< L'olmo e l'edera
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VI VIII

VII.

Tre giorni passati a meditare di continuo su d’una cosa, la solitudine, che è potentissima esca ai vigorosi affetti, e più di tutto dieci anni di vita senza amore, avevano dato Laurenti in balia della passione, e così profondamente scolpita nel suo cuore la imagine della bella sconosciuta, da non poterla più cancellare.

Allorquando egli venne finalmente a pensare sulla natura de’ suoi sentimenti, allorquando, rientrato un istante in sè medesimo, si addiede della gravezza del male, chiuse gli occhi e gridò: non è vero.

Non è vero! Frase presto detta; e intanto egli era sempre inteso a guardare la palazzina gialla e gli cuoceva di non veder più comparire quel bianco viso di donna.

Uno dei primi e dei più noti sintomi di quella affezione cardiaca che non è considerata in alcun trattato di patologia, ma che tutti conoscono, e molti conservano allo stato cronico, è il girandolare che si fa nei pressi di una certa abitazione. Si gira, si va, si viene, ma non si esce mai dai paraggi dell’Isola ignota; si bordeggia, si getta l’àncora in vista, come farebbe una fregata in crociera.

Un altro sintomo è quella curiosità di sapere un certo nome. Si adoperano, per soddisfarla, tutti i più sottili artifizi; si passeggia più volentieri coi ciceroni della cronaca cittadina; si stringe la mano con maggior piacere alle persone che hanno qualche attinenza colla Dea, ancora senza nome, e solo per farlo cascare, questo benedetto nome, a guisa di un diamante smarrito che si cerchi, tra i ritagli di una conversazione capricciosa.

E questi sintomi c’erano ambedue. Guido Laurenti, chi avesse voluto trovarlo, era in giardino, o per quella tal via che metteva alla palazzina, ma senza veder mai la bella innominata. Poi, di sera andava a teatro, in traccia di gente chiacchierina; ma senza cavarne un costrutto. E per vero, non avendo mai veduto la dama per via, nè in altro luogo di ritrovo, non sapeva da che parte incominciare, non poteva metter le mani su chi la conoscesse, o di persona, o di nome.

Un giorno la fortuna gli condusse tra piedi un conoscente, persona curiosa che andava per le vie alte della città, a dare un’occhiata ai nuovi edifizi. L’occasione non aveva che tre capegli sul cranio, ma Guido li afferrò destramente, conducendo il compare per quella tal via che sapete, e là domandandogli di chi fosse quel palazzo rosso, di chi quel bianco, di chi quella casa grigia, e via discorrendo, sempre con aria sbadata e per mo’ di chiacchera.

Di tal guisa, tirando innanzi, seppe finalmente che la palazzina gialla era la villa Argellani.

— Argellani! che gente è?

— Non so; — rispose l’amico — forastieri, che l’hanno comperata, credo, dai Visdomini. L’uomo è morto, lasciando la vedova, che deve starci di casa.

E’ fu tutto quanto potè sapere Laurenti; ma era già molto; una vedova ed un cognome!

La Argellani, ei l’avea già udita nominare, epperò non gli giungea nuovo il parentado; ma quando, e in che modo, non rammentava. E il nome di battesimo? quello era il busilli.

Così egli rimase senz’altro lume, a mezza strada. A chi far capo? Chiederne ai ciceroni della cronaca, gittar loro innanzi quel nome per avere tutte le altre notizie, gli parea cosa disdicevole; inoltre, siccome avviene agli innamorati, sembrava a lui che il primo venuto gli avrebbe letto il suo segreto negli occhi.

Meditò, meditò, ma non gli venne alcun partito che valesse. Parlare col giardiniere! sì, certo; quello era lo spediente migliore, anzi l’unico buono; ma come fare? La conoscenza c’era; ma non andava oltre il saluto, e la cosa era come passata in giudicato. O come avrebbe fatto per entrare in discorso con lui?

Il giardiniere diventava, issofatto, un gran personaggio, e per accontarsi ragionevolmente con esso lui, ci voleva proprio una diplomazia di quella più fine, una diplomazia da Talleyrand, e da Metternich.

Ci pensò una notte e un giorno; finalmente ebbe trovato lo spediente. Era molto arrisicato, e poteva anco non approdare; ma il nostro diplomatico non ci aveva da scegliere tra parecchi il più acconcio; gli bisognava sperimentare quel solo che avea potuto trovare.

Uscì a tarda notte in giardino. Il cielo era buio, e propizio al gran misfatto. Giunse fino al muraglione, presso ad una bella pianta di camelie, che era una rarità della specie; sollevò il vaso tra le palme, lo sospese fuori del murello, e lo lasciò spietatamente cadere nella prateria sottostante.

Quindi si allontanò sollecito da quel luogo, ma non tanto, che non udisse il tonfo del vaso.

— Povera camelia! — esclamò, affrettando il passo: e fu quella l’orazione funebre dell’uccisore alla sua vittima.

Come aspettasse impaziente il mattino, potete argomentarlo, o lettori. All’alba era già in piedi. Scese in giardino, ma senza ardir nemmanco di guardare dov’era rimasto il vuoto nella fila dei vasi, e se ne andò ad inaffiare le sue aiuole più lunge, da dove nessuno, che fosse nella prateria, avesse potuto veder spuntare il sommo della sua testa. Un’ora passò; quindi un’altra mezz’ora, e già egli pensava che la sua camelia fosse perduta senza utilità, allorquando udì levarsi dai piedi dell’olmo una voce che gridava:

— Signore! signore!

Il cuore gli balzò in petto; ma e’ non si mosse. Intanto la voce ripigliava più forte: signore! ohè, signore?

Si avanzò allora fino al murello, e si provò a guardare. Gli era per l’appunto il giardiniere, che aveva rizzato la povera pianta, e stava col viso in aria a cercare di lui. I cocci del vaso erano sparsi sul terreno, ma il terriccio di castagno era agglomerato tuttavia intorno alle radici; la vittima respirava ancora.

— Signor.... signor.... La mi scusi; non so il suo riverito nome.

— Laurenti, ai vostri comandi, brav’uomo.

— Signor Laurenti, veda..... questa è roba sua; — proseguì il giardiniere, levandosi con una mano il cappello, e additando la camelia coll’altra.

— Che? come? — gridò Laurenti. — Oh la mia povera camelia! E come mai la è caduta? Forse il vento....

— Oh, non ha tirato vento, stanotte; — rispose il giardiniere. — Sarà stato quel tristo d’un Grigio. Sa Ella? un gatto bellissimo, ma e’ ci ha il ticchio di scorazzar la notte, per dar la caccia ai topi. Si sarà arrampicato per l’edera fino alla fila dei vasi, e avrà fatto lui il malanno.

— Ah! — esclamò Laurenti. E siccome il Grigio non era lì per protestare, la calunnia ebbe corso.

— Mascalzone d’un Grigio! — proseguì il giardiniere, — se lo colgo, n’ha a toccare una serqua!

— Oh no; povera bestia! — disse Laurenti, che non voleva far bastonare un innocente, quantunque gli giovasse lasciarlo accusare. — Esso ha operato a fin di bene per ammazzarci i topi, e non gli s’ha a dare un castigo. Poi non è un gran male, quello che ha fatto; soltanto mi rincresce un tratto per quella pianta....

— Sicuro, una bella pianta! Camellia maculata Adhemari! — sentenziò il giardiniere dopo averne esaminati i bianchi petali chiazzati di rosso cupo. — Ma per ventura non la s’è fatta un gran male. Il peso del vaso la fece cader ritta.

— Ah, manco male.

— E purchè la sia rimessa subito in terra.. Veda, non ci ha che un ramo guasto, ma il tronco è sano, e le radici del pari; la terra non pare quasi che abbia fatto quel salto.

— Manderei a torla; — soggiunse timidamente Laurenti, — ma non ho il servitore in casa.

— Che! la porto io; — rispose il giardiniere, alzando il cespo da terra con molta accuratezza.

— Voi? Mi duole davvero che v’abbiate a pigliare questa molestia.

— Son pochi passi, signor.... signor Laurenti. C’è qui presso la postierla che mette nella viottola; due salti e sono da Vossignoria. Ah Grigio, Grigio! Ne fa sempre qualcheduna delle sue.

E così accagionando il povero Grigio, l’amico giardiniere s’incamminò per la discesa del prato, verso la postierla che aveva accennata a Laurenti.

Il nemico era dunque costretto ad accettare battaglia. Il primo colpo da gran capitano era fatto; e’ bisognava saper fare il secondo; entrato in dimestichezza col giardiniere, cavargli le parole di bocca.

Laurenti andò a riceverlo sull’uscio di strada. Gli era un uomo sui cinquantacinque, piuttosto alto della persona, robusto e vegeto, dalle labbra tumide, indizio di bontà, e dagli occhi limpidi ed arguti. I capegli corti e brizzolati, in ragione dell’età; sulle guancie, sul mento e sul labbro superiore si scorgeva quella tinta turchiniccia che è segno di una folta barba, ma accuratamente rasa di fresco; e che fosse rasa di fresco, ante lucem, e per mano del suo legittimo padrone, lo dicevano cinque o sei tagli disposti in tutti i versi, con qualche goccia di sangue rappreso sui margini. Portava una camicia di tela grossolana, ma di bucato, il collare della quale si ripiegava in due lasagne sulle risvolte di un panciotto di pannolano cenericcio, partito a quadrelli, come i calzoni; ed aveva il capo coperto da un cappello di feltro nero, dalla testiera bassa e tonda, e dalla tesa larga, come usavano un tempo i cavalieri, e come usano adesso i contadini della Polcevera. Del resto, in maniche di camicia, come soleva stare tutto il giorno.

Entrò col cespo di camelia tra le braccia, salutando il giovanotto con quel sorriso che vuol dire: ci conosciamo, e non occorrono altri complimenti.

— Dove vuole Vossignoria che mettiamo questa povera ammalata? — disse egli, appena ebbero fatti pochi passi nel viale.

— Di qua, se non vi spiace, galantuomo.

— Galantuomo, sì certo, e Giacomo per sovrappiù, con licenza di Vossignoria; — aggiunse il giardiniere, che, come il lettore ha già veduto, era uomo faceto anzichenò.

— Orbene, Giacomo, venite qua, in fondo al giardino. C’è molta terra di quella che si confà alle camelie e posta a solatìo. Qui la metteremo, ed il Grigio sarà bravo, se verrà a buttarmela giù.

— Gatto indemoniato! — disse Giacomo, mentre deponeva il suo fardello sul ciglio dell’aiuola. — Se non fosse perchè distrugge i topi... Già, con licenza di Vossignoria, gatti e donne, diceva mio padre, buon’anima, nemici necessarii.

— O come, tutti a mazzo? chiese Laurenti, ridendo.

— Perchè no? Così gli uni, come le altre, debbono stare in casa; ma gli uni amano far le scappate sui tetti, e le altre..... volesse Iddio che ci andassero! In quella vece, amano andare attorno, con tanto di crinolino, e orecchini d’oro, e fanno gettare i quattrini a palate.

— Siete ammogliato, forse?

— No, per la grazia di Dio. Non nego d’essere stato lì una volta per pigliarla pur io; ma la donna ci ha avuto più giudizio di me, e n’ha sposato un altro. Baie, in fin dei conti; o dove diamine sono andato a parare?

— E chi ha cura delle vostre robe, e chi vi ammanisce il desinare?

— Che! o non ci ho le mani, io? Un po’ d’acqua in pentola, poi un pizzico di sale, e il suo bravo spicchio di manzo a bollire, fino a che non sia cotto, o che il Grigio non me l’abbia cavato fuori, come fa qualche volta. Oh, non ha paura lui che la pentola scotti.

— Gli è proprio un gatto terribile, questo Grigio?

— Sicuro, ed io l’avrei già fatto correre di buone gambe, se egli non fosse il cucco, il beniamino, della signora Tonna.

Quella signora Tonna fu come una stilettata nel cuore di Laurenti. Tonna! Aspettava un nome leggiadro, e si udiva dir Tonna. Non già che, se la signora della palazzina si fosse chiamata Tonna, ei non l’avrebbe amata del pari; forse quel nome, portato da lei, sarebbe diventato anche bello. Ma per la prima volta, così alla sprovveduta, sentirsi a dire: la signora Tonna!

Chiedo scusa per Laurenti a tutte le signore Antoniette che mi leggono, se egli non potè mandar giù quel diminutivo, così poco vezzeggiativo, del loro nome, e se io pure sono costretto a pensarla come lui. Elleno poi, in nessun caso, neppure nel santuario della famiglia, non si lascino mar Tonna, nè Tonietta, e sarà tanto di guadagnato per tutti.

— Chi è la signora Tonna? — dimandò il giovinotto, dopo una breve sosta. — È la vostra padrona, forse?

— O che, le pare? È la donna di casa, la governante, e che so io; vecchia zitellona che biascia paternostri, legge le Vite dei Santi e mangia biscottini.

Laurenti respirò con tanto di polmoni, come dovrebbe respirare Encelado, se gli levassero l’Etna dallo stomaco.

Intanto il trapiantamento della camelia era condotto a buon fine, e il giardiniere dilettante, non volendo lasciarsi fuggire il giardiniere maestro, fino a che non si sbottonasse del tutto, lo tenne a bada col fargli vedere per ogni verso il teatro delle sue geste agronomiche e botaniche, considerate con molta attenzione, e lodate con acconcie parole dal sentenzioso orticoltore.

— Vossignoria conosce il mestiere a menadito. Già, loro signori, quando ci si mettono, vengono a capo d’ogni cosa.

Sempre intento a trovare un nuovo appicco al discorso che gli premeva, Laurenti condusse Giacomo a vedere le sue raccolte entomologiche, i suoi ofidii, i suoi batracii ed altre simiglianti bellezze della natura vertebrata. Le quali cose veggendo, e in particolar modo alcuni mostricini e pezzi patologici conservati nello spirito, il Giacomo spalancò la bocca ed inarcò le ciglia.

— Ma Vossignoria è medico!

— Medico e chirurgo; — soggiunse Laurenti — ma non ho studiato quest’arte, se non per impratichirmi in alcuni rami delle scienze naturali, e non ho mai più fatto un salasso, nè scritto una ricetta.

— Oh, non importa; — ripigliò il Giacomo. — Vossignoria ha da essere pur sempre un uomo che sa il fatto suo, da quello che vedo. Non fo per entrare nelle sue faccende, che non mi risguardano, e ricordo il proverbio dei miei vecchi: «impacciati ne’ fatti tuoi;» ma Ella fa molto male a non esercitare una professione così bella. O che, mi canzona? Quel toccare il polso ad una persona, e veder subito, ad occhi chiusi, che cosa ci ha dentro di guasto; trovare per ogni male il suo rimedio, come io lo trovo per le mie piante..... E dire che le mie piante, quando hanno male, le si capiscono subito, e i rimedii si contano sulle dita; laddove per gli uomini, e per le donne, gli è un altro paio di maniche. Ma io vado fuori del seminato, con queste mie chiacchere.....

— No, caro Giacomo; amo anzi molto di barattare quattro parole colla brava gente del vostro stampo.

— Grazie della sua bontà! — rispose commosso il giardiniere, e nella commozione si lasciò andare a stendergli la sua mano callosa. — Verrò, con sua licenza, a vederla qualche volta, e per fare qualcosa, le darò anche una mano in giardino. Vossignoria, per esempio, mi scusi veh!... ma non la mi sembra aver molta pratica delle margotte.

— Avete un subbisso di ragioni; fo tutto d’inspirazione, come vedete, e avrò caro che mi correggiate. Ma... le vostre visite non dispiaceranno poi... al vostro padrone?

— Che padrone? Io non ho padroni. La mia signora, che è sola in casa e comanda lei, è una dama come va, e non sarà dolente, quando lo sappia, che io faccia qualche cosa per un così buon vicino, e sopratutto così cheto, che non lo si sente mai.

— Che cosa volete voi dire? — dimandò ansioso Laurenti.

— Dico quello che è. Veda, due anni or sono, ci stava qui una famiglia chiassosa che nulla più; mezza dozzina di marmocchi che facevano un casa del diavolo; poi una fantesca che gridava come una spiritata, con una vociaccia da schiuder le orecchie ai sordi; poi de’ buontemponi che venivano a giuocare alle pallottole col capo di casa.... Insomma, la mia povera signora non poteva uscir mai nel giardino, che ella ama pur tanto; non poteva affacciarsi mai sulla prateria qui sotto, a cagione di quel diavoleto.

— Non l’ho mai veduta; — disse Laurenti con piglio sbadato.

— Bravo, perchè Vossignoria guarda le nuvole, sia detto con sua buona licenza. Ma noi l’abbiamo veduta, sul muro accanto all’olmo, proprio l’ultima volta che la signora venne in giardino.

La conversazione diventava importantissima pel nostro innamorato; laonde, facendo uno sforzo supremo per vincere il suo turbamento, si affrettò a sostenerla con quest’altra frase posticcia:

— Ama molto i fiori, la vostra signora?

— Oh molto; ma, poverina, non può goderne come vorrebbe. La è giù di salute, e v’hanno giorni che non le dà neppur l’animo di uscire all’aperto.

— E che cos’ha?

— Non so; Ella non vuol saperne di medici, e dice che non è nulla, che il suo male passerà presto. Ma io non ne credo un’acca.

— E la gente di casa perchè non cerca di persuaderla?

— Oh, signor Laurenti!..... — rispose Giacomo, stringendo le labbra. — La è tutta gente che pensa al suo guadagno e non guarda più in là. La governante, quella del gatto, è una beatella egoista, che è contenta di pigliarsi gli spogli della padrona e far roba per sè. Il cameriere è uno zotico, che non parla mai; le due fanti peggio che peggio; insomma, la veda, l’unico che si curi un tratto della signora sono io, io Giacomo Vernazza, suo giardiniere.

— E siete un uomo a modo; — gli disse Laurenti, mettendogli una mano sulla spalla. Iddio vi compenserà dell’amore che portate alla vostra signora.

— Oh se Dio la sentisse, signor Laurenti...

— E che cosa?....

— Nulla, nulla! Acqua in bocca; se no, dico qualche eresia da dovermene andare a confessare dal Papa.

— Comunque sia, — ripigliò Guido — sta a voi di persuaderla a mandare pel medico.

— Eh, non sono già stato a farmelo dire. Quindici giorni fa, ho tanto picchiato che la mi ha detto; fa a modo tuo; e il medico ce l’ho condotto. Ha toccato il polso, ha guardato la lingua, gli occhi, la pelle, ha fatto una dozzina di domande, poi ha ordinato certe acque, del moto, dei vescicanti, e poi se n’è andato via. La padrona lo ha lasciato fare, lo ha lasciato dire, l’ha accompagnato fino all’uscio con gli occhi, e con un sorriso malinconico, e poi non ha fatto un bel nulla. Del resto, salvo il moto, che mi pare utilissimo, in tutte le altre cose che ha detto il magnifico, ci ho fede come nella settimana dei quattro giovedì.

— E perchè? Non siete voi che poco fa dicevate tanto bene dei medici.

— Sì, sì, ma non di quello, che mi pareva, con licenza di Vossignoria, un asino calzato e vestito.

Guido era cosiffattamente accorato, che non potè nemmanco ridere dei motti del giardiniere.

— E nessun amico di casa la consiglia? — soggiunse egli.

— O chi vuole che la consigli, se non viene in casa nessuno? Ma, la non dubiti, ci penserò io. Sono una bestia, con sua licenza, ma le mie buone inspirazioni di tanto in tanto ce l’ho. Ora Ella scusi la chiaccherata, che è stata lunga oltre il bisogno; ma sono fatto così: quando posso aprire il cuore, lo spalanco addirittura.

— Bravo, Giacomo! a rivederci.

— A rivederci sicuro. E con questo, fo di cappello a Vossignoria.

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