< L'olmo e l'edera
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XXI XXIII

XXII.

Alla dimane, quando la lettera fu al suo ricapito, Guido ebbe dolore d’averla scritta. Ora gli pareva di soverchio patetica, ora troppo compassata; ad ogni modo poi gli pareva che in cambio di scriverla, avrebbe saviamente e cortesemente operato ad andare in persona a licenziarsi dalla donna gentile.

Tutti ragionamenti dettati dall’agonia del non doverla vedere più mai, quella bellissima che lo aveva ridotto a quel punto. Ma la era fatta, e non c’era rimedio.

La giornata passò non affatto male, tra per l’operosità concitata degli apprestamenti di viaggio e per le corse che ebbe a fare fuori di casa.

C’è sempre un mondo di nonnulla a cui provvedere, innanzi di cangiar paese. C’è, verbigrazia, da pensare alle cose che si porteranno seco, e a quelle che si lasciano: c’è da ordinare le sue carte, bruciare le inutili e quelle segnatamente che risguardano altrui. E qui, fermate, commozioni ad ogni tratto! In que’ foglietti che vengono tra le mani, foglie disperse della Sibilla, v’hanno pensieri fuggevoli che fanno ricordare con amarissima voluttà il giorno in cui furono scritti; v’hanno lettere che bisogna rileggere, fragranze del passato che si aspirano più e più volte, quasi per provare da capo sensazioni lontane; v’hanno di certi fogli, di certi ricordi che non si ardisce distruggere così sui due piedi, epperò si ripongono sull’orlo del tavolino, per modo che abbiano ad essere gli ultimi sacrificati, quasi che nel tempo che gli altri si mutano in cenere, dovesse sopraggiungere tal cosa che li avesse a scampare dal fato comune.

Fornita quella mesta bisogna, che si portò via tutto il mattino, Laurenti uscì di casa per andare dal suo banchiere a metter sesto alle cose sue, la qual cosa non riuscì punto difficile, dacchè tutto l’avere di Guido era posto a frutto nei banchi, o nelle cartelle del debito pubblico. Rimaneva la casa col giardino, dov’egli abitava; ma per questo negozio il giovine stava appunto accarezzando un disegno che vedrete di poi.

Venne quindi la volta dei servi da congedare e da consolare nel tempo istesso, poichè erano gente buona e molto affezionata a quell’ottimo padrone ch’egli era. Guido li accomiatò da gran signore, lasciando a tutti larga memoria di sè.

In queste ed altre faccende giunse la sera. Tornandosene a casa, trovò il giardiniere della signora Argellani, che lo aspettava sull’uscio.

— Buon giorno, ed anzi buona sera a Vossignoria! — disse il Giacomo levandosi il cappello.

— Oh, Giacomo, — rispose Laurenti, facendo uno sforzo grandissimo per sorridergli — che buon vento vi mena quassù?

— Buono? Chi sa? Vossignoria ne fa di belle, in fede mia!

— Io? che cosa?

— O che, le pare? andarsene così, senza dire: addio bestia!.....

— Giacomo, gli è necessario.

— Necessario un..... presso che nol dissi! la mi perdoni, veh! Sono un uomo troppo vecchio per potermi cangiare. Chi l’ha nell’ossa lo porta alla fossa. Che Vossignoria se ne vada, s’intende; ma non dire neppur crepa al povero Giacomo....

— Ma sono ancora qui; — rispose Laurenti — voi mi vedete, ed io posso stringervi la mano....

— Sì, ma non già per grazia di Vossignoria, sibbene perchè la signora me lo ha detto. Ma che? e’ sembra proprio che si siano dati la posta! anche la signora se ne va....

— Davvero, Giacomo? e dove?

— A Firenze; così ha detto stamane, e lascio pensare a Vossignoria che pianti in casa!

— Ma non voleva andare in Isvizzera?....

— Oh, io non so nulla di cotesto. Ha detto Firenze.... per ragioni di famiglia.... Pare che la ci abbia un’eredità da raccogliere.... delle liti, e che so io! Poi, ha detto che vuol cambiar aria per compiere la sua guarigione.....

— Ella fa molto bene; — soggiunse Laurenti. — Io stesso le avevo consigliato di andare a passare qualche mese fuori di Genova.

— Qualche mese! Altro ci è; vuole andarsene del tutto.

— Ma come? perchè!

— Che vuole che ne sappia io? Ci ha da esser qualcosa nell’aria, che diventano tutti matti; la signora.... Lei, con sua licenza....

— Oh dite pure, io non me ne reco; matti dunque?....

— Sicuro, ed io, scusi se ardisco mettermi nella brigata, io sono il terzo matto.

— O come?

Così dicendo, Laurenti stette a guardare attentamente il giardiniere, che si faceva grave, sostenuto, come chi si appresta a fare un discorso di molto rilievo.

— Signor Laurenti, ho a dirle una cosa; ma non rida per carità.

— No certo; non è mio costume neppure.

— Bene! Come Vossignoria sa, il povero Giacomo è solo.....

— Lo so.

— Non ha parenti; i suoi vecchi sono tutti iti; non ha moglie, grazie al cielo, nè figli per conseguenza; non ha altra affezione che per la sua signora, e la sua signora se ne va.....

— Orbene?

— Mi lasci dire! Avevo cominciato a voler bene a qualcheduno..... da povero villano, s’intende; ma insomma, anche l’amore della povera gente vale qualcosa.... e questo qualcheduno se ne va anco lui! Che cosa resta il povero Giacomo? Un vecchio ceppo di castagno, buono da grattargli il fradicio per far la terra alle camelie, e da buttare il rimanente sul fuoco!... Mi stia a sentire! Il Giacomo ha pensato una cosa, con licenza di Vossignoria.....

— Dite, dite!

— Vossignoria se ne va laggiù alle Indie, a fare il naturalista. Il Giacomo, non fo per dire, è un giardiniere che sa il fatto suo, e qualcosa ha pure imparato, in cinquant’anni di vita; è robusto; gli piace la fatica; ama vedere un po’ di paese anco lui...

— Ho capito, Giacomo, ho capito.....

— No, non basta! Il Giacomo può essere buono ancora a qualcosa, come aiutante, come servitore, come..... e perchè no? come padre. Senta, ho venticinque anni più di Vossignoria..... Chi la aiuterà come il Giacomo, quando correrà la campagna? Chi avrà cura di Lei, come il Giacomo, quando le verrà un po’ di male? Sì, l’ho detto e lo sostengo, come un padre.... come un padre....

E le lagrime gocciolavano a quattro a quattro sulle guancie abbronzate del vecchio giardiniere.

— Giacomo! gridò Laurenti, abbracciandolo — voi siete il più brav’uomo che io mi conosca. Qua la mano, e contratto fermato! Ma la signora lo sa?

— Sì, gliel’ho detto.

— E che cosa vi ha risposto ella?

— Che faccio bene, e che se Vossignoria mi piglia con sè, sarà un gran piacere per lei, che in tal modo sarà più certa di avere notizie di Vossignoria. —

Stranezze del cuore umano! In fondo a quello di Laurenti cominciava come un barlume di speranza, un punto di luce, pari a quel lumicino dei racconti della nonna, fievole ancora, che non lasciava indovinare se fosse di castello lontano, o di tugurio, o di carbonaia boschereccia, ma che pure facea rinascere da morte a vita l’eroe disgraziato della favola.

— Orbene, Giacomo — disse Laurenti — preparate le cose vostre; noi partiremo posdimani a sera per alla volta di Corfù.

— È lontano Corfù?

— Sì, di là dall’Italia, e ci andremo sull'Amerigo Vespucci. A Corfù troveremo un’altra vaporiera che ci porterà in Alessandria d’Egitto.

— E avanti sempre! — gridò il giardiniere. — Ma se lo dicevo io, che sono il terzo matto! chi non le fa in gioventù le fa in vecchiaia, e nessuno ne scampa. —

Il giorno seguente, Guido vedeva giungere il Giacomo con tutte le sue carabattole in una piccola valigia che depose in anticamera.

— Già fatto?

— Sì; io non ho come Vossignoria da provvedere a tante cose, Sono come la chiocciola che ci ha addosso ogni suo avere.

— Vi siete già congedato dalla vostra padrona?

— No, ci torno stassera, poichè ella non partirà fino a domattina.

— Così presto?

— Sì; la dice che egli è un negozio di molta urgenza, quello che la fa andare a Firenze.

— E la sua casa, chi ne avrà cura?

— Oh per questo la ci ha il suo notaio, un fior di galantuomo.....

— Chi è costui?

— Il signor Marinasco; non lo conosce Vossignoria?

— Sì, un’ottima persona davvero! E poichè mi fate ricordare che debbo andare da un notaro per certe faccende, mi recherò appunto da lui. —

Un’ora dopo, Laurenti entrava nello studio del notaro Marinasco, a fare un atto di donazione della sua casa.

Il notaro fu un tal poco maravigliato quando udì il nome del donatario.

— Questo ragazzo è nato vestito, — mormorò egli tra i denti. — E’ non avrà neanco a piatire coi vicini di sotto, per ragion di confini. —

Io spero che l’avveduto lettore avrà capito la cagione di questa maraviglia del notaro, e perchè borbottasse di confini, e di ragazzi che nascevano vestiti.

Fu triste, assai triste, l’ultima notte che Laurenti passò nella solitaria dimora. La sua anima sconsolata, posta nel giorno a continua tortura dalla fretta degli apprestamenti e da tutte le altre cure della partenza, era caduta in una specie di rilassatezza, nella quale c’entrava anco per molto la prolungata insonnia di quei giorni, così tristamente fecondi d’ogni maniera di dolori.

Scese a passeggiare in giardino. La notte, stellata, azzurra, trasparente, sembrava irridere colla sua imperturbabile calma alle procelle del cuore di quel giovine che stava ritto presso il muraglione, vero simulacro della pochezza umana al cospetto dell’infinito. Guidato dall’invisibile auriga, il Carro seguiva l’eterno viaggio; Cassiopea, i Gemelli, la cintura d’Orione, splendevano colle loro forme più ricise in mezzo a quelle miriadi sterminate di corpi celesti nelle profondità dello spazio. Il firmamento era muto, tranquillo, come l’immensità di cui esso appare unica forma visibile ai mortali; ed egli, povero microcosmo, agitato, sconvolto da violenti uragani, non contava nulla in quel gran mare dell’essere.

«Addio, mia povera casa! addio, lembo di cielo che sorridi a questa conca di terra popolosa, dove ho vissuto così tranquillo tanti anni come in mezzo al deserto. Ah, fossi rimasto mai sempre intento a guardarvi, o stelle del mio cielo, a indagare i vostri segreti, o fiori del mio giardino!

«Nulla! nulla! nemmeno un saluto! Ella parte dimani.... questa mattina, anzi; chè oramai sono le tre dopo la mezzanotte. Ma che cuore ha costei, che non sente neppure il bisogno di dire all’amico, all’uomo che l’ama e che ella non vedrà mai più: perdonate, io non posso amarvi, ma sono triste del vostro dolore?

«Forse ha ragione; forse nel suo cuore di donna ella ha sentito essere manco acerbo fuggire, che darmi un ultimo addio, nel quale io non avrei scorto che un atto cortese di pietà, di quella pietà che io ricuso!»

Questi erano i pensieri di Laurenti. Dopo aver corso da capo a fondo il viale, dopo essersi fermato più volte a contemplare la palazzina Argellani che appariva opaca nel fondo, e cercato di ricreare una forma bianca sotto l’albero di pino, il cui ombrello si dipingeva foscamente riciso nel primo strato azzurro che lasciassero discoperto le digradanti colline, l’assiduo evocatore di amare ricordanze andò a fermarsi presso il noto sedile di pietra, accanto ai rami dell’olmo.

Ella non era per fermo venuta a salutare quel punto estremo della sua villa, innanzi di partire! Che cosa doveva importarle degli amplessi tenaci dell’edera, di quell’idillio di piante nel quale egli, ebbro d’amore, aveva raffigurato un idillio di cuori, il sogno della sua vita?

Diede un lungo sguardo di malinconia a quelle nozze verdeggianti, un lungo sospiro a quelle ricordanze amarissime; spiccò una fogliolina d’edera, in forma di cuore, poi un’altra, e le ripose ambedue tra le faccie del suo taccuino; quindi si lasciò andare sul sedile, spossato di membra e di anima, senza volontà, senza pensieri.

La natura, così a lungo dimenticata, voleva la parte sua. Guido cadde in un sonno profondo, tosto visitato da un sogno che io chiamerò sogno di prigioniero, imperocchè l’uomo privo di libertà, impedito da catene, sogna sempre l’aria aperta, i viaggi, l’uso infine di tutti quei diritti che gli sono menomati dal chiavistello e dalle sbarre del carcere; e Guido, abbandonato dalla donna gentile, sognò che essa gli era daccanto, e che ambedue adagiati in una nuvoletta rosea veleggiavano verso l’orizzonte lontano, in mezzo a soavi splendori di cielo, le mani nelle mani, gli occhi amorosamente fisi negli occhi, e mormorandosi a vicenda: ti amo!

Quando si svegliò, il sole era già alto e scottava la lavagna su cui egli s’era sdraiato. Intorno a lui stavano rispettosamente aspettando, e vigilandolo che non cadesse a terra, i servi e il buon giardiniere.

— Ma che diamine è saltato in capo a Vossignoria di dormire qui all’aria aperta, per buscarsi qualche malanno? O non sa che la rugiada è tanto veleno che si filtra tra carne e pelle a chi sta smemorato a pararla?

— Sì, sì, ma che volete? Ero stanco e mi sono addormentato qui, senza pure avvedermene. Che ora è?

— Sono le dieci suonate da un pezzo.

— Ah, gli è troppo tardi, ed ho ancora molte cose da fare! —

Gli era venuto in mente di chiedere al Giacomo se la signora Argellani fosse partita, e se gli avesse lasciato qualche cosa da dire a lui; ma si ritenne, parendogli poco conforme alla dignità del momento. Si vergognava anzi d’essersi lasciato cogliere in quel luogo, dando argomento a sospetti, e mostrando la sua debolezza alla gente.

Questo pensiero lo raffermò nel proposito di non chiedere nulla al Giacomo e di mettersi in mare senza parlargli di lei. Ella era partita senza mandargli un saluto; buon viaggio! Ella non si curava punto punto di lui; così doveva finire! Insomma, e’ flagellò il suo cuore, lo stritolò, se mi è consentita la frase, sotto il martello della logica, e pari al fanciullo spartano a cui la volpe nascosta sotto la tonaca addentava le carni, compose il suo viso a noncurante alterezza.

Dopo essersi convenevolmente rassettato, uscì di casa per andare a salutare due o tre amici, i soli che s’avesse, e il lettore che rammenta il cominciamento di questa storia ricorderà, chi fosse uno tra essi.

— Dunque, te ne vai?

— Sì, parto stassera.

— Guido, gli è un acerbo dolore quello che ti spinge così lontano da noi.....

— Che!..... Parto perchè ho desiderio di vedere un po’ di mondo. Dolori, io? E per che cosa? Per chi? —

E tirò giù per cinque o sei minuti su questo metro; ma poi, tanto era l’affetto suo per l’amico, finì a confessare ogni cosa.

Quell’amico e gli altri più intrinseci che vide, gli tennero compagnia a pranzo. Ei non era più il Guido Laurenti de’ tempi andati, severo ma tranquillo, pensieroso ma cortese negli atti e nelle parole. Tranquillo era in apparenza, ma il viso sparuto accennava i patimenti dell’anima; per consolare gli amici che erano tristi della sua partenza, rideva a sbalzi e celiava fuor del costume; ma la celia e il riso gli erano spesso interrotti da subitanei stringimenti di cuore, e allora gli si scombuiava il volto e pareva che tutte le facoltà vitali si raccogliessero di dentro, a soffocare, se pur veniva fatto, una cura, un’angoscia che voleva sopraffarlo.

Anche il dulcis amor patriae parlava in que’ momenti supremi più forte nel cuor di Laurenti che non avesse mai fatto da prima. Ad ogni piè sospinto gli accadeva di fermarsi per raccogliere i suoi pensieri; ogni piazzetta, ogni crocicchio, dimandava un lungo sguardo di affetto; perfino certe faccie di viandanti, che gli erano un po’ più dimestiche, gli facevano rallentare i passi. Persone e cose alle quali per lo innanzi non usava badare più che tanto; persone e cose che lo commovevano allora, come quelle che gli davano imagine della sua terra, della sua terra da cui si allontanava per sempre.

Finalmente giunse la sera. Gli amici, dopo un’ultima libazione, per render propizio Nettuno, e dopo lunghi e ripetuti abbracciamenti, si separarono da Guido sulla calata del porto. Egli scese col Giacomo in un canotto, che si allontanò subito dalla riva a furia di remi, poichè l’ora era tarda, e la caldaia dell’Amerigo Vespucci accennava coi suoi nuvoli di fumo di non aver tempo da perdere.

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