< L'uomo delinquente < Parte prima
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CAPITOLO I.Il delitto e gli organismi inferiori
Introduzione Parte prima - II

1. Le apparenze del delitto nelle piante e negli animali. — 2. Il vero equivalente del delitto e delle pene negli animali. — 3. Conclusione.


Dopo che d’Espinas applicò lo studio della zoologia alle scienze sociologiche, Cognett alle economiche e Houzeau alle psicologiche, era naturale che la nuova scuola penale, la quale tanto si giova dei moderni studi sulla evoluzione, ne cercasse le applicazioni alla antropologia criminale e tentasse anzi farsene il primo fondamento. Infatti, a un mio primo tentativo in proposito seguì subito un altro di Lacassagne (De la eriminalité chez les animaux), e uno studio che si potrebbe dire quasi completo del Ferri (Dell’omicidio), che ne confermano l’importanza. I vecchi giuristi parlano di una giustizia divina ed eterna, quasi inerente alla natura; se invece diamo uno sguardo ai fenomeni naturali vediamo che gli atti reputati da noi criminosi sono anch’essi completamente naturali, tanto son diffusi e frequenti tra gli animali e perfino nelle piante: « porgendoci la natura », come ben disse Renan, « l’esempio della più implacabile insensibilità e della più grande immoralità ». Molte e interessanti furono le osservazioni che dopo Darwin si fecero da Drude, Koln, Rees e Vili sulle piante insettivore, cioè In quelle specie di Droseracée, di Saracenacee, di Nepentacee, di Utriookirie, nonché nel Cephalotus fotllcularis, che commettono delle vere uccisioni sugli insetti. E già solo per le uccisioni il Ferri nel suo Omicidio ha potuto distinguere (pag. 9), a seconda delle cause, 22 categorie di uccisioni tra animali della stessa specie, le quali hanno una rispondenza perfetta nell’eziologia del delitto umano. Vi sono anzitutto uccisioni determinate dalla lotta immediata per l’esistenza, o e per la ricerca del vitto, che da luogo a lotta tra maschi e femmine nel tempo degli amori; per il comando dello stuolo che tra i ruminanti spetta alle vecchie femmine senza figli e nelle scimmie ai maschi, che però devono lottare tra loro per conquistarselo. — Le api non hanno che uno sola regina che, se il caso, ne fornisce poche, queste sono uccise. E così è messa a morte la vecchia regina, che non ebbe ancora il tempo di sciamare, quando sta per nascere la sua rivale la vecchia sovrana allora, racconta il Buchner, fa per sua parte tutti i tentativi per rendere impossibile l’innalzamento al trono della rivale, e precipitandosi nelle celle che racchiudono le regine-larve, le trafigge e ne uccide le abitanti. — Così Darwin, (Scelta sessuale, 472), racconta di due buoi che aggredirono concordi il vecchio duce della mandria, il quale poi si verificò più tardi di uno dei suoi assalitori che trovò isolato. E sono ben note le lotte accanite dei maschi per il godimento delta femmina, su cui Darwin fondò il principio della scelta sessuale. Inoltre, anche certi istinti utili alla specie possono pervertirsi; accadono infatti uccisioni per amore, per affetto materno, come in certi uccelli, i quali secondo quanto racconta il Brehm nella sua Vita degli animali, uccidono i pulcini dei vicini per far star meglio i propri; o per difesa; o per utilità comune, come l’uccisione già accennata delle api sulle regine non necessarie e dannose; e persino per punizione: un concetto che anche negli animali ha tanta influenza, che vi abbiamo fondato sopra il sistema di addomesticamento e di ammaestramento.

2. Ma pure il solo annunciare che reputiamo delitti coteste uccisioni, e così pure il furto con destrezza e per associazione nelle scimmie, il domestico nei gatti, il ratto di minori nelle formiche rosse, la sostituzione d’infante, nel cuculo, che mette l’uovo nel nido dei passeri, sottraendovi qualcuno dei suoi per meglio ingannarti, parrebbe poco serio, perché è ovvio comprendere come codeste azioni che a noi paiono misfatti, sono invece effetto necessario della eredità, della struttura organica o imposte dalla concorrenza per la vita (Uccisione dei pecchioni); della scelta sessuale, dalla necessità sociale, per impedire discordie (uccisione dei capi), o dal bisogno di alimento in animali voracissimi, lupi, sorci, e dalle consecutive guerre che li fanno somiglianti a noi quando ci battiamo col nemico o quando mangiamo polli o buoi senza ombra o sospetto di essere incriminati. Ma essi giovano a mostrarci l’inanità del concetto della giustizia assoluta e porgerci già un primo amminicolo a spiegarci il sorgere con sì perpetua costanza delle tendenze criminose, anche in mezzo alle razze più incivilite e con forme che ci fanno ricordare le più tristi fra le specie animali e a spiegarci perché nelle epoche antiche, che erano forse più logiche delle nostre, si combinassero in tutta forma gli animali nocivi o poco rispettosi delle cose che l’uomo reputava sacre. Ma al di fuori di questi delitti — che non si possono chiamar tali perché si riferiscono a istinti generali nella specie - troviamo negli animali delle azioni propriamente dovute a una speciale perversità individuale, che il nostro Codice penale chiamerebbe «di prava malvagità». Casi di questo genere sono stati osservati specialmente e coi più facilità negli animali domestici, dei quali alcuni, dice il Pierquin, sono presi a volte da in furore battagliero che nulla può spiegare. Il cane, ad es., ne offre frequenti esempi. Gali racconta di in barbone, che malgrado fosse nutrito abbondantemente, cercava dappertutto nelle strade l’occasione di combattere, rientrando sempre a casa coperto di ferite; tra gli elefanti narra il Brehm che i rogues, individui di maligna indole, espulsi dallo stuolo, son costretti a vivere da soli e diventano sempre più perversi. Vi sono, dice ancora il Pierquin dei canarini con tendenze così feroci, che rompono e mangiano le uova appena le femmine le hanno deposte o, se i pulcini riescono a nascere, li prendono col becco, li trascinano via e li uccidono. Tutti i padroni di serrargli hanno osservato che di parecchi animali della stessa specie, alcuni sono buoni e addomesticabili, altri sono sempre ribelli ad ogni metodo o cura educativa; e il medesimo mi diceva il prof. Foà dell’animale più mite che vi sia, a conclusione di tutte queste analogie, che negli animali ritroviamo dei delitti veri e propri; perché alle varie azioni sin qui enumerate noi non possiamo associare, senza cadere in un assurdo antropomorfismo, una qualsiasi idea morale di responsabilità e di colpa. Eppure, nel Medio Evo sì son fatti processi agli animali (D’Addosio), che se commettevano qualche delitto erano incarcerati e giustiziati: s’intentavano processi civili contro i bruchi che avevano invaso un campo, a richiesta del proprietario, con citazioni agli animali, difensori, discussioni fatte in base alle Pandette, sentenze, intimazioni: tutto l’armamentario giuridico, insomma, sfoderato contro bruchi, farfalle, lumache, ecc., ammettendo in loro quella libertà e volontà di delinquere che oggi sono il presupposto dei nostri sistemi penali. Ora, per quanto voglia affaticarsi nelle distinzioni chi crede ad un distacco profondo, fisico e psichico, tra gli animali e l’uomo, tutto porta invece a far ammettere, nello stadio attuale delle nostre conoscenze che vi è una continuità, un passaggio insensibile da molti di quegli atti dei bruti a quelli che nell’uomo chiamiamo criminali. Anche negli animali, infatti, essi sono manifestazioni pure e semplici dell’istinto, connesse strettamente alla loro natura stessa, dipendenti direttamente dalla loro organizzazione; la perversità che fa commettere questi atti è una tendenza tutta personale a dati individui anormali, ignota agli altri della stessa specie che rifuggono dalle uccisioni, dai furti, ecc., contro i loro simili; e anche in tal caso essi dipendono da una particolare struttura organica, che passa in atto per una folla di quegli stessi motivi — amore, cupidigia, vendetta, ecc., che influiscono anche nella genesi del delitto umano; ed hanno le stesse forme di violenza, d’insidia, di collettività che nell’uomo: e sono, spesso come in questo, seguiti talora da una reazione punitiva. Pertanto il delitto non è una manifestazione esclusiva degli uomini, ma è un fenomeno naturale che si verifica anche nel mondo organico inferiore, sia animale che vegetale, sempre connesso sin dalle sue prime manifestazioni alle condizioni dell’organismo, delle quali è un effetto durevole. È un fatto però che noi colle pene riusciamo modificare in certi animali alcune abitudini, non tutte però, e non in tutti. Noi tentiamo sviluppare la moralità animalesca che in gran parte consiste nel darci il massimo profitto con minimo danno, adoperando ora mezzi crudeli ora subdoli. Allen racconta che per liberarsi delle scimmie che gli avano continuamente lo zucchero, prese una nidiata scimmiottini, li spalmò di zucchero e ci emetico. Tornati ai loro nidi le madri li leccarono e dopo stettero assai male, il ché le persuase a non tornar più alle piantagioni. Ferri racconta che in modo analogo si liberò di un cane che lo importunava. Ma vi hanno animali, osserva il Brehm, in cui neanche le pene più atroci possono sradicare certi istinti, così avviene dei gatti, che nessuna pena può spesso convincere di non rubare. Il Brehm nota che fra le scimmie mentre colle minacce e colle pene tutto si ottiene dai babbuini, niente si ottiene dai cinocefali. A proposito delle pene, una osservazione accurata ha dimostrato che alle volte si ottiene coi buoni trattamenti o con misure indirette ciò che non si ottiene colla forza, soprattutto col premio. Già da molti anni Lessona notava come coi cavalli più si ottenga cogli stimoli e coi premi che coi mali trattamenti. Tutto ciò conferma già nel mondo animale la utilità delle pene e la possibilità di ottenere effetti più utili con mezzi meno brutali — coi preventivi di cui parleremo nell’ultima parte.

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