< L'olmo e l'edera
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VIII X

IX.

Guidato dal giardiniere, Laurenti entrò in quel sancta sanctorum, pur dianzi inaccessibile, di tutte le sue quotidiane adorazioni.

La prima persona che incontrò, fu un’adiposa femmina, dalla faccia bitorzoluta con qualche pelo sul mento e gli occhi mezzo chiusi da palpebre carnose, la quale ei riconobbe, senza averle parlato mai, per la signora Tonna, la governante di casa. Costei, che non istarò a dipingervi, poichè non ne franca la spesa, era una di quelle donne tutte miele in apparenza, affettuose a parole, ma che non si muoverebbero da un seggiolone per dar la mano a chi casca, buonissime a dire una terza parte di rosario secondo la vostra intenzione, perchè non hanno altro da fare, ed egoiste nel profondo dell’anima.

— Ecco il medico! — gridò il Giacomo, appena l’ebbe veduta — ecco il medico!

Laurenti, nella furia del correre e del pensare alla signora che si moriva, non pose mente al grido del giardiniere. Egli era corso perchè Giacomo ne lo aveva pregato, e perchè si trattava della signora Luisa; ma non si fermava a considerare il perchè egli fosse stato chiamato, e non altri, a darle soccorso.

Ma il Giacomo sapeva benissimo quello che faceva. Il lettore ricorderà ch’egli pretendeva di avere di tanto in tanto delle buone inspirazioni. Ora la buona inspirazione che egli aveva avuto fin dal momento del suo primo colloquio con Guido Laurenti, era quella di chiamarlo lui, come medico, a curare la sua bella padrona.

E la inspirazione, lasciando da parte l’amore di Guido che egli non conosceva, era ottima. La signora Argellani andava sempre peggiorando; i ragionamenti e i consigli del medico che aveva chiamato, non le erano sembrati buoni e non ci aveva punto badato. Anche il Giacomo, nel suo buon senso, aveva inteso che quella della signora non era una malattia da risguardarsi soltanto sotto l’aspetto fisico, ma che, derivando da cause morali, chiedeva rimedio del pari alla scienza del fisico e alla sapienza del metafisico. Intendiamoci bene; non erano queste le parole che gli venivano in mente a colorire il concetto; ma il concetto c’era, e il concetto s’incarnava nel nome di Laurenti, di quel savio e modesto giovine addottorato in medicina, che sapeva tante cose e che studiava sempre.

— Questo è un uomo che mi va a genio; — aveva detto il Giacomo — e poichè un medico s’ha a chiamare oggi o domani, tanto meglio che sia lui. Egli finalmente non si contenterà di fare una visita e di scrivere una ricetta. —

Nato il concetto, rimaneva da lavorarci attorno, considerarlo per tutti i versi. E più il Giacomo lo considerava, e più gli piaceva. Nel fatto, c’era una sola, ma grande, difficoltà a metterlo in pratica. Come avrebbe egli persuaso la sua signora, che non volea saperne di medici, a chiamare il vicino, giovanotto sconosciuto nell’arte d’Ippocrate, e all’apparenza più fatto per dare immagine di Marte che non di Esculapio?

Egli dunque stava cercando l’occasione, e rimuginando disegni, l’uno più strambo dell’altro; allorquando l’occasione si offerse da sè, e tanto facile, che il nostro buon Giacomo se ne spaventò, e l’avrebbe voluta più difficile, più lontana eziandio.

Ma in fin de’ conti, non l’aveva fatta lui, nè chiamata. Si dolse dell’improvviso male che aveva colto la padrona, e se ne dolse tanto più, in quanto che, sulle prime, a lui uomo ignaro di siffatte cose, era parso assai più grave di quello che invero non fosse, ed aveva creduto la padrona in articulo mortis. Ma il suo primo pensiero, appena si parlò di chiamare un medico, fu quello di metter la mano sul giovine vicino. E per verità, fu tutto amore per la signora, e amore intelligente, che gli fe’ pigliare la strada della collina, anzi che quella del piano.

Laurenti fu fatto passare dalla governante in un salotto, e di là nel pensatoio della signora Argellani, dov’ella aveva i suoi libri e il suo telaio da ricamo, quindi nella camera da letto.

Egli penetrava a bella prima nel santuario della dea; ma il suo turbamento non gli consentì di badare a cotesto, nè allo sfarzoso buon gusto che aveva presieduto all’arredamento di quella camera.

Su d’un letto a baldacchino di seta azzurra come i paramenti della camera, adagiata sul copertoio di raso color di rosa, trapunto a fiorami, era la signora Argellani, vestita ancora, ma col seno discinto. Le sue fanti, non avendo avuto tempo nè agio a spogliarla, si erano fatte ad agevolarle il respiro a furia di forbici, tagliando per tal guisa la vita della veste, il busto e lo scollo di una camicia di tela battista, che pendeva arrovesciato a brandelli.

Il giovine si accostò al capezzale. La signora era bianca e fredda come persona morta; e tuttavia, sebbene così fredda e bianca, cogli occhi chiusi e le labbra scolorate, appariva bellissima; quel collo e quel seno, mirabilmente modellati, davano immagine di quelle stupende forme di cera nelle quali l’arte rivaleggia colla natura, e fa, Dio mi perdoni, pensare assai più che la natura viva.

Fu prima cura di Laurenti mettere la mano al polso e quindi sul cuore della supina, per accertarsi che la vita non l’avesse abbandonata. Ma giammai indagine di medico fu fatta con più casta riserbatezza. Egli non aveva nè occhi nè senso che per esplorare le pulsazioni del sangue e i battiti del cuore. E nulla sentì; solo un lieve sudore che gli inumidì le mani additava il patimento di quella povera carne senza colore, e insieme col patimento la vita.

Lo stato d’anemìa era evidente, e una breve osservazione da vicino raffermò nell’animo di Laurenti il concetto ch’egli si era formato pochi giorni innanzi, vedendo la signora Argellani da lunge. L’anemìa, questo brutto male che (parlo agli ignari di medicina e di grechi paroloni) significa privazione, scemamento considerevole della sostanza del sangue, era visibile nello scoloramento dei tessuti, nella scomparsa dei vasi sottocutanei; donde l’estremo pallore della pelle e delle membrane mucose delle labbra, nelle quali qualche vaso filiforme portava a mala pena un po’ di color roseo sbiadito.

Luisa era come una povera pianta, che aduggia, intristisce, sottratta alla benefica azione della luce. Che grave rammarico aveva fatte le tenebre intorno a lei? Qual era il sole della sua vita, che, oscuratosi ad un tratto, le scemava negli interni meati e le scolorava il sangue, nutrimento necessario dell’organismo umano?

Questa era la incognita che Laurenti avrebbe voluto scoprire. E intanto chiedeva alle fanti che cosa avessero fatto per richiamarla in sè stessa.

— Le abbiamo spruzzato il viso, — risposero, — con acqua di fior d’arancio.

— Che! Non serve a nulla. C’è acqua di Colonia?

— Credo di sì, — rispose la signora Tonna, avvicinandosi allo specchio, dove erano boccette di acque odorose.

Ma siccome la signora Tonna, da quella tranquillona che era, non si spicciava punto, Guido corse egli stesso a rovistare in tutti quelli arnesi del mondo muliebre.

— C’è dell’acqua di Felsina; — disse la governante, — ma di Colonia non ne trovo.

— Acqua di Felsina? tanto meglio; è più aromatica. Prendete qui, voi altre, strofinatele con quest’acqua il petto.... più giù.... sul cuore, mentre io le ne stropiccio le mani. Così va bene; ancora, ancora, fino a tanto che ricuperi i sensi.

— Oh Gesummaria! — esclamò la signora Tonna, lasciandosi cadere su d’una scranna — povera signora! E adesso crede Lei che potrà rimettersi?

— Sì, certo, non dubiti. Vede? La comincia a muover le labbra; queste frizioni aromatiche fanno il loro effetto. Ma che modo le è venuto male? Forse qualche commozione improvvisa?....

— Oh no, signore; io stava di là, nella mia camera, e mi disponevo a venirle a chiedere se avesse bisogno di me, per andarmene a dormire. Poichè, sappia, signor dottore, che io patisco di nervi; la fatica prolungata mi fa male, e bisogna che mi metta a letto di buon’ora.... Questa sera son certa che passerò una cattiva notte.... molto cattiva. Figurarsi! Dopo un colpo così forte....

— Ma, signora Tonna! — le gridò spazientito il Giacomo, che stava sull’uscio, cogli occhi addosso a Laurenti, e già lo vedeva mordersi le labbra, — Non è del suo mal di nervi che le domanda il dottore, bensì della padrona, per sapere in che modo la è caduta in svenimento.

— Ah sì, perdevo la testa! — soggiunse la pacifica governante. — Ero dunque venuta qui presso, nella camera accanto, per chiedere se aveva nulla a comandarmi. La signora stava sdraiata sul lettuccio, ma non ci badai, perchè la c’è tutte le sere e non parla mai, anche quando ci son io a tenerle un po’ di compagnia. Le parlai e non mi rispose; solo mi accennò colla mano che me ne andassi pure; ma io mi avvidi che soffriva, e fu un miracolo di nostro Signore che non ubbidissi; poichè subito dopo mandò un gemito e mormorò: mi sento morire. E allora io chiamai gente, perchè ha da sapere che io non posso veder patire una mosca, e mi coglie subito il mio male.... un brutto male....

— Ma, — interruppe Laurenti, — Ella ha detto, se ho inteso bene, che la signora è tutte le sere a meditare sola e silenziosa nel solito posto.

— Tutte le sere, e alla stess’ora! Oh la non dubiti, che non manca neppure una volta. Già, e’ bisogna dir tutto.... Ella si stanca con quelle sue passeggiate in giardino, così cagionevole com’è; ed io l’ho raccomandato più e più volte al Giacomo, che la lasciasse tranquilla. Egli è qui presente, e può dire se non è vero.

Il Giacomo incominciò a rispondere crollando le spalle, come colui che non menava buone alla signora Tonna le sue fisime intorno ai danni del moto.

— Oh che? — soggiunse poi, — L’aveva da star sempre murata in casa? Ella ci sta fin troppo per sua elezione, la povera signora; che se noi non le si dice di muoversi un tratto e di scendere a respirare, un poco d’aria, ella starebbe di continuo sdraiata sul suo lettuccio a contare i moscherini che volano.

— Egli ha ragione; — disse Laurenti. — Queste sono malattie che tolgono insieme colle forze la volontà, e s’ha da vincere, col moto continuo, colla mutazione dell’aria, quella naturale propensione che hanno gli ammalati a stare fermi. Così pure è necessario che siano distolti da quella malinconia del pensar sempre. L’eccesso della vita intellettuale riesce a danno della vita fisica, e non aiuta a far sangue.

In quella che così ragionavano, la signora Argellani si mosse e diede un gemito. Laurenti, il quale l’aveva sempre tenuta per mano, proseguendo a stropicciarle le estremità coll’acqua di Felsina, s’inchinò rasserenato verso di lei.

La vita era a poco a poco tornata; il sangue rifluiva liberamente. Poco dopo, la signora Luisa aperse gli occhi, sebbene a mezzo, e senza guardare in nessun luogo.

— Stia di buon animo, signora; — le disse dolcemente il giovine. — E’ non è stato nulla.... un po’ di debolezza soltanto.

— Dove sono? — mormorò ella, — Mio Dio! La vita non mi ha dunque abbandonato?

— Oh, che cosa dice mai? — esclamò la signora Tonna, che si era affrettata ad avvicinarsi al capezzale. — Vossignoria ha avuto un po’ di male, come l’altra volta; ma noi tutti le siamo sempre stati dattorno....

— Grazie, mia buona Antonietta, grazie! E così dicendo, la signora Argellani aperse gli occhi del tutto, provandosi a guardare. La prima cosa che vide, fu lo stato suo, la persona discinta; e una fiamma pallida e lieve le serpeggiò sulle guancie. Laurenti intese il pensiero dell’inferma, e afferrato un capo del copertoio di raso sul quale era adagiata, fu sollecito a ravviarlo sul petto ignudo; ed ella, seguendo degli occhi quel braccio di persona ignota che le stava daccanto, si volse a guatare il giovine, tra spaurita e curiosa.

— Non abbia timore, signora; — le disse egli allora, per rispondere in qualche modo a quella muta interrogazione. — Sono un amico.

— Gli è il medico, — soggiunse Giacomo, facendosi innanzi anco lui, — ed io sono andato a chiamarlo in fretta, appena mi fu detto che Vossignoria si sentiva male.

— Un cattivo medico, in verità; — ripigliò Laurenti. — Ma in un momento di bisogno, val meglio che nulla.

— Grazie anche a Lei, signore; — disse la bella inferma, stendendogli la mano; — ho molto sofferto, ma le sue cure mi hanno giovato, e adesso mi par di rinascere.

— Aiutiamo dunque, e presto, la madre natura. Ella incominci a mettersi a letto senz’altro, che intanto noi penseremo al rimanente.

Ciò detto, si ritrasse, perchè le sue donne avessero agio a spogliarla, e dopo avere ordinato qualche pozione che le confortasse lo stomaco, andò a sedersi nel salotto vicino, per meditare sulla malattia di quella donna gentile, ma anzitutto per raccogliere e mettere a sesto i suoi pensieri confusi.

Colà seduto a fantasticare da solo, gli avvenne di innamorarsi della malattia, come già s’era innamorato della donna. Il cuore e la mente erano interessati del pari in quella grand’opera. Poter vincere quel male, e restituire il sangue in quelle vene colme di linfa! Egli in quel punto si pentì davvero di non aver confortato colla pratica assidua lo studio di quell’arte salutare, che gli appariva tanto più nobile allora, in quanto che doveva rivolgersi a salvare una vita cotanto preziosa per lui. Ora questo per lui significava per tutto il mondo. Il mondo senza quella donna gli sarebbe paruto a gran pezza più paurosamente nero di quel sogno sulla distruzione delle cose, che Lord Byron descrisse in versi tali da mettere i brividi addosso ad ogni generazione di lettori.

Salvarla, salvarla! Ma come? Il suo consiglio senza guida si aggirava in un circolo vizioso di ragionamenti, come un povero disgraziato nel labirinto di Creta, senza il filo pietoso di Arianna.

La causa, pensava egli, la causa morale di questa malattia, chi la indovina? Che giova sapere come si restituisce al sangue la materia colorante, se quel nemico nascosto, invisibile, seguiterà a guastare il faticoso lavoro della scienza? Si sa che il nemico c’è, e che veglia ai danni vostri! mirabile scoverta! Ma dove sia, donde venga, come sia forte, la scienza di tutta la facoltà riunita, non saprebbe chiarirvi.

Gli è un uomo; sì certamente un uomo! Ma è vivo, o morto, rammarico del passato, o angoscia del presente? O forse non è nè l’una nè l’altra cosa? La negazione dell’amore, la mancanza di questo necessario elemento di vita in un cuor sensitivo, non potrebbe inaridire le fonti della esistenza in quella gentil creatura, come, e forse peggio di un amore violento?

Ogni cosa è possibile. I segni della clòrosi sono cosiffattamente somiglianti a quelli dell’anemia, da farle parer quasi gemelle, ed esse, come si scambiano a vicenda i caratteri, così avviene che possano anco scambiarsi le cause.

Il nemico, il nemico! Scoprire il nemico nascosto; gli è questo il problema.

Così pensava Laurenti, seduto su d’un seggiolone, coi gomiti appuntellati sull’orlo di una tavola rotonda che sorreggeva una gran lucerna di bronzo dorato. La lucerna era accesa, ma la luce, sebbene gli illuminasse la fronte, non gli rischiarava punto i pensieri.

Questo è il problema! — disse, e cangiò postura. Nel muoversi a quel modo, gli venne veduto un volume, legato stupendamente, colle carte dorate e le iniziali della signora impresse a fuoco sulla coperta. Le mani gli corsero a quel libro, mentre il pensiero era altrove, e macchinalmente ne apersero i fermagli.

Era quello un albo da ritratti, o alla prima figura che gli cadde sott’occhio, un pensiero gli balenò nella mente. La soluzione ch’io cerco si avrebbe a trovare qui dentro? Se un amante c’è, vediamo dove può essere stato collocato. L’albo è la raccolta di tutti gli amici e di tutti i conoscenti effigiati. Ma costui, come indovinarlo? Dove metterò il dito, per dire: egli è qui? Cerchiamo intanto; di solito, smaglianti ritratti dell’uomo amato si mettono nelle ultime carte, confusi fra una signora grinzosa, un parente lontano, od altre persone di minor conto, per modo che non risaltino agli occhi del riguardante curioso.

Sfogliò il libro con molta cura; vide persone note, ma nessuna figura d’uomo gli parve colorire il concetto ch’egli s’era formato. Uno solo lo trattenne alquanto a pensare, un solo ritratto d’uomo, che veniva dopo quello della marchesa di Roccanera, anzi, chiudendo il libro, combaciava con esso.

— Chi è costui? Ah, lo ricordo, il Percy; un bel giovine, in fede mia; occhi neri e grandi; capelli nerissimi e lucenti; i contorni finissimi; ma egli c’è alcun che di duro, di sarcastico, in questa fisonomia che vuol parere soave. Gli è stato messo accanto alla marchesa Bianca, alla Bianca, come dicono i nostri eleganti, e ci sta bene. L’altro giorno erano insieme all’Acquasola, ella su d’un magnifico leardo pomellato che correa l’ambio, ed egli su quel sauro che ha comperato per quindicimila lire dal Nelli di Rovereto, e il Nelli le ha subito perse in una notte al Casino. Ma che diamine vo almanaccando io? Qui non c’è l’uomo ch’io cerco, e forse ha ancora da nascere. Quella è una malattia la cui causa morale è una negazione, e non altro. —

Buttata là questa sentenza, e l’albo sulla tavola, si alzò più contento, per ritornare nella camera della signora Argellani.

La bella inferma si era addormentata, e la lieve respirazione, il battito regolare del polso, sebbene assai debole, facevano testimonianza del buon effetto delle frizioni aromatiche e della pozione corroborante che aveva bevuto poco prima.

Egli stette a contemplarla un tratto, al fioco chiarore del lumino da notte, posato sulla lastra marmorea del tavolino, accanto alla cortina del capezzale. Com’era bella in quella tranquilla postura, e com’era dolce quel sonno!

L’opera sua per quel giorno era finita, e con essa si dileguava in quel momento l’ansietà del medico che indaga ed aiuta lo scioglimento di una crisi. Allora il giovine cominciò a guardare con altri occhi, vo’ dire cogli occhi del cuore, la signora Argellani, e a misurare il gran passo che aveva fatto in quella sera, nel corso di due o tre ore. Egli si vedeva là, nel santuario, accanto a quella donna che poco innanzi ei temeva di non dover avvicinare giammai; si vedeva solo, autorevole, al suo capezzale, angiolo custode del sonno, e certamente suo salvatore più tardi.

Così almeno pensava e prometteva a sè stesso, con quella fidanza generosa che è propria dei giovani, e segnatamente degli innamorati.

Studierò, diceva in cuor suo; la scienza, interrogata dall’amore, non ha segreti, Studierò, consulterò, vaglierò tutte le sentenze dei maestri, pur ch’io sottragga questa bella creatura alla morte.

Poi, sempre guardando alla dormente, si ritrasse dalla camera sulla punta de’ piedi, e uscì dalla palazzina, dopo aver raccomandato che non turbassero il sonno all’inferma, e detto che sarebbe tornato alla mattina vegnente.

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