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Zig-Zag.
Io conosco un curioso signore che possiede, in un cassetto sempre chiuso di una sua scrivania, un piccolo museo amoroso, vale a dire quella tale raccolta di oggettini insignificanti per sè, ma espressivi per la persona che li riunì, a testimonianza e a ricordo dei suoi fatti d’amore. Sin qui, ciò è molto comune: giacchè è collezionista di tal genere, chiunque sia un poco sensibile, un poco sentimentale, chiunque si sia abbastanza occupato dell’amore, nella sua vita. Cassetti, cofanetti, scrigni che serrino simili preziosità tutte personali, si trovano dapertutto, anche nelle case di donne molto austere e di uomini molto serii: il bisogno di provare a se stessi che si conobbe l’amore, che si ebbe un passato tenero e passionale, determina la conservazione di tali memorie. E il curioso signore sarebbe un signore qualunque, somigliante a un altro qualunque signore e a moltissimi altri signori qualunque, col suo cassettino, ermeticamente chiuso: ma la sua singolarità è questa. Egli ha due piccoli musei. Il primo è custodito nel cassetto superiore, a destra dell’antica scrivania, il secondo nel cassetto superiore, a sinistra del medesimo mobile: cassetti eguali, che si aprono con la medesima chiave: la chiave, non grande, è sospesa all’anello dell’orologio, ma sempre nascosta nel taschino del panciotto. Del resto, il curioso signore apre assai raramente i due musei dell’amore; bisogna che egli si trovi in una di quelle lunghe giornate di pioggia autunnale, senza voglia di fare nulla di bene o male, senza desiderio di vivere: o in una di quelle dolci notti solitarie e insonni, fervide di fantasmi nell’anima: o in qualche minuto di convulsione spirituale, in cui tutto nel presente può dare la disperazione e solo il passato può dare la calma. In queste rarissime occasioni, il curioso signore cava la chiave e schiude il primo cassetto; ma quando le sue mani hanno toccato, i suoi occhi hanno visto, il suo naso ha aspirato, allora egli, subito, apre anche il secondo. Più tardi, molto più tardi, quando la lenta e penosa rassegna dei due musei è compiuta, uno dopo l’altro egli serra, con un cheto girare di chiave, i due cassetti; il trattamento sentimentale è di una perfetta eguaglianza e di una assoluta giustizia.
Nel primo cassetto stanno i ricordi delle donne che egli ha amate. Vi è una cintura di seta, molto scolorita; apparteneva a una bellissima donna quarantenne di cui egli si era innamorato, verso i venti anni. Questa donna era stata molto amica di sua madre e veniva spesso in casa, sempre vestita con grande eleganza, un po’ imbellettata, moltissimo profumata, con certi fruscî inebbrianti di gonne di seta, lasciando vedere i suoi piedini calzati di calze di seta trasparenti e di minute scarpette. Il giovanotto l’aveva amata con grande timidezza dapprima, fuggendola, nascondendosi dietro le porte, per guardarla, tremando di gioia o di terrore, se ella gli toccava la mano: la passione, sensuale, del resto, facendosi più violenta, egli era giunto alla dichiarazione, alla lettera di amore, alle insistenze disperate. Questa donna lo aveva respinto, ostinatamente: prima aveva avuto l’aria di non accorgersi di lui, poi lo aveva avvilito con una continua illusione, con un continuo disprezzo. Per avere quella cintura egli l’aveva fatta rubare da un servo compiacente: la signora aveva creduto a una dispersione, e il folle innamorato passava le sue notti covrendo di baci roventi quella molle seta, cingendosela al collo, fingendo che fossero le braccia della donna inutilmente amata. Costei, a un certo punto, era partita: egli aveva spasimato ancora un pezzo, e infine si era consolato.
Sempre nel primo cassetto, delle donne amate da lui, vi era un fazzolettino di battista, con una iniziale: un B lungo e sottile. Apparteneva, questo fazzolettino, a una cara, pensosa, triste donna di cui egli aveva portato l’amore, nel cuore, circa due anni. Bionda, pallida, alta, ella aveva la flessibilità e le fragilità delle creature sparenti: ella amava un amico del mio curioso signore, o il curioso signore, per un seguito di circostanze, era intermediario fra il suo amico lontano e questa donna. La assenza rendeva infelice quell’amore, ma lo esaltava: il curioso signore passava le sue ora accanto a quella donna, Beatrice, parlando di colui che era diviso dai mari e dai monti, ma che era adorato da colei. A parlare sempre di amore, a essere sempre in contatto con una passione così profonda e così costante, a udire tutte le manifestazioni di quell’anima così schietta e così salda femminile, egli si era innamorato. Ma con un coraggio eroico, aveva taciuto questo suo amore, che era completamente senza speranza: aveva seguitato a vivere accanto a Beatrice, portandole notizie dell’amante lontano, leggendole le sue lettere, leggendo il giornale di questo amore che ella scriveva, piamente, con una fedeltà cristallina, inebriandosi di amore non corrisposto, ribevendo le proprie lacrime, soffocando ogni singhiozzo, reprimendo ogni pallore rivelatore, pur di poter tenere quel posto preferito di confidente. A un tratto, gli ostacoli fra Beatrice e il suo lontano amico erano caduti: la parte del curioso signore era finita: si sentì soverchio, inutile: si strappò allo spettacolo dei due ricongiunti, felici. Quando aveva chiesto quel fazzolettino? Una sera in cui ella aveva pianto per il dolore dell’assenza: le lacrime che avevano bagnato il fine tessuto, erano state versate per l’altro.
Il terzo ricordo, fra quelli delle donne che egli aveva amate, era un ritratto, una fotografia grande, sbiadita, con una dedica i cui caratteri anche si erano scolorati. Rappresentava una donna di un ventotto anni, forse, dalla fisonomia capricciosa e seducente: certi grandi occhi con le ciglia molto lunghe: un nasino troppo piccolo: una bocca ridente: una massa di capelli bruni, ondulati. Era vestita in un costume bizzarro, da ballo mascherato, cioè trifoglio: aveva una gonnella un po’ corta, di raso bianco, su cui era applicato un gran trifoglio di velluto nero: sul bustino di raso bianco, sul petto, era ricamato un trifoglio nero, di perline: e la gran collana di perle era rialzata, al collo, da un trifoglio di brillanti. Anche sui bei capelli ondulati, ella aveva un diadema di gemme e una specie di cappellino o di cappellone di velluto nero, a tre foglie, che ella portava come una cornice, come un’aureola. La dedica diceva: Charles, je t’adore — Mimì. Il curioso signore, appunto, si chiamava Carlo, ed ella Mimì, un nome vero o falso, chi sa! Falsa senza altro, era la frase della dedica, giacchè Carlo, infatti, aveva adorato Mimì, ma Mimì non aveva adorato lui, nè amato, nè niente. Così, senza una ragione al mondo! Ella aveva avuto molti altri amanti, ad alcuni aveva voluto del bene, non era una creatura arida: ma a Carlo, pur dandosi, ella non aveva concesso nulla. Si era data per gentilezza, per compassione, per distrazione, per ozio, perchè, anche, era inutile negarsi, anche perchè Carlo era un amante generoso. Ma amore, Mimì, per Carlo, mai! Oh egli lo sapeva bene, a malgrado le pietose e scaltre menzogne di Mimì, che egli gittava invano la sua passione, la sua salute, il suo tempo, il suo denaro: la donna si dava, ma egli non era amato. Tante volte, glielo diceva, a Mimì: le chiedeva, perchè essa non potesse volergli bene, un poco volergli bene d’amore, naturalmente. Ella si rattristava, perchè era buonina: rispondeva, senza aver il coraggio di mentire: non so. Un sacrifizio costante, una fedeltà rigorosa, una passione sempre eguale, il denaro, i viaggi, non arrivarono a fare di Mimì, l’amante di Carlo, l’innamorata di Carlo. Periodo febbrile, morboso, della sua esistenza: male atroce di cui aveva sofferto e di cui, ogni tanto, soffriva ancora, non per la donna, che aveva obliata, ma per l’amore che era stato respinto, offeso, ferito mortalmente. Le ferite dolgono pure quando sono guarite.
Il secondo cassetto superiore, a sinistra, nell’antica scrivania di Carlo, contiene un altro piccolo museo amoroso. Sono i ricordi delle donne che hanno amato il curioso signore.
Il primo, fra essi, è un crocifisso di argento, oscurato dagli anni e come consunto dai mistici baci di una pura bocca orante: non è un crocifisso di quelli che portano sospeso al collo, da un cordoncino, le persone pie; è di quelli che si tengono attaccati al muro, presso il letto, e innanzi ai quali ci s’inginocchia, pregando. Esso apparteneva a una fanciulla, Grazia, che era un po’ parente e un po’ amica di Carlo. Molto gracile, molto sensibile, molto impressionabile, dedicata assai alle cose del cielo, quella povera creatura aveva nutrito, segretamente, una tenerezza innocente per Carlo. Lo aveva egli compreso? Aveva egli misurato l’intensità di questa tenerezza? Chi sa! Ella aveva sempre taciuto questo suo sentimento, mentre se ne struggeva: e se anche qualche cosa n’era trapelato, sino a lui, la vita lo trascinava troppo nel suo vortice, perchè egli corrispondesse a questo affetto. Questa Grazia, per la sua salute per le sue inclinazioni, sembrava più fatta per il chiostro che per il mondo, e più per la morte che per il chiostro. Di fatti, un giorno, chetamente morì. Il crocifisso fu mandato a Carlo dai parenti perchè ella volle così. Probabilmente, ella aveva tentato di ricondurre alla fede un’anima errante: probabilmente aveva esalato tutto il suo amore, in quel dono. Egli non divenne un credente: ma si accorse di essere stato amato, troppo tardi, e conservò preziosamente il crocefisso.
Un altro oggetto d’amore, era un paio di forbici da ricamare, molto fini, taglientissime, col manico di oro; erano servite a una donna per tagliarsi le due lunghe, folte, bellissime trecce nere, per gittarle ai piedi di Carlo, inutilmente. Costei era tanto brutta! E sgraziata e antipatica, inoltre! E di animo bizzarro, capriccioso, insopportabile, insieme a ciò! Carlo la guardava con ripulsione; le faceva degli sgarbi; le diceva delle impertinenze; le dimostrava in tutti i modi il disgusto che ella gli ispirava. Ma ella lo amava. Goffa, non giovane, brutta, vestita grottescamente, nervosa, nevrotica, piena zeppa di difetti fisici e morali, ella lo amava e lo perseguitava con questo amore. Erano tali o tante le frenesie che questa donna commetteva, nell’ebrietà del dolore, che tutti si erano accorti di questo amore; si burlavano di Carlo, ne ridevano e aumentavano il ribrezzo che egli aveva per lei. La fuggiva, ella lo raggiungeva; la scacciava, ella ritornava; la ingiurava, ella piangeva, ma non si guariva. Una ossessione. Una notte ella si fece trovare nella sua stanza e per sei ore, otto ore, lo tenne sotto le preghiere, le minaccie, i singhiozzi, i gridi di un amor desolato, disperato: ella fu volta a volta, volgare e sublime, grottesca e nobilissima, orribile a vedersi e trasfigurata dalla passione; a un certo punto, ella sciolse i suoi capelli, la sola bellezza che possedesse, e in un impeto di follia, li tagliò. Invano egli tentò strapparle le forbici, le afferrò le mani, si ferì; ella seguitò a tagliare, cieca, perduta, gittando le sue trecce a lui, rimanendo mutilata, deforme, esausta; egli l’aveva messa fuori, egualmente, dandole i suoi capelli morti oramai, disdegnando persino questo grande sacrificio ed ella era fuggita, a capo chino anche più brutta e più infelice. Dopo, più tardi, egli aveva saputo che ella era in preda a una grave malattia di nervi; poi, più nulla. Quando aveva ripensato, dopo tanti anni, a quell’amore, aveva voluto conservare le forbici di quel sacrificio.
Il terzo ricordo era un pacchetto di lettere, quaranta o cinquanta, forse: molto minutamente scritte, con una calligrafia lieve e volante, che pareva riempisse di alucce il foglio. Portavano, tutte, solo la data del giorno, non l’anno, una firma: Eva. Chi era, dunque, costei? Egli non lo aveva mai saputo. Aveva cominciato a ricevere queste lettere, un bel giorno: venivano dalla posta: una, due per settimana: talvolta, quindici giorni senza venirne: talvolta, due di seguito, un giorno dietro l’altro. La donna si manteneva in incognito, nè faceva nulla per esser conosciuta: ma si comprendeva che fosse giovane e bella e che non fosse libera. Il suo amore per Carlo pareva generato da un incontro, da una conversazione e che si fossero ripetuti incontri e conversazioni; ma nessun dato preciso veniva a chiarire questa ombra, in cui ella si avvolgeva. Forse, se Carlo avesse fatto uno sforzo, se avesse moltiplicato le indagini, egli avrebbe scoperto la verità: ma una sola volta lo tentò e le lettere sparirono, per qualche tempo. Del resto, lo aveva tentato debolmente, senza nessuna volontà di sapere il vero: in fondo, poco gli premeva questa solitaria e misteriosa sua corrispondente. Di nuovo le lettere apparvero, l’amore sembrava più forte, più ardente: si vedeva la lotta di un’anima che vorrebbe realizzare il suo sogno. Carlo partì, per un viaggio improvviso: tornò dopo due mesi: vi erano tre lettere, pressanti: la terza gli dava un convegno in una via, ed era di un mese e mezzo prima. E niente altro. Veramente, egli non ebbe rimpianti, occupato altrove, distratto.
⁂
Infine egli aveva molto amato: e molto era stato amato. Ma non era stato corrisposto mai: e mai aveva corrisposto. Non è curioso, ciò? Forse, non è neppure curioso.