveva fatto suo, dovendo per comandamento del suo capitano portar certe lettere, allor mi vendè diciotto lire a due fratelli, i quali stavano con un signore di casa Orsina, chiamato il signor Giordano: uomo, oltra la nobiltà del sangue e le maravigliose ricchezze, tanto piacevole e tanto gentile, quanto altro che fusse stato gran tempo fa in quelle contrade: e un di loro lo serviva a far berlingozzi, ciambellette, zuccherini, e altre così fatte cose; e l’altro gli amministrava la cucina. E perciocchè egli accadeva loro spesso andar dietro al padrone ora in questo castello e ora in quell’altro, di comune concordia, perciocchè e’ facevano compagnia insieme di tutti i lor guadagni, egli mi presero a cagione che io portassi loro dietro la cucina e le masserizie del fornaio dove bisognava: e in tutto quel tempo ch’io era stato asino, io non provai mai la miglior fortuna, nè mi diedi mai così bel tempo: e questo era che, lassiamo star ch’io durava una pochissima fatica, e stava i begli otto dì per volta ch’io non usciva dalla stalla, i miei padroni sparecchiato che eran la sera le ricche tavole, egli portavano in una dispensa, della quale essi due tenevan la chiave, e dove io aveva la stanza mia, tutte le cose che avanzavano: pezzi di porci cinghiali, polli interi interi, starne, fagiani, pasticci, pesci, uova, cacio d’ogni sorte finissimo, pan bianchissimo, berlingozzi, zuccherini in forma di rosette, di uccelletti, d’animali d’ogni ragione, che era una gentilezza a vederli: e aveano una usanza, che quasi ogni sera dopo cena, serrato molto ben la dispensa, e’ se n’andavano a sollazzo a casa certe amiche loro, e portavan lor tanta roba, ch’egli era un cordoglio. Aveva io a camminar pochi passi, nè vi era tramezzo alcuno, che uscito della mia stalla, io saltava nella dispensa: e non era, ancora ch’io fussi asino, così privo d’ingegno, che co’ denti non mi sapessi scioglier la cavezza; e però non domandate se per un tratto io mi empieva il corpo di quelle buone vivande; che, come io vi ho detto pur ora, io non era asino così davvero, che potendo mangiar di quei dilicatissimi cibi, io gli lasciassi per mangiar del fieno. E sarebbemi durata un tempo questa comodità, senza che niuno se ne fusse accorto, se io, come da principio, con un poco di avvertenza fussi andato così gentilmente delle molte cose che vi erano togliendone dove una e dove un’altra; ma io, presa fidanza, come si fa del felice esito del picciolo furto a farne un maggiore, cominciai non solo a divorarmi le miglior cose che v’erano, ma mangiava le vivande intere intere. Della qual cosa accortisi i due fratelli, poichè e’ l’ebbero messe, secondo che lor pareva, in più sicuro luogo, e che l’ebbero annoverate, e guardate con maggior diligenza che prima, e veduto che nulla giovava; avendo non picciol sospetto l’un dell’altro, ciascuno appostando di scoprire il ghiotto, senza far parola, stava in orecchi per corvi l’altro. Finalmente un di loro, lasciato andare il rispetto del fraterno vincolo dall’un de’ lati, disse all’altro: Questo tuo andarmi ingannando ogni giorno, e furando le miglior cose che ci sono, e vendendole ascosamente farti la borsa gagliarda, sicchè il guadagno sia quasi tutto il tuo, e le fatiche vadano a mezzo, oramai non mi pare nè giusto nè ragionevole, ed io non lo posso più comportare: finalmente, se questa nostra compagnia non ti piace, partiamola, e facciamo in guisa che nelle altre cose noi possiamo esser buon fratelli, chè in questa io non ci veggio ordine, se noi non ci allontaniamo; ch’io veggio questa cosa avviarsi in luogo, ch’egli non sarebbe per un pezzo pace fra noi. Allora seguitò il primo: Per mia fe’, fratel mio, ch’io lodo cotesta tua prudenza; posciachè quando tu hai furato a modo tuo, tu m’hai prevenuto col rammaricarti, acciocchè io non mi rammarichi di te; e quello, di che io tacito mi dolea, a cagione ch’egli non s’intendesse mai ch’io infamassi un mio fratello d’una così fatta poltroneria, tu ne hai fatto schiamazzo, avendo tutti i torti dal canto tuo: or sia ringraziato Iddio, ch’egli è tornato il tempo di Ciolle Abate: vedi, che la tacita indignazione non ci farà simili ad Eteocle e Polinice. E dette queste parole, amendue presero gran saramenti, ch’e’ non erano colpevoli di quel danno; e rimaser d’accordo, e senza perdonare a spesa veruna, per giugnere questo ladroncello. E dicean fra loro: L’asino, il qual solo puote entrare in quella cella, non mangerebbe così fatti cibi, e i topi non vi possono entrare, li quali, come già fecero l’arpie alle tavole di Fineo, avessero a divorar quelle vivande: e nondimeno le più elette cose e le migliori sparivano da una ora a un’altra. Ed io pasciuto in questo mezzo di quei buon bocconi, aveva fatto una trippa, che io pareva pregno: la pelle era divenuta morbida come un velluto, e il pelo mi riluceva, ch’e’ pareva ch’io fussi stregghiato ogni mattina. Ma questa mia bellezza fu cagione di discoprire il ladro; imperocchè veggendo quelli miei padroni la mia non usata grassezza, e accorgendosi che il fieno era la mattina nella rastrelliera come e’ vel mettevano la sera, e’ cominciarono ad entrare nella maggior gelosia del fatto mio, che voi mai vedeste: e però diedero ordine di chiarirsi del tutto. E fatto le viste d’andare a spasso al modo usato, posciach’egli ebbero serrata la porta, e’ si misero per una fessura dell’uscio a veder quello ch’io faceva; e non istettero molto a disagio, ch’e’ s’accorsero ch’io andava scegliendo qui e qua i miglior bocconi che vi fussero. Nè avendo più riguardo al danno loro, anzi riempiutosi in un tratto d’una estrema maraviglia, per vedere cotanta diligenza in uno asino, misero un riso così sconcio, che tutta la casa trasse a quel romore. E mostrosi l’uno all’altro la disonesta gola d’un così fatto animalaccio, fecero tanto il fracasso, ch’e’ pervenne all’orecchie del signore, Il quale per avventura passava là oltre vicino: e domandato che importassero le lor grasse risa, e inteso la cagione, volle anche egli vedere questo miracolo; e tante le risa abbondarono eziandio a lui, ch’e’ fu quasi per crepare. E fatto subito subito aprir la porta, volle vedere se io avea temenza delle brigate: perchè io, veggendo che la Fortuna divenutami più benigna, mi pur rideva in qualche parte, e preso fidanza del lor piacere, senza muovermi donde io era, attesi a maciullare; insino a tanto che il padrone, tutto allegro del nuovo spettacolo, comandò ch’io fussi menato, anzi egli colle sue mani mi menò, nella sala dove egli mangiava: e fattomi apparecchiare una tavola, vi fece mettere su tante e sì elette vivande, ch’e’ ne sarebbe stato bene un liofante. Ed io ancorchè fussi assai ben satollo, desiderando di compiacerli il più ch’io poteva, come se affamato fussi mi mangiava ciò che mi era posto innanzi. Ed eglino immaginandosi quello che più solesse essere a schifo ad un asino, e con ogni diligenza cercandone, me lo ponevano alla bocca, per pienamente tentare la mia mansuetudine: carne nell’aceto, uccelli ripieni di pepe e altre spezierie, pesci ne’ più strani guazzetti che voi mai gustaste; e non mancò chi mi portasse un quarto di capretto con uno scodellino di salsa. E mentre ch’io ogni cosa rassettava, tutto il convito si risolveva con riso. Allora un certo buffon magro, che era lì presente, voltosi al signore, disse: E perchè non date voi anco un poco di vino a questo buon compagnone? E’ non ha parlato male il ribaldone, rispose il signore: e voltosi ad un di quei giovani che davan bere, seguitò: Emo, piglia quel tazzone, e lavalo molto bene, e dà a questo nostro novello parasito un tazzon di vin greco del miglior che sia in cantina; e digli, come io gliene ho fatto la credenza. Stette tutto il convito in una grandissima aspettazione di questo fatto; nè io impaurito miga per questo, rassettatemi l’estremità delle labbra in guisa della lingua, ne bevvi tutto in uno sorso quel grandissimo tazzone di vino. Hai tu mai veduto a Roma quei conviti che si fanno dal Re che e’ chiamano della Fatta? che quando quegli che tiene il luogo del Re, beve, tutto il convito lieva il romore, gridando: il Re beve, il Re beve; cotal fu il romore di tutti quei che erano nella sala, a gridare: buon pro ti faccia, buon pro ti faccia; quando io ebbi tracannato quel vino. Allora il signore, chiamato quei due miei padroni, comandò ch’e’ fusse lor dato due volte il doppio di quello ch’e’ mi avevano comperato: e toltomi per suo servidore, mi consegnò ad un suo carissimo, e molto caldamente me gli raccomandò; il quale e per sua buona natura, e per fare cosa grata al padrone, assai umanamente mi nutricava; e per meglio guadagnarsi la grazia sua, cercava accrescendo le mie arguzie di accrescere i suoi piaceri. E la prima cosa, egli m’insegnò stare a sedere a tavola come le persone, fare alle braccia, saltare, andar diritto in su’ piè di dietro; e quello che pareva ad ognuno maraviglioso, egli m’insegnò usare i cenni in luogo delle parole, e che quello ch’io voleva e quello ch’io non voleva bere, che col muover d’un ciglio io facessi intendere al mio Ganimede che mi porgesse il vino. Ed io agevolmente apparava tutte queste cose, come colui che le avrei sapute fare sanza maestro, se io non avessi avuto timore che se da me in guisa d’uomo io avessi portato il mio asino, molti stimandomi per cosa mostruosa e contra natura, non mi avessero fatto pasto delle fiere e degli uccelli. Già era sparsa la fama delle mie virtù per tutti quei contorni, e il nome del mio padrone era celebrato più la mia mercè che per la sua nobiltà, per la sua magnificenza, e per le altre parti in lui riguardevoli, quanto in barone di quei paesi; e molti che a bella posta venivano a vedermi, se a caso lo incontravano: Questi è colui che ha quello asino, che salta e balla, che trotta, che intende, che domanda, e che mangia, e fa finalmente tutte le cose che fanno gli uomini: come si può egli tener felice d’aver così prezioso animale! Vedete adunque in che consiste la fama, la chiarezza, e la felicità d’un gran maestro! e però non ci maravigliamo, se alla maggior parte di loro oggidì più pare da fare stima d’avere un bel nano per casa, che un uomo litterato; perchè questi l’aombra, e quell’altro il fa conoscere e nominare. Mentre ch’io nella guisa che voi avete potuto intendere mi dimorava, e’ parve a questo mio signore di dovere andare a Roma, e mostrar là, dove non era gran fatto mestiero, un asino che mangiasse i cibi degli uomini, e facesse molte altre cose umanamente: perciocchè mentre ch’io era asino, io ve ne vidi di quegli che mangiavano e bevevano, e vestivano panni, e avevano dell’asino più di me. Ma lasciamo all’Aquinate l’arte sua per ora, e ritorniamo al mio signore; il quale fu visitato da tutta Roma, più per veder le mie maraviglie, che per vero uficio di visitazione. Io non vi voglio dire ch’io fui visitato da tal pastore, che non vide mai le sue pecore; nè ch’io fui menato a tale, a cui doveva altro cadere in pensiero: questo vi dirò bene, che egli mi vide dal grande al picciolo tutta Roma: molte ricche cene, molti meravigliosi conviti furono celebrati. E fra gli altri che mi posero gli occhi addosso daddovero, fu una famosissima cortigiana, la quale preso un gran piacere de’ miei giuochi, a poco a poco le cominciò a prendere vaghezza del fatto mio; e come una nuova Pasife, il giorno e la notte ardeva del mio desiderio: e finalmente, convenuta col mio guardiano, con gran pregio ottenne ch’io albergassi una notte nella sua stalla: e appena eramo partiti dalla cena del nostro padrone, che noi trovammo la sollecita innamorata, che mi attendeva, in camera del mio guardiano. O Fortuna poco conoscente di quello che tu fai! che casa era quella dov’ella mi menò! che tappezzerie per le sale, che sergenti! Nè fui prima arrivato in camera, dove alcuni doppieri di bianchissima cera vi facevano le notturne tenebre biancheggiare, che tu vedesti quattro bellissime fantesche, a vedere e non vedere, avere disteso un letto di mirabilissimi materassi, con una coltre di teletta d’oro e di dommasco incarnato, fregiato d’ogni intorno di tante trine d’oro che era una ricchezza; e sopra v’eran guanciali chi di velluto, chi di raso, altri di zendado preparati di mobilissima piuma, altri di sottilissima bambagia, due di botton di rose profumate, altrettanti di odoratissime polveri. Assettato che fu il letto, le amorevoli donzelle, per non dare indugio a’ piaceri della padrona, tirate a lor l’uscio, ne lasciaron libera comodità. Allora la bella donna, dispogliatasi tutta ignuda, e levatosi per fino a quella fasciuola colla quale ella teneva sollalzate le mammelle; preso un vasetto d’alabastro, e una ampolla con mille belli lavori attorniata e dall’un tratto una finissima pomata, e dall’altra odoratissimo olio di citrebon, posciachè si ebbe unta in quei luoghi che manco il ritengono, or coll’uno or coll’altro liquore quasi tutto mi stropicciò; ma con molta più diligenza il tremulo naso, e le pendule labbra volle che partecipi fussero di quelli odori. Nè contenta di questo, gittatomi sopra un buon pugno di polvere di Cipri, non miga della nostrale, mi si corcò a giacere allato: nè erano i baci finti, nè in quella guisa che ella gli soleva porgere agli altri amanti; non domandatori di ricchi drappi, non rattori d’argenti e oro; ma puri, sinceri, di voglia, se le spiccavano d’in sul cuore: che carezze, che amorevolezze mi mostrava ella! che paroline dolci mi disse ella! voi avreste detto: costei è che tenne in grembo Adone. Vedi che pur posseggo il mio colombino, vedi che pure ho in braccio il mio passerino: io non cerco altri che te, io non posso vivere senza te, io voglio bene a te solo; tu se’ ogni mio bene, metà dell’anima, riposo del cuor mio, dolcezza mia. E non diceva parola, che con un bacio non la tramezzasse. E posciachè ella mi ebbe usati tutti quegli atti, e fatte tutte quelle carezze colle quali le donne inducono altri ad amarle, e fanno testimonianza bene spesso al contrario chente sia l’amor loro, ella mi fece far cose, che appena cappion nel mio pensiero or ch’elle son fatte: e perchè vergogna sarebbe a voi l’udirle e a me il dirlo, io le tacerò. Questo vi pur dirò, che dove non pensai mai che l’uscio di quella stalla fusse tanto largo, che io vi fussi capito vuoto, io vi sarei entrato colla soma. Avendo adunque passata buona parte della notte, nella guisa che voi avete potuto comprendere, già appressandosi l’ora che la bianca Aurora suole il suo vecchio marito pien di gelosia nel letto lasciare, la buona femmina, vergognandosi pur fra sè un poco, a cagione ch’io non fussi veduto uscire di casa, me ne rimandò. E perciocchè ’l mio vettureggiare l’era assai ben piaciuto, ella convenne col mio guardiano, che io scaricassi dell’altre some a casa sua. Narrò costui tutto il fatto al mio signore, il quale ne prese tanto piacere, quanto d’altra cosa che io avessi fatta fino a quel tempo; e allora gli parve avere un asino che avesse daddovero dell’uomo dabbene: perchè fatto un bel presente alla mia guida, diede ordine che in cospetto di molti signori e gran maestri io esercitassi questa mia nuova virtù. E perciocchè nè quella mia egregia nuova mogliera, nè altra donna, per trista ch’ella fusse, si potè trovar che volesse in presenzia di tante persone sopportar la mia asineria, egli mandò spacciatamente ad uno de’ suoi castelli, dove egli aveva una donna in prigione, che di quei dì doveva essere abbruciata viva; della quale se ne narrava questa bella novella.

Ella ebbe un marito, il padre del quale, poi che il signore, oltre alle ricchezze che erano grandissime, era il primo uomo di quei paesi; e accadendogli andare una volta in peregrinaggio, come colui che prevedeva per qualche verso la rovina di casa, e’ comandò alla mogliera, la quale egli di sè gravida lasciava che se ella partoriva una femmina, ch’ella subito l’ammazzasse: ma la pietosa madre, sopraggiunta da una natural misericordia, lasciando indietro il comandamento del marito, nata ch’ella fu, nascostamente la diede ad allevare in vicinanza; e ritornato poscia il marito, gli disse, e ch’ell’era nata, e ch’ell’era morta. E perchè già il fior dell’età sua la chiamava al matrimonial giudicio, nè ella senza saputa del marito poteva, secondo la fortuna della casa sua dotarla, ella fece quello che ella solo potè; e al suo figliuolo e di lei fratello manifestò il segreto del suo petto. Il giovane, d’una singolar pietà dotato, prestamente fece quanto i preghi e’ comandamenti materni e l’uficio del fratello richiedeva; e mostrando con una comune misericordia di voler fare una limosina, così ricevette in casa il sangue suo, come se ella fosse una povera fanciulletta vicina e senza padre, senza madre, e in pericolo di capitar male: dipoi datola con una grandissima dote delle sue proprie facultà ad un suo strettissimo amico, e narratogli chiunch’ell’era, fece tutto quello che ad un buon fratello si apparteneva. Ma le pie, le sante, le buone opere di costui non poterono fuggire i temerarj e mortali assalti della Fortuna; imperocchè la sua mogliera, quella che pur ora condannata alla morte doveva meco essere congiunta, cominciò avere una grandissima gelosia di questa bellissima fanciulla, e a dispiacerle insino al cuore; e finalmente le tese i lacciuoli intorno per ammazzarla. E pensò, dopo le molte, questa ribalderia: che tolto al suo marito il suo anello, una volta che egli andava in villa, e chiamato a sè un fante di casa a lei fedele più che la morte, ma della fede capitalissimo nemico, e datogli quello anello, gli disse, che se ne andasse dalla fanciulla; e fingendo di venir di villa, per parte del marito le dicesse che egli la mandava pregando, che subito subito sola e senza compagnia se ne andasse da lui: e a cagione che ella prestasse maggior fede alle sue parole, che e’ le lasciasse l’anello come per contrassegno. Non si lasciò molto pregare lo scellerato ambasciadore, e con ogni diligenza fece quanto gli era stato imposto. Ed ella obbedientissima al suo carissimo fratello, chè a lei sola era noto questo nome, senza tardanza alcuna, tutta soletta si mise in cammino. E arrivata in quel luogo, dove la pessima e scellerata cognata le aveva tese le insidie, ella fu presa, e battuta crudelissimamente, e mentre che la poverella gridava accorruomo, e diceva che ell’era entrata in vano in così fatto sospetto, e che ’l suo marito l’era fratello, e con quel nome il chiamava in aiuto suo; la infuriata donna, ogni cosa finta credendo, preso un tizzone ardentissimo, tante volte colle sue proprie mani gliele ficcò per le tenere carni, che con grandissima sua passione la meschinella giovane colla sua crudelissima morte saziò la rabbia della sua crudelissima cognata. Nè potendo il buon fratello sopportare il grieve dolore, ch’egli si aveva preso della efferatissima morte della povera giovane sorella, così immeritamente donatale, anzi giorno e notte per lo stomaco rivoltandoseli, e sollevandoli gli umori malinconici, egli cadde in una grandissima malattia, sì che oramai gli faceva mestiero di medicarsi. Laonde la moglie, la quale questo santo nome insieme colla fede avea perduto, con infingevole uficio di carità volle esser quella che di medico lo provvedesse: e andatasene a uno Ebreo, il quale poteva dirizzar più trofei dell’espugnazione della vita de’ mortali, e nel quale tanto era di perfidia, quanto di fede essere in un medico si ricercherebbe, ella gli promise di donar cinquanta ducati, se egli un presto veleno le preparava. Finalmente lo avaro medico fu d’accordo, e fingendo d’avere ordinata una medicina di manna e riobarbaro, se ne andò dallo infermo, e colle sue mani li voleva dar quella morte, che la falsa mogliera aveva comprata al suo marito cinquanta ducati. E già glie n’aveva appresso alla bocca; se non che quella audace e temeraria femmina, acciocchè ella si levasse dinanzi il conscio della sua ribalderia, e guadagnassesi cinquanta ducati, preso il bicchiere con mano, disse: Non prima, valentissimo medico, non prima darai al mio carissimo marito questa bevanda, che tu ne abbi bevuta una buona parte: che so io, se dentro vi si ascondesse alcun veneno? So io che questa mia ragionevole gelosia non offenderà l’animo d’un così dotto e prudente uomo, come sete voi; che sapete che ad una buona e piatosa mogliera è lecito esser sollecita e scrupolosa circa la salute del suo marito. Andò subito sottosopra il mal vecchio, udendo le terribili parole della sua sfacciata femmina; e caduto da ogni consiglio, e toltogli dalla angustia del tempo ogni occasione di pensare alcun rimedio, e dubitando, col tardare o col mostrar temenza, di non dar sospetto della sua macchiata coscienza, egli si mise a bocca quella bevanda, e bevvene una buona parte: la cui colpevole fede l’innocente giovane seguitando, preso il bicchiere di mano al medico, si bevve tutto quello che vi era rimaso. E volendosene il medico prestamente andare verso casa, per poter con qualche subito rimedio spegner la forza di quel veleno, la indiavolata femmina, presolo per lo mantello, non lo voleva lasciar dilungare da sè pure un dito; mostrando di non volere che si partisse, finchè la bevanda non aveva fatta la operazione: pur poichè ella l’ebbe ritenuto un pezzo, stracca dalle di lui preci, e impaurita da alcuni suoi minacci, lo lasciò andare. Ma in quel mezzo il crudel furore di quel veleno, avendogli penetrate tutte le viscere, gli aveva preso tal valore addosso, che oramai era ogni rimedio indarno. Nè appena era arrivato a casa, che gli entrò una così gran sonnolenza negli occhi, che egli a fatica potè raccontar la cagione della sua morte alla mogliera, e ricordarle che almanco si facesse pagar dalla pessima donna il pregio della doppia morte: egli cadde in quella fossa, che egli stesso colle proprie mani si aveva fabbricata. Nè stette guari il misero giovane, dopo la partita del medico anzi rattore della sua vita, che infra le mentite lagrime della falsa moglie, e’ pagò il comun debito della natura: e non molto dipoi che e’ fur finite le cerimonie dell’uno e dell’altro mortorio, la donna Ebrea se ne andò a trovar la mogliera del morto giovane, e chiesele il pregio della doppia vedovanza. La sagace femmina, che in ogni sua azione era ad un modo, con una buona cera ricevendola, le disse, che era molto ben contenta di darle tutto quello che ella addomandava; ma una grazia voleva in prima da lei, e questo era, ch’ella le desse un altro poco di quella bevanda, a cagione che ella potesse mandare al desiderato fine una sua bisogna: e tanto seppe ben orpellarla, e tante ciance dirle, e tante cose prometterle, che la semplice Ebrea agevolmente si lasciò indurre a dirle di sì: e per meglio guadagnarsi la grazia di sì ricca vedova, lasciato stare ogni altra cosa, se ne corse a casa, e spacciatamente le portò ciò che ella chiedeva. Allora la perfida donna, avendo gran materia da fabbricare gran male, in grande opera mise le sue sanguinolenti mani. Ella aveva una picciola figliuolina rimasale di quel marito, che, la sua mercè, giaceva morto poco fa; la quale, perciocchè le leggi ovvero statuti di quei paesi le davano la successione di tutti i beni paterni, e ogni volta ch’ella fusse morta anzi la capace età del matrimonio, ella succedeva ne’ beni della figliuola, malvolentieri sopportava questo soprosso: e però l’empia madre colla morte della prima figliuola si mise a ordine di guadagnar così scellerata eredità, e cotale fu madre, che ella era stata mogliera; aggiungendo per compagna alla figliuola la mogliera del medico, a cagione che ella non avesse avuto avere invidia al padre, che ne era ito in compagnia del marito. Fece il mortal veleno nelle tenere viscere della dilicata pargoletta presta operazione; ma la vedova Ebrea più potente a resistere al suo furore, come più tosto si sentì roder le interiora dal suo grandissimo furore, suspicata quello che era, se ne andò a trovare il signore; al quale, per le sue grandissime grida spalancate subito le porte, fattasi da capo, ella raccontò tutte l’egregie opere della donna: nè aveva ancor finito di dire tutto quello che ella voleva, che adombrata da una foltissima nebbia di sonno, fu forzata chiuder l’aperte labbra; e poco poi, percotendo i denti l’un nell’altro, con grandissimo tremito cascò morta a’ piedi dello ascoltante signore. Raccapricciossi il gentil signore, subito udì la scellerata rubalderia; e fatto d’aver nelle mani la scelleratissima donna, e inteso prestamente che tutto era come l’Ebrea gli aveva porto, non per altro non aveva così tosto proceduto all’ultimo fine della giustizia, che per non gli parer trovare qualità di morte convenevole a tanta e così moltiplice iniquità. E in quel mezzo ritenendola in prigione, con darle mille morti ogni giorno, la fece servare in vita per suo maggiore strazio. Cotale, i miei lettori, era la donna, che io in presenza di tanti grandissimi signori aveva a congiungermi per isposa: la qual cosa io più e più volte considerando, e ragionevolmente abborrendo la contagion di così orribile peccato, mi era deliberato prima morire, che consentire a così sozza cosa; ma privato delle mani e delle dita, nè potendo colla ritonda unghia e tronca strigner la spada, non sapeva che partito mi pigliare. Ma una sola speranza mi consolava fra tante e tante avversità, che già dipigneva la Primavera colle sue gemme la lieta e buona stagione, e i prati entro al seno delle tremole erbette vedevano i vari fiori inchinare il capo al dolce suono del leggier Zeffiro padre loro; e poco avevano a stare i pungenti smeraldi sopra i focosi rubini delle vive rose, che divisi in più parti avrebbon dato luogo al bel colore, sicchè io avrei potuto prendere in ogni luogo la mia medicina.

E mentre che ’l travagliato legno della turbata mente mia ondeggiava in questo periglioso mare, egli era già arrivato il giorno delle mie odiose nozze: e la prima cosa, dopo un realissimo convito, così largamente, così dilicatamente, così ordinatamente, così pulitamente, così riccamente, così copiosamente, e all’improvvista servito, che egli non vi si disiderò cosa alcuna; per maggiore intertenimento de’ convitati, i quali erano tanti e tali, ch’io non ardisco di nominargli, egli fu ordinato un bellissimo e ornato ballo, il quale a me asino piacque tanto che egli mi levò una grandissima parte della ricevuta molestia di quelle nozze. Imperocchè quivi erano bellissimi giovani e fanciulle di età tenerissimi, di corpo bellissimi, di membra agilissimi, e ricchissimi di vestimenti; i quali, o vuoi balletti di che sorte sai addomandare, o vuoi di balli gagliardi, o quali balli si sieno, ballavano sì maravigliosamente, che tu non avresti voluto vedere altro: quelle volte preste, quei salti leggieri, quelle capriolette minute, quelle riprese nette, quelli scempi tardetti, quei doppi fugaci, quelle gravi continenze, quelle umili riverenze, e così a tempo, ch’e’ pareva che ogni loro movimento fusse degli instrumenti medesimi. Or finito che fu il bellissimo giuoco, mandato giù una vela, che era dirimpetto ad un grandissimo palco, e’ si diede ordine ad una commedia. Era in su quel palco un monte di legname, fatto a similitudine di quello inclito monte cantato sì altamente dall’antico Omero, il quale era ripieno di verdissimi prati, di fronzuti arbori, e di tutte le altre cose che suole in simili luoghi produrre la natura; nella cui sommità una artificiosa fonte sorgendo, del continovo assai larga copia di limpidissime acque versava: su per la schiena del monte alcune lascive caprette andavano or questo e or quello virgulto rodendo; e un giovane maestrevolmente abbigliato in quel pastoreccio abito, che già fu solito Paris per le selve portare, simulava d’esser guardiano di quel bestiame. Eravi un fanciullo bellissimo, e tutto ignudo, salvo che con una veste puerile egli si ricopriva la sinistra spalla; i cui capelli erano biondi e ricciuti, e fra quei ricci spuntavano alcune penne di finissimo oro, e parevano naturali come i capelli; e il caduceo e la bacchetta ne dimostravano che egli era Mercurio. Costui, avendo un pomo d’oro nella man destra, il diede, correndo così un poco saltelloni, a quel pastore; e disse, come il gran Giove gliele mandava: e fatto ch’egli ebbe la sua imbasciata, incontanente si tolse del nostro cospetto. Allora venne in sul palco una fanciulla, con un volto tutto pieno di onestà, vestita in quella guisa che gli antichi addobbavano Giunone; imperciocchè, oltre a ch’e’ le stringeva i bei crini una candida corona, ella aveva in mano lo scettro dimostrante signoria. Dopo a lei ne uscì fuori un’altra, la quale tu avresti riconosciuta per Minerva; concioffussecosachè uno risplendente elmo d’una corona d’ulivo attorniato le coprisse la chioma; e innalzando lo scudo, e percotendo l’asta, non altrimenti camminava, che quando ella combatte. Nè stette guari dopo le due, che egli ne comparve la terza, la cui eccessiva bellezza, alle mattutine rose che sulla neve nascendo dipingevano il leggiadro volto, la lasciva grazia, e l’altre parti del corpo, ciascuna per sè maravigliosa, e tutte insieme maravigliosissime, ti davano tale indizio, che tu non potevi giudicar ch’ella fusse altra che Venere, allor che essendo tenera verginella palesava la sua bellezza, senza altro vestimento portare che una sola vesticciuola di sottilissimo fiore, il quale non copriva, ma adombrava appena la sua bellissima giovanezza; la qual vesticciuola assai sovente una curiosetta aura tutta lasciva percotendola, or la rimoveva d’in sulle dilicate carni, ora accostandovela, mezzo negava e mezzo mostrava il bello del paradiso. Era ciascuna delle vaghe giovani, che le tre Dee rappresentavano, accompagnata secondo che alla loro qualità si convenia. Seguitavano Giunone, Castore e Polluce, i quali avevano un elmo in capo per uno, nella cui sommità risplendevano alcune lucentissime stelle: erano i due fratelli due bellissimi giovincelli. Questa giovane, andando per la scena quietamente, e con un modo che pareva naturale, non moveva passo che non fusse accordato coll’armonia d’un coro di dolcissimi flauti; e accostatasi al pastore, con onesta sembianza gli diceva, che se egli le deliberava il premio della bellezza, che ella, nella cui podestà erano tutti i regni del mondo, che gli donerebbe il ricchissimo e larghissimo regno dell’Asia. E quella, la quale il culto delle armi facevano Minerva, da due giovani accompagnata, il Terrore e la Paura, con ispade ignude in mano, e tutti coperti a piastre e maglie, con due trombetti, che mescolando co’ gravi quei tuoni acuti, e facendo andare quelle chiarine insin nelle stelle, destavano eziandio i vili animi ad una non usata gagliardia; con minaccevole capo, e spaventevoli occhi, con presti passi e non diritti, promise a Paride, s’e’ le dava la vittoria della beltade, ch’ella ’l farebbe d’incredibile fortezza, donerebbegli infinite vittorie con innumerabili trofei, spargerebbe il nome suo per tutto il mondo. Nè prima ebbe finito costei il suo parlare, che tu vedesti Venere venirsene nel mezzo de’ suoi Amori, con tanta grazia, che egli non era sì duro cuore, che ella non infiammasse d’amore: e dolcemente sogghignando, con tanta piacevolezza si fermò, che non vi aveva chi si saziasse di rimirarla. Che maraviglia era a mirare que’ begli Amorini! Non eran se non latte e sangue, così grassottini, che tu avresti creduto ch’e’ fussero stati Cupidini daddovero, che fussero allora discesi di cielo, o venuti del mare; chè le piume, e le Saette, e gli archi, e lo abito tutto era così ben ritratto, che gli antichi non credettero che Amor lo avesse in altra guisa. E come se la Dea andasse a nozze, tre verginelle le portavano innanzi tre candidissimi doppieri: queste erano le graziosissime Grazie: dopo le quali seguitavano le bellissime Ore, le quali, posciachè con alcuni loro dardetti ebbero sparso molti fiori e in ghirlande tessuti e spicciolati sopra degli spettatori, prendendosi per mano, composero un bellissimo ballo; il quale finito che ebbero, con alcune canzonette così addolcirono gli animi di tutti, che pareva che ne disfacessero colla loro dolcezza. Ma molto maggior soavità era poscia a veder Venere muoversi secondo gli accenti di quel lor canto, e con quei lascivi e graziosi passi fra le ondeggianti piume di quei pargoletti camminando, or quelle vive luci in atto mansueto girare, or con benigna ferita e con gentili minacce voltarle, or mostrare che, gli occhi stessi saltando, negli altrui cuori ne facesse far prova, quanta dolce forza abbia la vista nel bel regno d’Amore. La bella giovanetta, subito che fu nel cospetto del boschereccio giudice, con sì bel modo il salutò, che ancor mi struggo qualora me ne ricordo; e poi con un atto pien di gentil grazia li disse, che s’egli come meritava la sua bellezza, la preponeva all’altre Iddee, ch’ella gli darebbe l’amor d’una donna, e gliele congiungerebbe per isposa, la quale in ogni cosa si poteva agguagliare alle sue bellezze. Allora il Frigio pastore tutto allegro diede, senza altro pensare, l’aureo pomo, che egli come segno della vittoria teneva in mano, alla leggiadretta fanciulla. Perchè dunque vi maravigliate voi, vilissima gente, anzi armenti delle corti, o piuttosto immantellati lupi, se i giudici vendono al presente con danari tutte le loro sentenzie; quando nel principio delle cose, in uno giudicio agitato fra gli Dei e gli uomini, la grazia il corroppe, e un rozzo pastorello eletto per giudice dal gran Giove vendè per vilissimo premio d’una fangosa libidine, insieme colla rovina di tutta la casa sua, cotanto importante sentenzia? Or non fu così l’altro giudicio infra i più incliti capitani dei Greci celebrato, quando colle false esprobrazioni Palamede e in dottrina e in arme valoroso fu dannato di tradimento? e allora che il pargoletto Ulisse nelle cose della guerra fu preferito al potentissimo e grande Aiace? E come quel giudicio appresso i datori delle leggi, appresso gli Ateniesi, dico di quei savj, di quei prudenti, de’ maestri di tutte le scienze? Or non fu egli per fraude, e per invidia d’una iniquissima fazione, dannato come corruttore della gioventù quello, il quale le imponeva il freno? quel vecchione di tanta prudenzia dotato, che l’Oracolo Delfico il giudicò sapiente sopra tutti gli altri mortali? colui, il quale con pestifero tossico finì così lietamente i lodevoli giorni, lasciando i suoi cittadini macchiati d’una perpetua ignoranza? E pur vediamo ancora oggi i più saggi filosofi, seguitando la sua setta, ardere nel desiderio della sua beatitudine. Nè posso tacere il giudicio di Martino Spinosa nella romana Ruota de’ primi avvolgitori: il quale corrotto da alto favore, dandomi, contro ad ogni giustizia ed equità, una sentenzia, e domandato della cagione, non arrossì almeno a dire: Perchè mi è piaciuto: ma siagli perdonato, posciachè egli è Spagnuolo, e di quelli a cui per atto di religione è interdetto lo stare in Ispagna; nè biasimiamo quel paese, come facciamo; anzi dogliamoci di noi, che come una sentina e come uno asilo riceviamo la feccia e la ribalderia del mondo, e gli facciam seder nelle cattedre, e chiamiàngli maestri. Ma a cagione che niuno riprenda lo impeto della mia giusta indignazione, dicendo: Ecco che noi patiremo adesso che uno asino vada filosofando! però sarà ben ch’io me ne ritorni a donde io m’era partito.

Posciachè egli fu finito il bel giudicio, Giunone insieme con Minerva adirata, e non restando di minacciare, si partirono della scena, dimostrando coll’andar loro la presa indignazione: ma Venere tutta allegra e tutta contenta, saltando per la letizia colla sua amorosetta famiglia, ne faceva palesi i piaceri suoi. Allora innalzandosi dalla cima del contraffatto monte per un certo ascosto canale una pioggia di odorifera acqua con zafferano mescolata, e piovendo sopra quelle caprette che ivi pascevano, fece lor mutare i bianchi velli nel colore dell’oro. E posciachè e’ fu ripieno di soavissimo odore tutto il teatro, la terra ad un tratto s’inghiottì quello altissimo monte. Nè prima fu finito il bellissimo spettacolo, ch’io vidi muovere un giovane in abito di soldato, e andare per la mia nobilissima donna. E già si preparava il matrimonial letto, il quale di cove di testuggine al modo antico maravigliosamente lavorato, di morbidissimi materassi ripieno, di ricchissima coltre ricoperto, di finissimi drappi attorniato, pareva che aspettasse non un asino e una scelleratissima donna, ma un Re e una Regina; anzi, per parlare all’antica, la bella Venere e il suo diletto Marte. E mentre che il mio guardiano era intento con ogni diligenza ad assettare il sontuoso letto, e tutta l’altra gente stava ancora occupata a riguardar l’esito della commedia, e ne dava per questo libero adito a’ miei pensieri; io feci buona deliberazione, col voltar loro le calcagna, di tormi da così fatta vergogna. E movendomi così passo passo, avendo ognun pensato, per la mia mansuetudine, ogni altra cosa del fatto mio, me ne usci’ fuor della porta: e non avendo visto alcuno, dirittomi verso porta San Lorenzo, camminai quattordici miglia verso Tigoli, senza mai fermarmi cosa del mondo. Corre un fiume non guari lontano da Tigoli, anzi passa per lo mezzo di quello, il quale gli antichi chiamavano Aniene, quei d’oggi chiamano Teverone, lungo le cui amenissime ripe, lontan quasi due miglia, in luogo assai solitario mi deliberai passarmi quella notte. E avendo il Sol già renduto alle stelle il lume loro, vinto da dolcissimo sonno, fra le mormoranti frondi d’un folto canneto mi addormentai profondamente.

Nè era ancora delle quattro parti della notte varcata la prima, ch’io mi risenti’ ad un tratto con una grandissima paura; e guardando verso il cielo, vidi il circolo della Luna nella sua maggior grandezza, biancheggiando pur allora, sorgere dell’onde marine: e caduto in pensieri sopra de’ grandissimi effetti di quella in questi corpi inferiori, or qualch’uno di loro crescere, ora scemare, or quietarsi, o perturbarsi, secondo che ella o si congiugne o si separa, o più o meno s’accosta o si discosta dalla spera solare: perchè trascorso in considerazione del fatto suo, e pensando quanto è maggiore e più nobile la cagione del suo effetto, mi venne voglia d’implorar l’aiuto suo, che oramai mi cavasse di così brutta servitù. E parendomi (e nel vero egli era così) aver macchiata la coscienza dalli miei grandi e moltiplici errori, e spezialmente di quello che mi aveva porto occasione della presente trasmutazione, e ch’egli facesse mestiero di qualche grazioso intercessore appresso d’una tanta maestà; mi ricordai tutto ad un tratto, che i miei maggiori avevano sempre avuto per lor peculiare avvocato quel barbato vecchione, che ne fe copia colla sua eloquenzia e dottrina de’ misteri degli antichi Ebrei. E voltomili col cuore, poich’io non poteva colle parole, lo pregai il più umilmente e devotamente ch’io seppi, che m’impetrasse dalla bontà di Dio perdono e grazia. Nè fui pervenuto prima al fine della mia orazione, che di nuovo m’ingombrò un sonno maggior del primiero; e parvemi così fra ’l sonno udire un venerando vecchione, che mi disse: Vivi lieto, il mio Agnolo, vivi lieto; penetrate sono le preci tue nel cospetto del primo Motore: e però come prima quello che a voi mortali ne rende la luce, avrà illustrato il vostro mondo, prendi sicuro e allegro la strada verso la città, e la prima donna che tu trovi, che sarà una bellissima giovane, ma con aspetto infiammante i cuori degli uomini alle virtuti e alle cose del cielo, fermati dinanzi al suo carissimo cospetto: e se ella vorrà sopra gli omeri tuoi porre un suo picciolo figliuolo, prendilo volentieri, e va con essa ovunque ella ti mena; imperocchè ella ti è data dal cielo per guida e scorta della tua salute; e di quanto abbia ella da fare, divinamente è stata questa notte ammonita: e poi si tacque. Tre volte io mi gittai a’ piedi della sua ombra per abbracciarla, così come io poteva, e ringraziarla di tanto beneficio, e tre volte indarno strinsi le inette braccia; e però, quel solo ch’io potetti, col cuore gli rendei quelle grazie ch’io poteva le maggiori. Nè prima ebbe la seguente mattina il Sole scoperta la lieta fronte sopra del nostro orizzonte, che io me ne presi la via verso il colle, nè fui gran fatto camminato, che io scontrai la bella donna. La quale subito che mi vide (o grandissima potenza del divin amore!) qual pietà, qual compassione mostrò madre mai sopra del morto figliuolo, che si agguagliasse a quella che io vidi nella mia bellissima guida! la quale presomi con un atto pieno di benignità per la cavezza, e messomi sopra il suo picciolo figliuolino, assai lentamente mi condusse ad una chiesa, che era vicina alla città; e mostrommi ad un sacerdote, che in sulla porta sedendosi, in laude del nostro Signore andava il suo tempo consumando. Il quale non con acqua, non con ranno, non con liquore alcuno, ma con divine parole da me tolse ogni macchia, e non altrimenti purgato e netto mi rendè la mente, che se io fussi pure allora disceso dal cielo. Come la vaga donna, che troppo ben, la mercè d’Amore, penetrò il cuor mio, venuti che noi fummo a casa sua, si accorse che io era così netto e così bello, volta ver me con un atto sì di pietate adorno, che ridir non ve lo potrei, mi disse: Resta, il mio Agnolo, che l’animo tuo puro e mondo ritorni in un vaso, se non uguale alla sua nobilità, almen non tanto disdicevole quanto è il presente, dove leggiadramente operando dimori, insintanto che a Dio piaccia ridurlo alla sua patria libero e sciolto da questo incarico: prendi adunque i bramati fiori, e lieto e vero ritorna al tuo Agnolo, già tanto tempo desiderato. E portomi una ghirlanda di odorifere rose, io con assai soverchia brama me le pascei. Nè mi mancò la celeste promessa; anzi subito ch’io le ebbi prese, egli mi si scansò daddosso la ferina faccia: i rozzi peli spariron via, la rozza pelle si venne rammorbidando, e lo sconcio ventre riebbe la forma sua: le unghie di dietro allungandosi ripresero l’antica pianta, e la pianta rivide le primiere dita, e quelle dinanzi, lasciando l’uficio del camminare, si distesero nelle pristine mani: la gran fronte si ristrinse, e il capo riconobbe la sua ritondità; e la bocca le sue labbre assottigliando, e i suoi denti diminuendo, rividono l’usata bellezza; e l’enormi orecchie spianandosi, ritrovaron la lor pargolezza; e quello che sopra ogni altra cosa mi era molesto, la coda se ne andò in fummo. Della qual cosa e la donna ed io, ancora innanzi sapessimo certo che così avesse da essere, non potemmo se non grandemente maravigliare. Non mi bastò l’animo allora di farlo, e però non mi basterebbe ancora a dirlo, quante grazie io avrei voluto rendere, subito ch’io mi vidi ritornato in Agnolo, e a Dio prima, e poscia al buon vecchione, e a quella che guida e ministra era stata della divina volontà: ma di lei non tacerò io già questo, che mentre che ella visse, io non lasciai a fare uficio alcuno verso di lei, che per me si potesse, che prontamente nol facessi e volentieri: ed ella verso di me oprando il simigliante, mi fece venir tale, che son forse volato alcuna volta, sua mercè, per le orecchie degli uomini valorosi, ch’io da me non avrei avuto sofficienti piume: e così gentil freno mi mise, che da quei piè ch’io era solito d’inciampare ad ogni passo, io andai così rittamente, che rare volte ho avuto mestiero d’essere stato tolto di terra per quella cagione. Questa fu quella Costanza, la quale fattasi signora dell’anima mia, svegliò l’ingegno a quelli lodevoli esercizj, che mi hanno fatto fra i virtuosi capere: questa fu quella, che trattomi dello asinino studio delle leggi civili, anzi incivili, mi fece applicare alle umane lettere: questa fu quella Costanza, che avanti se ne tornasse al cielo, tenne sempre la vita mia in grandissima dolcezza: questa è quella, che dopo la morte sua non è restata molte fiate di cielo venirmi a consolare; e riserbandomi sempre il suo bel nome fermo e costante nella memoria, non mi ha mai lasciato all’asino ritornare.





FINE DELL'ASINO D'ORO.

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