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Questo testo fa parte della raccolta Versi di Giacomo Zanella


L’INDUSTRIA.

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AD

ALESSANDRO ROSSI

membro del giurì internazionale all'esposizione di parigi 1867.





     Scaduto, e nel romor delle foreste,
Nel cupo rombo de’ torrenti usato
Il fremito ascoltar di un provocato
                             4Sdegno celeste;

     Col gel, co’ nembi, colle belve in guerra,
Di selce armato e di nodosa clava,
Questo re del futuro attraversava
                             8Nudo la terra.

     Smisurati di possa e di statura,
Mastodonti e primevi orsi scomparsi,
Ei, fragil tanto, usciva a misurarsi
                             12Colla natura.


     Fragil sì, ma pensante. Arme il leone
Pari non ha; né de' volanti il dorso
Schermo più fitto e sinüoso al morso
                             16De’ venti oppone,

     Di quel che l'uom coll’ingegnosa mano
Alle sue membra ordisce ed invermiglia,
Tolto il vello alla greggia e la conchiglia
                             20All'oceàno.

     Tu sulla Senna in trïonfal convegno
L’arti, Alessandro, affratellarsi hai viste,
E la pompa spiegar di sue conquiste
                             24L’umano ingegno:

     Visto hai fervere un mondo; e sotto gli archi
Fastosi de’ trofei di mille climi,
L’orma arrestar meravigliando agi’imi
                             28Misti i monarchi.

     Tu, coronato giudice, l’alloro
Che l'età più non dona a colpe illustri
Desti dell’officina a’ figli industri,
                             32Desti al lavoro.

     Qual invidia finor l’alme commosse?
Quale di fati vïolenza, amico,
Del non mertato vitupero antico
                             36L’arti percosse?


     Chè dall’Asia raminghe e fuggitive,
Il foco genitor seco recando
Sotto la veste e dell’Egeo sostando
                             40Lungo le rive,

     Con Dedalo al Tirren vennero erranti
Ove notturne porpore tessea
Circe al lume de’ cedri e l’alte empiea
                             44Grotte di canti.

     Sacre a’ temuti sotterranei numi,
A lor non valse il calice de’ fiori
Finger nel vetro e ne’ torniti avori
                             48Chiuder profumi;

     Nè valse ad esse sugli ambrosii crini
Di patrizie fanciulle e di matrone
Scintillanti depor frali corone
                             52Di oro e rubini.

     Vili, abborrite sulle serve incudi
Lagrimando battean spade e corazze,
Ed al braccio fornian d’eroiche razze
                             56Epici scudi.

     Vanti i tuoi dritti e della Fé degli avi
Ridi, superba età. Ma non di Atene,
Nè di Roma venía chi le catene
                             60Ruppe agli schiavi;


     Dal casolar del Legnaiuolo ebreo
Nel mondo uscì mirabile dottrina
Che fe santo il lavoro e l’officina
                             64Novo Tarpeo.

     Sotto le vôlte allor de’ monasteri
Correr di pialle un romorio s’intese,
E più grato al gran Fabbro il suono ascese
                             68D’inni e salteri.

     E tu le plebi glorïose allora
A’ telai della seta e della lana
Chiamavi colla vigile campana,
                             72Inclita Flora;

     Che poscia in più terribile fatica
Le vedevi, serrate agli stendardi,
Eccelse fulminar da’ baloardi
                             76L’oste nemica.

     Tu rinnovi que’ giorni, e di portenti
Nobiliti, Alessandro, il suol natío.
Tu che al lembo de’ colli e del tuo Schio
                             80Lungo i torrenti,

     Schiudi all’arti rinate immensa reggia,
A cui gl’ingenti turbini già manda
Angla fornace e la rimota Olanda
                             84Tonde la greggia.


     Mugge anelando, e somigliante a domo
Chiuso Titano cento rote e cento
Volve il vapor che dall’assiduo stento
                             88Francheggia l'uomo.

     Finor, se le tue membra, egro mortale,
Dalle pioggie scampasti e dalle nevi,
Tu stesso al subbio, al pettine stendevi
                             92La man regale.

     Or natura non sol ampio ti dona
Quanto racchiude nell'immenso seno,
Ma di sue forze onnipossenti il freno
                             96Or ti abbandona.

     Sulla terra comparso ancor non eri,
E delle felci torreggianti a’ rami
Sporgean l'enorme dente ippopotàmi
                             100E megatèri,

     Quando le dighe agli oceàni aperse
Previdente natura e ne’ marosi
Che l'alpe trascinavano, i frondosi
                             104Regni sommerse,

     Perchè nel tardo volgere degli anni
Indefesso ministro il foco ardesse,
E di artefatta folgore corresse
                             108L’uomo sui vanni.


     Delle cose pacifico signore
Nelle tue sale risonanti assiso,
Al girar di una rota intento il viso,
                             112Ad altro il core,

     Tu già vedi, o mortale, ossequïosi
Foco ed onda per te torcer lo stame,
Stringer l’ordito e colorar le trame,
                             116Mentre tu posi.

     Posi del corpo; ma quïete ignora
L’infaticato spirito che move
Di cielo in terra e nove corse e nove
                             120Contrade esplora.

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