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Introduzione
Chi assiste per qualche tempo ad una serie di processi criminali e ne segue l’esito nelle carceri e nelle statistiche, con meraviglia osserva un cumulo di giudizi e fatti contraddittori che si alternano con perpetua e triste vicenda. Da una parte il giudice, astraendo quasi sempre il reo dal reato riguarda spesso il crimine come un aneddoto, un incidente della vita dello sciagurato suo autore, incidente che non ha nessuna ragione per doversi ripetere; dall’altra costui, colla rarità del pentimento, colla continua recidività, che va fino al 30, al 55, al 80 per cento, colla costante ricorrenza a dati periodi solari, si da cura di mostrare il contrario, con troppo danno e dispendio della società, e disdoro di questa povera giustizia che riesce, infine, spesso ad un giuoco di schermaglia contro il delitto recidivo e trionfante. E mentre tutti coloro che ebbero contatto diretto coi rei, come i membri della loro famiglia, i direttori delle carceri, li giudicano uomini differenti dagli altri e di mente debole o quasi alienata e mai o quasi mai suscettibili miglioria; e mentre gli alienisti trovano in molti casi impossibile lo scindere, con taglio reciso, la pazzia dal delitto, il legislatore invece spesso non si dà inteso delle ardite affermazioni di questi, né delle timide obbiezioni degli ufficiali carcerari; crede rarissime, nei rei, anzi eccezionali, le alterazioni del libero arbitrio, e spesse volte, almeno anni fa, riputava l’emenda uno dei più grandi scopi della sua terrestre missione, e stabiliva i suoi criteri legali, partendo da linee recise, inflessibili, non ammettendo alcuna gradazione fra la mente sana, l’alienata e la colpevole. — Quanto al volgo e al giurato, che rappresenta il volgo, ma purtroppo un volgo armato e potente, ei si ride degli unì e degli altri, e badando più che ai dettami della scienza, a quelli del cuore, ritorna spesso a quella, che era la primitiva giustizia, alla vendetta sociale, e quanto più strano e feroce è il delitto e maggiore del dubbio il raccapriccio, più sicuramente e fieramente colpisce. La causa di queste continue discrepanze è appunto molteplice. — I legislatori, i filosofi, uomini d’animo integerrimo e nutriti alle speculazioni più sublimi della mente umana partono. a giudicare l’animo altrui dal proprio; riluttanti al male quasi fin dalla nascita, tali credono tutti gli altri, né vogliono, né potrebbero calare dalle regioni superbe della metafisica nell’umile terreno delle case penali. Quanto al povero giudice del fatto ei soccombe assai naturalmente a quella preoccupazione momentanea, comune a noi tutti nei casi della vita, i quali ci sorprendono, così, pel loro vivo, istantaneo interesse, da non lasciarci intravedere la connessione che li stringe alle leggi generali della natura. A me parve, é non a me solo, ma anche e ben prima di me a Hàltzendorf, a Thompson, a Wilson, a Beltrami-Scalia, a Despine, a Prinz, ad. Heger, a Lisz, che a riconciliare tante discrepanze a decifrare se l’uomo delinquente appartenga alla cerchla dell’uomo sano, dell’alienato o ad un mondo suo proprio, a riconoscere se vi è o no una vera necessità naturale del delitto, meglio giovi abbandonare le sublimi regioni delle teorie filosofiche, come le indagini passionate sui fatti ancora palpitanti e procedere invece allo studio diretto, somatico e psichico, dell’uomo criminale, confrontandolo colle risultanze offerte dall’uomo sano e dall’alienato. Il frutto di queste indagini è raccolto in questo lavoro.
Pavia, 1876.
Cesare Lombroso