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Ben fûr ciechi del lume della mente
Quanti preser col Cielo empia contesa,
Nè sepper come certo; alto, possente
Di lassuso è il giudicio, e come pesa;
5Ond’ ei fra il pianto della morta gente
Bestemmian or la disperata impresa,
O fan qui degli Dei fede alla forza,
Mutati in belve od in arborea scorza.
Nè sole il dicon de’ Titani l’ ossa
10Onde pasce Etna ed Ischia i lunghi ardori;
Ma il dice Mirra di sue forme scossa,
Che i suoi piange dal tronco incesti amori;
E Aracne che dal lino u’ fue percossa
Ancor si lagna de’ mal cerchi onori;
15E Niobe tratta al doloroso passo,
Che i morti figli ancor guarda dal sasso.
Tu pur, Rodia gentil, a tristo fato
Tratta un dì fosti dal superno sdegno;
Nè ti valse il bel volto, onesto e grato.
20Che d’ ogni riverenza era sì degno,
Non l’ aver di virtute il petto armato,
E il por sol nelle cacce il casto ingegno
Chè provasti del Ciel quanto è il rigore,
Miseramente trasmutata in fiore.
25Era costei tra le fanciulle elette
La meglio cara alla triforme Diva,
O armata di grand’ arco e di saette
S’ affaticasse dell’ Eurota in riva,
Ovver di Cinto alle petrose vette
30Gisse i cervi cacciando all’ aura estiva,
Le selve ognor, fra cento Oreadi e cento,
Tutte empiendo di sangue e di spavento.
Sì ad Amor aspra e sempre faretrata
Mena i suoi dì l’ ancella di Dïana;
35L’ andar pe’ boschi a nudo piè le aggrata,
In breve gonna, alla foggia silvana;
E a chioma sciolta, d’ ogni fior privata,
Tornare in sul mattin dalla fontana;
Nè dal suo core alcun affetto impetra
40Cosa che non sia d’ arco o di faretra.
Ma quantunque ad amor fusse rubella,
Ogni anima gentil per lei perìa;
E qual pe’ rai dell’ una e l’ altra stella,
Qual delle chiome pel fulgor languìa;
45Qual per l’ onesta angelica favella,
Che di nuova dolcezza i petti empìa;
Qual pe’ gigli del volto e per lo schietto
Tepido avorio del segreto petto.
Ardon così per la fanciulla altera
50E mille e mille innamorati côri;
Alla reina della terza spera
Mirto votivo ognun sospende e fiori;
Fuman l’ are di Cipro e di Citera
Di svenate colombe e pingui odori;
55Ma superba ella ognor quanto più vaga.
Sol di sè stessa sè medesma appaga.
Ove s’ apria una grotta a piè d’ un monte,
E più il raggio del Sole era negato,
Venne ella un giorno all’ orlo d’ una fonte
60Per riposare il fianco affaticato;
Sciolte dall’ omer le saette conte,
E il bel corpo alle chiare acque fidato,
Così, dal mezzo delle vitree linfe,
A parlar prese alle ascoltanti Ninfe;
65- Bello è le fere per lo bosco sperse
Starsi aspettando in sul meriggio al varco;
E bello delle prede aspre e diverse
Sulla sera depor lo dolce incarco;
Bello le membra di sudore asperse
70Bagnar ne’ freschi fonti, e scioglier l’ arco;
E i femminei d’ Amor falsi piaceri
Mutar con questi più gagliardi e veri.
Che se pur v’ ha in amore alcun diletto,
Altri lo segua: me tal vita giova.
75Ciglia non cangio mai, non muto aspetto
Per quel fôco che all’ altre in sen si cova.
Vibri il cieco fanciullo entro il mio petto
Quante armi ei sa, ch’ io vincerò la prova;
Lei vincerò che ai cor dà guerra e pena.
80Alta Diva non già, ma putta oscena.--
Così la ninfa; ed il suo casto viso,
In questo, lampeggiò tanto sereno,
Che ben parve s’ aprisse il paradiso
Per l’ aer d’ intorno di dolcezza pieno.
85Venere udìlla, e pel dolor diviso
Sentì alla punta di que’ scherni il seno,
Talchè vendetta nel pensier volgendo,
Incominciò, crudelmente ridendo;
- Dunque non sono io Dea? dunque costei.
90Questa vil cacciatrice andrà impunita?
Sosterrò l’ arrogante, io fra gli Dei
La più soave ognor, la più gradita?
Io la figlia del Cielo? io che già fei
Sin Giove lagrimar di tal ferita,
95Che, obliando le stelle, or piobbe in auro
Or pel Cretico mar muggio nel tauro?
Ed or sarò d’ una fanciulla invano
Detta nemica? io sì di possa priva
Ch’ ella abbia vanto di suo dir profano?
100Ch’ io venga in rischio di non esser Diva?
Fatta sì imbelle or, dunque, è questa mano
Ch’ una superba mi schernisca, e viva?
E qual fia de’ mortai che più m’ onori?
Qual mai che mi sacrifichi e m’ adori?--
105Dice; e, come la sprona il suo furore,
Appresta il carro onde alla terra vole.
Se ne sgomenta, e le vien contro Amore
E prega con dolcissime parole;
Ma non sente pietate il divin côre,
110Ed ogni suo pensier spenta la vuole;
Chè non pur dolce all’ uomo è la vendetta.
Ma nel sen degli eterni anco s’ alletta.
Scende fra nembi il carro, e sì veloce,
Che folgor par quando lo ciel traversa;
115E ad Arcadia si gira, ove una foce
È d’ aspra valle ad ogni luce avversa;
Ove il giorno e la notte urla ferocemente ogni fera più cruda e diversa;
Cui fan ghirlanda antiqui faggi e cerri,
120In che mai non sonò colpo di ferri.
Qui atterrito il villan non miete o ronca.
Nè vi guida mai greggia il pio pastore;
Qui nel profondo, ove a mirar più tronca
È la veduta, e cresce ombra maggiore,
125S’ apre di negri marmi una spelonca,
Che nell’ anima gitta un sacro orrore;
E qui il gran Fauno Dio ha impero, e segge,
E ogni belva più strana affrena e regge.
D’ acuto pino l’ uno e l’ altro corno
130E la rigida fronte egli ha ricinta;
E il petto e il tergo realmente adorno
Gli fa di tigre una pelle dipinta.
Sotto sua ferrea verga ai sassi intorno
Sta l’ aspra torma, di gran ferri avvinta;
135Ond’ ivi più che altrove il suo ruggito
Urla il concavo monte e trema il lito.
Fe’ qui raccôrre ai sacri augei le piume
Venere, alquanto pria che il dì s’ aprisse;
E in bello atto gentile innanzi il Nume
140Supplichevol si stette, e così disse;
- Fauno; poichè d’ ogni superbo lume
L’ alto Motor, l’ alt’ opra a te prescrisse
Di raffrenar per queste brune selve
Quant’ è furor nelle più crude belve;
145Fauno, di Trivia una crudele ancella
Me spregiar osa, e mio divino culto;
E sì m’ è avversa a gli atti e a la savella,
Che m’ è forza punir lo acerbo insulto.
Fra queste fere, prego, la più fella
150Sciogli, dunque, e la spingi nell’ occulto
Del vicin colle, ove l’ altera suole
Cacciar pe’ boschi all’ apparir del Sole.
Ivi giaccia insepolta; ivi le nude
Ossa dà in pasto alle affamate cagne;
155Ivi, ombra orrenda, di voci aspre e crude
Empia la notte le buie campagne.
Fauno, soccorri me di tua virtude;
La miglior tu n’ avrai di mie compagne.
La più soave e più gentil di quelle
160Che sono Ninfe in terra, in cielo stelle. -
- A te imperare, a me ubbidir s’ addice,
Fauno rispose, o santa Dea d’ amore;
O prima, o sola d’ ogni ben radice.
Quello che tu non miri è senza onore;
165Tu questa valle ridente e felice
Fai, tu la spogli del nativo orrore;
E chi del lume tuo non si conforta,
S’ aggiunga al regno della gente morta. -
Così dicendo, il ferreo laccio spezza
170Ad un fiero cinghial ch’ ogni altro avanza
Vincon tempre d’ acciaio in lor durezza
Le acute sanne, e d’ arme ogni possanza;
E dà per gli occhi al cor tanta gravezza,
Che spegne di salute ogni speranza;
175Nè quel di Calidonia crudo tanto,
Nè sì terribil fu quel d’ Erimanto.
Fugge, e prende la via pe’ vicin campi,
E Cerer, Bacco e Palla abbatte; e l’ira
N’ è paventosa sì, che mali scampi
180Trova il pastor che dalla lunga il mira.
Come talor dal ciel fra tuoni e lampi
La folgor scende, quando il turbo spira;
Sì la belva fatal mena a fracasso
Arbori e macchie, e ciò che vieta il passo.
185Sorge l’ Aurora fuor dell’ uso mesta,
Quasi presaga del futuro pianto;
Nè di splendidi for pinge la testa,
Nè dell’ usato lume orna il bel manto;
Tutta muta di sotto è la foresta,
190Se non che Progne col pietoso canto
Disacerba l’ antico suo tormento,
Cui risponde dell’ aura il gemer lento.
Pronta ogni Oreade môve in folta schiera
Al primo lume dell’ incerto giorno,
195E innanzi a tutte, de’ suoi dardi altera.
Apre Rodia la via con atto adorno;
Qual pel Dittinio giogo la severa
Delia si mostra, e sparge ai boschi intorno
Alto splendore; onde a Latona il petto
200S’ intenerisce pel materno affetto.
Già il bosco si circonda ad ogni varco,
Già ognuno e rete appronta e acuto strale;
Chi la saetta incocca e tende l’ arco,
Chi discorre lo pian, chi l’ erta sale;
205Suona delle faretre il grave incarco,
E per tutto un fragor s’ alza, che tale
Forse non è quel che dapprima appare
Quando si leva la tempesta in mare.
Stordita a quel rimbombo di sua tana
210Esce ogni belva e lascia il covil cupo,
Mentre l’ ardita schiera di Dïana
Ratta discende per l’ alto dirupo;
Il cervo più ne trema e si lontana;
E nel burron s’ asconde ed urla il lupo,
215E via la damma e via la capriola
Salta per macchie e per fossati vola.
Solo il cinghial non pave, e torvo appare
Ad empier d’ alta strage la foresta.
Par vorago la bocca, il guardo pare
220Foco gittar dalla pupilla infesta.
Timore agghiaccia, e fa ognuna tremare
Sì, che al leggero piè le penne appresta;
Sola Rodia non torce i franchi passi;
Già il verro ha giunto, già l’ affronta e stassi.
225Stassi immota da forte, chè desira
La difficil vittoria. Il dardo incocca,
Curva il grave lento arco, il nerbo tira;
Lo stral ferrato libera la cocca,
E infallibile fêre ov’ ella mira;
230Chè man sacra a Dïana invan non scocca.
Fuggía sì certo quello stral superbo,
Che chi ’l vide gridò:--Spento è l’ acerbo.--
Ma invano; chè nel volo al dardo tolse
Venere il ferro onde piagando passa,
235E al cinghial giunse nella fronte, e il colse
La freccia dell’ acuta punta cassa.
L’ ira s’ accrebbe al fero, e il corso sciolse
Come veltro che uscisse allor di lassa,
E arrivò lei, che col braccio gagliardo
240Fea grave il nerbo d’ un secondo dardo.
Ahi come il crudo verro in lei ruina,
E addenta e squarcia il caro corpo esangue!
Come i biondi capelli e la divina
Fronte si sparge di tiepido sangue!
245Come sul verde prato la supina
Fanciulla cade, e in che bell’ atto langue!
Pari a giglio succiso dal bifolco,
Che piega il capo e muore in mezzo il solco.
Fuggìano intanto per l’ alpestre calle
250Le cacciatrici sbigottite e smorte;
Nè veggendo venir Rodia alle spalle,
Si furo un tratto del lor danno accorte;
Onde pur tutte per la muta valle
- Rodia, - s’ udiano, - Rodia, - gridar forte;
255E - Rodia, Rodia - dal lontano speco
Pietosamente ridicea sol l’ Eco.
Non risponde la Ninfa ai colli intorno,
E in maggior pieta ognuna il viso pinge;
E perchè omai dechina e muore il giorno,
260Più presta e ansante a ricercar s’ accinge
S’ orma pur vegga del bel piede adorno,
Siccome tema e amor la sforza e spinge;
Finchè vider tra i fiori, e fra la tinta
Erba di sangue, la fanciulla estinta.
265Il velo che già cinse il forte fianco,
Co’ dardi ivi giacea di sangue intriso;
Ivi posar pareva il corpo stanco
Dal pellegrino spirito diviso;
Pallido no, ma più che neve bianco,
270Senza l’ usata luce era il bel viso;
E l’ atto delle labbra tristo e pio
Parea dicesse alle compagne:- Addio. -
Strette le donne, e percotendo il petto,
Con voce rotta d’ angoscia e di pianto,
275Su la spiaggia atterrate, il tristo affetto
Incominciaro a disfogar col canto.
N’ addoppiava la doglia il zeffiretto,
Che tra i pallidi fior facea compianto;
E ’l dì che se n’ andava, e l’ aria bruna
280Non lieta ancor del raggio della Luna.
Dov’ ito se’,- diceano, -o peregrino
Spirto, e lasciate n’ hai disfatte e sole?
Quanto ha il suol di soave e di divino,
Tutto al gir di costei par che s’ invole!
285Ahi dispietata belva! ahi rio destino!
Come in un punto s’ è oscurato il Sole!
Ah piangi, ah piangi, trista selva, omai;
Caduta è la tua gloria, e tu nol sai!
Fonti, piangete, e suoni di lamenti
290La valle e ’l monte, or ch’ ogni ben n’è tolto.
Tu, morte acerba, i più begli occhi hai spenti.
Hai scolorato il più leggiadro volto;
Posto hai silenzio a que’ soavi accenti
Che avríeno i fiumi dal lor corso vôlto.
295Chi non piagne per lei, cui non si spetra
Per doglia il côre, ha ben il côr di pietra.
Delle vergini o tu madre e reina,
Vedi lo strazio della tua diletta.
Nostra doglia soccorri: al suol t’ inchina
300E fa di noi, anzi di te vendetta.
Stringi la tua faretra, e la divina
Mano, che nunque invan vibra saetta.
La belva ancida dispietata e fella,
Che scempio fe della tua forte ancella.
305Lei non rammenti, o pia Partenia Diva,
Che tante volte ti recò il grand’ arco?
Lei che sovente, ai noti fiumi in riva,
Ti togliea dalle spalle il grave incarco?
Poi teco si bagnava all’ acqua viva?
310Teco riedeva delle belve al varco?
Sciogliea per te di tua quadriga il freno.
Quando scendevi a noi dal ciel sereno?
O sia che Giove in ciel ti faccia invito,
E tu t’ assida alla gran mensa d’ oro;
315O sia che in Delo all’ onorato lito
Ti posi all’ ombra del fraterno alloro;
O sia tu scesa al livido Cocito
Ad allenar l’ eterno aspro martoro;
Volgi, o triforme Dea, lo sguardo santo
320A noi meschine e tergi il nostro pianto.
Movi propizia, e a quello spirto degno
Chénati, come Amor ti riconsiglia;
Teco l’ adduci al tuo celeste regno,
E l’ aggiungi de’ Numi alla famiglia;
325Nè sarà forse a ministrare indegno
U’ fu repulsa di Giunon la figlia.
Lume del ciel, nostra possanza ed arme,
Salve Dïana, e intendi al nostro carme.--
Ma si taccion le donne, e il suol s’ asconde
330Sotto il notturno umido manto ombroso,
E sol s’ ascolta in fra le negre fronde
Gemer lo gufo in metro ai cor gravoso;
Nè augello alcuno a’ lai lunghi risponde,
Ma tutto è queto il bosco e tenebroso;
335Se non che veggio alquanto di sua fronte
Metter la Luna alla cima del monte.
I’ ti saluto, o figlia di Latona,
O dolcissima luce di Dïana;
Cara la mortal prece al côr ti suona,
340Nè di chi t’ ama la speranza è vana.
Già movi amica, come amor ti sprona,
I danni ad emendar della villana
Morte; e n’ allegri di quel tuo splendore
Che dona pace, e intenerisce il côre.
345Una tenera nube ecco dal cielo
Si parte, e vien quasi per l’ aria a nuoto,
E cinge il morto corpo, e gli fa velo
Denso e lucido sì, che a nullo è noto;
Si stan le ninfe con pietoso zelo
350Quete, attendendo che si compia il voto;
E ognuna il côr di dolce speme bea,
Contemplando il mistero della Dea.
Ma già la nube squarciasi e lampeggia,
Ratta volando alla spera celeste;
355Ed è che un grato e lieto fior si veggia
Ove giacean le care membra oneste.
Neve non tocca il suo candor pareggia;
Di smeraldo lo stel tutto si veste;
E dalle spine, ancor ritrosa e bella,
360Sembra tacendo dir:- Fui verginella. -
Salve, o di Rodia nato, amico fiore;
Cresci omai, e con l’ alma tua bellezza
Empi la selva di novello onore,
E vinci ogni altro, quale più si apprezza
365Di te le Grazie, di te solo Amore,
Tessendo ghirlandette, abbian vaghezza;
Di te pastori e ninfe innamorate
Amino avere e seni e tempie ornate.
Giorno verrà che piena avrai vendetta
370Per quella Diva di che fosti ancella,
Che il côre pugnerà d’ aspra saetta
A colei che nel ciel vanto ha di bella.
Spenta vedràssi altra beltade eletta,
Ed altro sangue verserà la fella
375Belva; e la Dea ond’ or t’ avesti danno
Mercede pagherà di lungo affanno.