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Che Beatrice fosse una donna vera e reale, e non una creatura fantastica, risulta chiaramente dal XXX e XXXI libro del Purgatorio, e precisamente da questi versi:
Quando da carne a spirto era salita
E bellezza e virtù cresciuta m’era
Fu’io a lui men cara e men gradita; [...](1 Purg., XXX, 127-129)
e da questi altri:
Mai non t’appresentò natura ed arte
Piacer quanto le belle membra, in ch’io
Rinchiusa fui, e ch’or son terra sparte. (Purg., XXXI, 49-51)
Che questa Beatrice fosse figlia di Folco Portinari si deduce esattamente da molte circostanze notate nella Vita Nuova e nel Convito; e viene sicuramente affermato dagli antichi biografi del Poeta.
Folco Portinari, uomo assai orrevole fra’ cittadini, come dice Boccaccio, ebbe a moglie donna Cilia di Gherardo dei Caponsacchi.
Le sue case alzavansi presso a santa Margherita, poco discosto da san Martino del Vescovo, dov’erano e son tuttora quelle degli Alighieri.
Ricco e cospicuo fra’ cittadini, egli ben meritò della carità pubblica facendosi fondatore di quell’ospedale di Santa Maria Nuova, nella cui piccola corte, che separa la chiesa dall’ospedale, si vede tuttora il busto marmoreo di una fantesca del Portinari, alla quale si attribuisce il merito d’avere ispirato al suo signore quella istituzione filantropica.
Ma, più che per la carità di quell’opera, egli dovea ben meritare degli uomini per aver data la vita a quella donna, che ispirò con sua virtuosa bellezza il più grande di tutti i nostri Poeti.
Beatrice, o Bice, chè così la chiamavano molti i quali non sapevano che si chiamare, nacque in Firenze verso la metà del 1266, ed era perciò d’un anno minore di Dante.
A giudicare dalle testimonianze dell’amante poeta e dalle asserzioni del Boccaccio, ella era di quelle bellezze gracili e delicate, che rivelano, anche prima del tempo, le più dolci attrattive del sentimento: esili fiorellini che il più lieve sospiro fa mollemente ondeggiare sul gambo flessuoso, nati fatti per rallegrare un istante le aure della loro fragranza modesta, e destinati a morire precocemente.
Certo, nei fanciulleschi ritrovi, nelle feste disordinate e chiassose dei bambini della sua età, Beatrice non brillava per quella vivacità irrequieta, per quell ’argento vivo addosso, che rende tanto cari e in certi casi tanto insopportabili quasi tutti i fanciulli: essa, a dire del Certaldese, era leggiadretta e piacevole molto, con costumi e parole assai più gravi o modesti che il suo picciolo tempo non richiedeva; avea le fattezze del volto delicate molto e ottimamente disposte, e piene, oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi un’angioletta era reputata da molti.
Fu opinione di alcuni, che Beatrice, non escita ancora di puerizia, perdesse i genitori.
Che avesse, da bambina, perduta la madre, è probabile. Dante, che s’interessò con puerile e pur carissima religione a tutti coloro e a tutte quelle cose che aveano la fortuna di trovarsi vicino alla donna sua, non ci parla mai della madre di lei; anzi, quella circostanza segnata nella Vita Nuova, cioè, che la Bice andava spesso in compagnia di donne attempate, e di questa compagnia si compiaceva più che delle coetanee, può indicarci come la fanciulla, perduta la madre, fosse dal genitore affidata alla custodia amorosa di chi le ne potesse fare le veci.
E la mesta precocità nei costumi e nei modi della Beatrice è molto propria, chi ben osserva, alle fanciulle che hanno la sventura di rimanere orfanelle; giacchè le carezze della mamma protraggono dolcemente la puerizia nostra, e ci tengono in quella spensieratezza di noi e di tutto, nella quale risiede forse l’unica possibile felicità, e che certo costituisce la più bella età della nostra vita.
Quanto a Folco, egli è fuor di dubbio, che viveva ancora nel gennaio del 1287, quando cioè la Beatrice, non solo non era più bambina, avendo toccato i ventun anni; ma neppure ragazza, essendo maritata ad un messer Simone dei Bardi, cavaliere di antica ed illustre prosapia. Secondo il Pelli, che cita un testamento del Portinari, in data del 15 gennaio dell’87, e in cui si fa cenno della Beatrice maritata al Bardi, la morte di Folco sarebbe avvenuta l’ultimo giorno dell’89, anno memorabile per la battaglia di Campaldino, la presa di Caprona, la tragica fine del conte Ugolino e di Francesca da Rimini.
Comunque sia, il matrimonio, non fatto certamente per quelle creature delicate, trasparenti e quasi eteree, le quali, anzi che donne, sembrano anime e sentimenti visibili, la perdita del padre, e chi sa? forse anche la cura solitaria e secreta d’un amore che non ardiva confessare a sè stessa, consumarono la gentilissima complessione della Beatrice.
La quale si ridusse in breve a tal partito, che non la si potea guardare senza dolorosamente pensare alla morte.
Il veder lentamente, e dirò così a goccia a goccia, disfare la vita della donna amata, e il più gran supplizio che possa infligger la natura ad un’anima gentile.
Vedere assottigliare sempre più, come una piccola face che manchi dell’alimento, l’esistenza carissima di una donna a cui tutta è legata la trama dei nostri destini, e non esser buoni con tutta la potenza del nostro amore ad impedire il disfacimento e la morte di lei, e qualcosa di così terribile, che mentre ci dispera, ci umilia.
L’amore, che nei momenti delle nostre più belle illusioni abbiamo creduto onnipossente operator di miracoli, ci si cambia a un tratto in una larva impotente ed inutile: la grande e fredda fatalità delle leggi naturali, posta di fronte alla nostra debolezza e al nostro impotentissimo amore, uccide tutto il nostro orgoglio in un punto; ci porta a disprezzare noi stessi.
L’uomo che nel pieno vigore delle sue forze si confonde in un amplesso di tutta l’anima e di tutto il corpo con la donna che ama, è assai più che Dio: crede poter schiacciare l’universo e crearlo poi di nuovo più bello, più sereno, più luminoso, ad immagine dell’anima sua riboccante di speranze e d’amore.
L’uomo che vede struggere lentamente l’esistenza della donna diletta, e non può spirare nelle viscere amate insieme ai baci la salute e la vita; che non può dividere in due l’anima sua per darne a lei la miglior parte, e, dinanzi a se stesso, assai meno che uomo: la potenza del suo amore è un’amara ironia; egli ha le forme d’Ercole e la forza di un eunuco.
Il suo supplizio somiglia a quello di quei poveri martiri che la crudeltà raffinata dei nemici condannava a morire di dolore e di fame legandoli strettamente al cadavere d’un’amata persona.
La bellezza d’una donna giovane, consumata da un morbo fatale ed occulto che la divora, ha una potente e misteriosa attrattiva: fa sentire la vita e la morte ad un tempo, la voluttà del momento e la paura dell’eternità: ha la vertiginosa attrattiva degli abissi.
Dante non poteva non sentir tutto questo. Il presentimento della morte di Beatrice gli s’affaccia nell’anima, e lo atterrisce. Infermo e giacente nel letto dei suoi dolori egli non s’affligge di sè: pensa quanta sia deboletta la vita, quanta leggero lo suo durare, e comincia a piangere fra se stesso di tanta miseria e a sospirar forte e a dire disperatamente: « Di necessità conviene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia!».
E in questo pensiero chiude gli occhi, e si travaglia come farnetica persona, ed immagina di vedere il cielo e gli angeli e la sua donna assunta alla gloria del paradiso, che non avea altro difetto, che di aver lei.
La lugubre visione del Poeta si avverò di li a breve, pur troppo! La povera Beatrice morì nella prima ora del dì 9 giugno 1290.
Visse ventiquattro anni sulla terra, e vivrà immortale nell’arte.