< L'olmo e l'edera
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XV XVII

XVI.

Nel ringraziarlo della sua cortese compagnia, la signora Argellani aveva detto a Laurenti come ella si sentisse stanca e pensasse di andare a riposarsi di buon’ora. Donde avvenne che quella sera, rotte le sue consuetudini, il giovine rimase come un pesce fuor d’acqua, nella agonia della incertezza, che è la peggiore di tutte. Dopo il desinare andò a passeggiare pel giardino, ma non c’era nè luce, nè aria, nè fiori per lui. Uscì per la città, ma non sapeva dove andarne a parare; tornò a casa e aperse un libro, ma non potendo reggere alla lettura, uscì di bel nuovo, e andò viaggiando all’impazzata, in uno stato d’animo che gli innamorati intenderanno; temendo e sperando, facendo e disfacendo senza posa castelli in aria, d’ogni forma e d’ogni misura.

Come a Dio piacque, giunse la notte, e colla notte un po’ di sonno. Il mattino seguente, quattordici ore erano passate, e cotesto parve un sollievo a Laurenti, il quale scese per tempissimo in giardino ad inaffiare le sue piante, e poi, per far ora, se ne andò ad erbolare su pei terrapieni, fuor delle mura.

Egli aspettava le dieci con impazienza, e intanto, cercava di ingannare il tempo, sradicando giusquiamo, euforbia e cicuta. Quella mattina era consacrata proprio allo studio dei tossici. Suonarono le dieci, ed egli non si mosse di lassù castigando sè stesso con altre due ore di quel molesto indugiare; di guisa che, allorquando fu per tornarsene a casa, già era il tocco dopo il meriggio.

— C’è stato nessuno a cercar di me? — chiese egli al servo.

— Non so; — rispose questi. — Io sono stato fuori per tante cose, e sono tornato poco fa.

Laurenti entrò in casa coll’animo scombuiato, e stringendo i pugni dentro le tasche della spolverina.

— Ah! — esclamò la governante, appena ebbe veduto il padrone. — Che cosa ha, che le vedo gli occhi così stralunati?

Crollò le spalle a quella dimanda della donna, e si volse alla scala per salire nelle sue stanze; ma non aveva anche posto il piede sul primo scalino, che il servo si fece innanzi per presentargli i giornali e le lettere tolte dalla posta.

— Sta bene.... Ma qui c’è una lettera che non viene dalla posta. Chi l’ha portata?

— Il giardiniere di casa Argellani; — rispose la governante.

— E perchè non dirmelo subito, che ci era questa lettera? E’ poteva trattarsi di cose rilevanti....

— Ma se Vossignoria è giunta appena adesso.... Non ho avuto ancora il tempo di parlarle....

— Benissimo; avete ragione.

E così dicendo, salì frettoloso al piano superiore; corse nella sua camera, e andatosi a sedere presso la finestra, ruppe il suggello, cavò un foglio scritto su tutte le quattro facce, d’una scrittura fitta e sottile, che cominciava colla parola amico e finiva col nome della signora Argellani. Ora, come gli tremassero le dita, e come il sangue gli rifluisse veloce dal cuore alle tempie, sel pensi ognuno che abbia ricevuto la prima lettera di una donna amata.

La prima lettera d’una donna amata! E’ non v’è cosa al mondo che valga questo preziosissimo dono. Pensare che quella mano sulla quale imprimereste tanti baci, si è appoggiata sulla carta per formar quelle lettere; che quegli occhi, dai quali implorate uno sguardo fuggevole, vigilavano la scrittura; che quella mente, nella quale vorreste regnar solo, dettava i pensieri e le parole; e tutto per voi, non pensando che a voi! Egli è perciò che le cose di minor rilievo, i nonnulla, acquistano un pregio grandissimo; le virgole che determinano il più semplice concetto, parlano un’arcana favella all’anima vostra; uno svolazzo di penna, la filettatura di una maiuscola, sembrano dirvi «ti amo» poichè tutta quella gentile fatica è stata fatta per voi, non pensando che a voi.

Anelante, turbato, Laurenti spiegò il foglio e lesse la lettera della donna gentile.

«Amico,

«Consentite che vi scriva, poichè non mi verrebbe fatto dirvi a voce tutti i nuovi e confusi pensieri che mi vanno turbinando nella mente. Ho bisogno davvero di vederli uscir neri dalla penna in parole formate, per raccapezzarmi io medesima in questo tumulto di sentimenti, in questo brulichio di nuove paure e di nuovi desiderii. Forse, anco volendo e potendo, non ardirei farvi la confessione che ora commetto alla carta.

«Debbo ringraziarvi, amico mio? Sì certamente, perchè voi siete stato l’angiolo consolatore nelle tenebre della mia agonia, aiutatore, benefattore accettato e deriso ad un tempo, imperocchè io ho sfruttato i soccorsi momentanei della vostra scienza ribellandomi poi a tutte le sue lontane deduzioni e cercando in cuor mio di farla mentire. Il ringraziarvi non è dunque altro che un rendere giustizia, abbenchè tarda, alle vostre cure amorevoli.

«Io (quasi arrossisco a dirvelo) non desidero più di morire. E non m’abbiate, per carità, in conto di una paurosa femminuccia! La scena del mondo aveva orizzonti nuovi, che io, chiusa tutto intorno da nuvole fitte, non avevo saputo scorgere. Voi, medico pietoso dell’anima, avete squarciato un lembo di quegli uggiosi vapori, nei quali io stava per addormentarmi, disperatamente tranquilla, e m’avete fatto trapelare in lontananza il cielo sereno.

«È una assai triste cosa la morte. In quella che voi parlavate, io mi sono misurata nella buca, ed ho veduto che ci si stava a disagio. Inoltre, quel silenzio immane, pesante come una cappa di piombo.... ed eterno, mi parve orribile, orribile! Chi lascia ricordanza ed affetti dietro di sè, può morire. Forse la certezza del rimpianto altrui, fa della morte una raffinatezza di voluttà. Ma soli, soli sempre, e nulla che ci ricordi.... e dal mondo, per cui si muore, nessun profumo che salga fino a noi, triste cosa per fermo, eterno ghiaccio che ci avviluppa, e, siccome avete detto voi così acconciamente, ne uccide due volte!

«Egli m’è sovvenuto di certa leggenda antica, di que’ poveretti che andavano al camposanto sepolti senza lenzuolo, e il dì dei morti, uscendo da terra per andare a salutare i parenti e gli amici, non avevano un cencio di che coprire le loro miserevoli nudità. Vedevano i compagni, ben coverti dalla pietà ricordevole dei superstiti, valicar leggieri la soglia del camposanto e correre colla brezza notturna fino all’abitato, per deporre un freddo bacio sulla fronte dei cari viventi, raccolti a meditazione dintorno al focolare domestico. Ed eglino, poveretti, nulla! Eglino, dimenticati dal mondo, erano costretti a rimanersi vergognosi nel sacro recinto, e a richiudersi intirizziti nella fossa.

«Vedermi morta là dentro, senza affetto, senza rimpianto, vedermi a dormire ignorata, obliata in eterno, senz’altro compenso della comune allegria dei superstiti, che una menzogna scolpita sul marmo, argomento al sogghigno dei riguardanti curiosi, fu una amara lezione, della quale io vi sono debitrice.

«Ma dove avete imparato voi, cuore di donna in petto virile, il segreto di scuotere la fibra intorpidita dall’agonia, di cogliere un dolore nel profondo, di irritarlo, di cacciarlo da tutte le sue ridotte, suscitando a congiura tutte le ire dormenti, tutte le speranze affievolite di un’anima che più non intendeva sè medesima, e soffocarlo, nell’impeto supremo di tutte quelle forze collegate? È la scienza forse, che vi ha fatto indovino, mago e ricreatore di spiriti?

«Vi ricordate di quei bambini che si trastullavano sulla porta del cimitero? Ohimè, come la vita è vicina alla morte! ma, per contro, come il rimedio è provvidenzialmente vicino al male! Cari fanciulli! Essi non sanno nulla della vita; ignorano se dalle sue battaglie deriverà ad essi la morte o il trionfo, il dolore o la gioia; ma vivono e sorridono, e più tardi, giunti all’età dell’affetto, avranno desiderii e speranze, conformi alla legge che tutti trascina. Certo avranno a patire, e taluni anche a desiderare di non esser nati mai. E frattanto, il far del bene a costoro, anco per renderli infelici, è un bisogno dell’anima, ufficio gentile della virtù e fonte di gaudii ineffabili. La rondinella che porta pagliuzze al nido e cibo ai figli seminudi, adempie al precetto dell’amore e fa opera buona, anco se intenda che quei poveri pennuti, appena potranno volare, affaticheranno vanamente le ali per lunga distesa di mari, o cadranno fulminati dal piombo del cacciatore crudele, che addestra l’occhio e la mano ad uccidere le indifese creature di Dio. E Maddalena vive maternamente così; ella soffre in pace e spera che il suo Giovannino rassomigli a Sandro, al continuo argomento de’ suoi affettuosi pensieri.

«Vo’ fargli del bene, al Giovannino, se vivrò. Egli del resto non dovrà serbarne gratitudine a me, sibbene a voi solo, mio nobile amico, che avete guidato i miei passi.

«Quante belle cose sono da farsi nella vita! Sì, credo anch’io che si possa vivere senza l’amore. Davanti al sepolcro di Caterina Stella ho pensato, pesato anzi la vacuità di questi affetti fuggevoli, che non sopravvivono alla morte, spesso nemmeno alla gioventù e non valgono il sacrifizio di noi medesimi.

«Anch’io penso con voi che v’abbiano buoni e malvagi nel mondo, e che bisogni amare i buoni, dimenticare i malvagi. Anche i buoni sono deboli, ed hanno il loro lato gramo, quello in cui la materia vile predomina. Perdonare, non dimenticare il male che si fa; comportare le debolezze, render giustizia alle virtù; non disperare della specie umana, far del bene, operare insomma, operar sempre, e non curarsi del premio; è questa una buona e consolante dottrina.

«Cotesto pel cuore. Per ciò che riguarda la mente, è conforto grandissimo, e gaudio dell’intelletto che riverbera su tutta l’esistenza, studiare, indagare il vero in ogni ragione di cose, diventar lucidi come il prisma, poter come esso rifrangere la luce più pura, e scomporla in sette colori.

«Ah, noi donne siamo pur disgraziate! Nessun lavoro di educazione, nessuna voce amica ci chiama a queste regioni dove saremmo tanto più felici quanto più ci sentiremmo nobili. In quella vece ci si rinchiude nella cerchia dei mezzi conforti della mente, dei mezzi gaudii del cuore, nè certo i più eletti, e poi ci si comanda di vivere!

«Infine, che vi dirò? Voi mi avete disvelata a me stessa; io mi sento, per opera vostra, rivivere, e voglio vincere, se fia possibile, il male, che uscito dallo spirito, mi regna ancora nel sangue. Fate voi; la vostra scienza mi aiuti.

«Come vi ricompenserò? Voi non badate a mercede. Appena vi ho scorto, v’ho inteso amico sincero, e pietoso a me per comunanza di affanni. Voi avete molto patito, ma, forte per natura, armato di ingegno e di virtù, vi siete sollevato di per voi nelle più alte regioni, dove non giungono i grossi vapori della materia, e operate il bene per la necessità dell’animo vostro. Che cosa potrei io profferirvi? E che cosa avrei io da profferirvi, che già non abbiate, vo’ dire la contentezza interna, il sorriso sereno della vostra coscienza?

«Addio! L’orologio suona le nove, e mi sento spossata. Vo a letto, e dormirò tranquilla, aspettando che questa lettera vi giunga domani per tempo. Voi siete mattiniero, e la leggerete mentre io dormirò, forse sognando di essere risanata da voi. Addio, dunque vi aspetto.

«Luisa».

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