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OSLAVIA
Stavamo allora, a riposo:
si era appena finito
un turno di trenta giorni,
attendati dentro Medana,
felici, perchè l'azione
se la facevano gli altri,
ed anche, perchè era il caso
di pensare a mille cose:
forse qualche pastora,
qualche donna,
— c'erano donne a Medana,
magari di cinquant'anni —
qualche fiasco di Ruffino,
e intanto poteva finire,
mentre gli altri attaccavano il monte.
Si vedeva in lontananza,
fumando placidamente
la pipa o mezzo toscano,
così come un colonnello
d'alto stato, o un generale,
le fiamme sul Sabotino,
le vampe sul Monte Santo,
e il vent'uno del mese di ottobre
le fanterie all'assalto.
I cannoni nostri sparavano:
tutti i nostri 65
e qualche 210.
Si sentivano le mitraglie
che cantavano da lontano:
certamente questa volta
si pensava, andiamo a Gorizia.
Ma il giorno ventitré
arriva il bollettino:
«Respinti su tutta la linea,
bisogna rifare l'azione!»
E Il giorno ventiquattro
ci dissero:
«Andiamo a Cerovo,
andiamo per essere pronti
a presidiare Gorizia!»
Le truppe non tremarono;
bestemmiarono tutti i Santi,
si raccomandarono a Dio,
e fatto zaino in spalla,
uno intonò la canzone:
— canta che ti passa —
«addio Medana bella,
addio Marianca mia,
stavolta non c'è scampo;
la Buffa parte via!»
***
E il giorno venticinque
andammo oltre Cerovo,
e infine, il ventisette,
s'inizia l'ultima marcia.
La notte, senza strade,
la via del Sabotino,
attaccati l'uno all'altro,
la nostra colonna saliva,
intralciata dai battaglioni
cui si andava a dare il cambio.
27!... 33!...
Com'è andata?…
Nessuna risposta!
Ogni tanto una bestemmia!
Si beveva l'acqua dei fossi.
Finalmente al primo chiaro,
una voce, come di Dio,
finalmente: «Zaini a terra!»
«Qui c'è l'acqua»,
«Qui c'è il fango»,
ma nessuno pensa alla vita,
e ciascuno, silenzioso,
si assopisce inebetito.
Ma ad un tratto una voce tagliente:
«Il rotolo! il tascapane!
I viveri di riserva!
Lasciamo gli zaini a terra!»
Ancora le bestemmie
incrociate dalle voci:
«Lo zaino»!... «Le scatolette»!...
«Le coperte»!... «Le cartucce»!...
«Le baionette in canna»!
Si sale i plotoni per uno.
***
A nord della montagna
attaccavano i toscani,
senza neanche parlare:
non parevano fiorentini!
Attaccavano come il vent'uno,
sulla medesima via,
glielo dicevano i morti,
lasciati in collegamento.
Del resto anche gli austriaci
— si attaccava sempre in un posto —
ci voleva davvero poco,
lo avevano capito,
ci battevano furiosi
coi cannoni e la mitraglia.
Il colonnello Bonamici pensava:
«Devo uscire?»
Anima di ufficiale,
pensava ai suoi soldati.
Ma il generale Trombi,
la rivoltella in pugno,
gli disse:
«Colonnello!
C'è l'ordine d'attacco!»
E il colonnello grande
come un granatiere,
gridò, con una voce
che spaccava la montagna,
l'avanti al battaglione;
uscì dalla trincera,
e cadde colpito in fronte,
appena fuori del varco.
Ma il generale Trombi
piccolino, tutto nervi,
continuò la sua via:
«Avanti! Avanti! Vigliacchi!»
Gli disse un suo ciclista:
«Quel soldato non si imbosca;
è morto, generale!»
Ma il generale Trombi
continuò la sua via,'
fuori delle trincere
come un caporale:
quel giorno restò vivo;
morì, mi dissero, dopo,
sotto il Lenzuolo Bianco,
portando i plotoni all'assalto.
Anche il mio colonnello
tremava per i soldati,
tremava, perchè vedeva
che poco si combinava.
La barba brizzolata,
alto, un poco curvo,
montanaro piemontese,
in piedi, allo scoperto,
dette la voce:
«Avanti! Brigata Lombardia!»
Noi eravamo al centro,
arrivammo a mala pena
sotto le trincere
tenute dal nemico.
***
Il mio attendente Marchese
mi disse: «Spirante Barni,
aggio truvata 'na buca,
'nu fifausse proprio scicche.
Vieni appresso ammè!»
Non lo sentii nemmeno:
guardavo a capo scoperto
oltre i massi rocciosi,
guardavo dentro Gorizia
le batterie nemiche
che i nostri non battevano,
chè Gorizia era italiana.
Un soldato tra le mie gambe,
colpito da un bossolo intero
che gli aveva portato via
mezzo chilo di carne
dalla gamba destra,
gridava ai suoi compagni
che gli arrestavano il sangue
«Amici, ho salva la ghirba.
Amici, amici coraggio!
Io vado all'ospedale!»
***
C'erano molti morti
della brigata Firenze:
la sera restammo pochi
sul Monte Sabotino.
Ma Vennero i granatieri,
i fanti prolungati,
dal sud della montagna;
Venivan disciplinati
come soldati di piazza.
Gli ufficiali studentelli:
«A destra, a sinistra stendetevi!...
a tanti e tanti passi!»
proprio così come a Modena —
ai fanti del fango di Peuma,
del fango di Podgora
sembravano coscritti.
La notte restammo pochi,
sul Monte Sabotino,
la notte stemmo fermi.
Udivo il brusio delle voci:
«Dov'è la mia compagnia?»
chiedevano i dispersi.
«Mamma, mamma mia...
Mamma!... portaferiiiti»!...
Il mio portaferiti
voleva curare i suoi,
quelli del suo plotone.
Gli dissi:
«Cura anche gli altri!»
Mi disse:
«Non ho più cotone».
Gli detti la mia camicia.
La notte ancora... «feriiiiti»
«Mamma, mamma mia!»
Lo scoppio delle granate!
La voce del Sabotino!
Udii ancora un'ultima volta:
«Chi va là?» - con voce maschia.
Poi più nulla: mi prese il sonno.
***
A notte mattutina,
venne l'ordine di rientrare:
scendemmo ch'era già l'alba,
la furia s'era calmata.
All'alba rompemmo le righe:
soldati ed ufficiali
sui sassi, stesi a terra,
all'addiaccio come i muli.
Non era passata un'ora:
nuov'ordine di battaglione.
Il capitano Oggiani
mi disse:
«Bisogna riandare!»
Bisogna riandare ancora...
dove eravamo arrivati
il giorno prima, perdendo
interi battaglioni!
Che dire a quei soldati?...
«Adunata... per l'assalto!»
Stentavano a levarsi,
i sergenti mormoravano,
i soldati mi guardavano,
come il loro carnefice.
lo non dicevo nulla!
Cosa, potevo dire,
volontario della mia morte
che non volevo la loro?
Ma vidi allora tra i ranghi
il mio attendente Marchese;
gli chiesi, tanto per dire:
«Dimmi, patatone!
dove sei stato da ieri
che non t'ho visto un momento
durante tutta l'azione?»
Mi rispose il soldato Marchese,
ridendo, mostrando i denti
della sua bocca nera:
«Spirante, songo state
tutto 'o tiempo appriesso a te,
e quando hai detto ai soldati:
«Avanti, avanti ragazzi...
ancora trenta passi!
Spirante, me si sembrato
proprio 'nu capetano!»
Io risi, e quell'uscita
mi mise in allegria;
io risi e dissi ai soldati:
«Vedete sto patatone,
se lascia la pelle lui,
vi giuro me ne fotto,
ma mi dispiace per voi!
Io non so dirvi altro...
E poi... non ci badate,...
forse, nemmeno si va...
si muore anche nel letto...
in fondo, siamo giovani:
la prima pallottola a me!…
Non ci pensate, ragazzi...
lasciate che il mondo dica:
«Evviva, evviva la .....!
E i soldati sorrisero,
e quando i soldati ridono,
son buoni: non sanno ridere
che con il cuore sincero,
così come quando cantano.
***
Ci sedemmo tutti quanti:
agli altri toccava di uscire,
a due altre compagnie,
a noi la terza ondata.
Ormai, speranze inutili
nessuno più le aveva:
si era rassegnati
a fare quattro salti,
e si aspettava la morte,
o meglio, non si aspettava
neanche più di morire,
proprio così come te,
che leggi questo giornale.
Ma in quella arriva di corsa,
a turbare il nostro coraggio,
l'aiutante maggiore in 2ª,
seguito da quattro ciclisti.
Ci dice, la voce rotta:
«Ragazzi, a posto! alle armi!
pulitevi le scarpe!
Arriva il generale!»
E impallidimmo tutti,
ci toccammo le stellette:
qualcuno meno istruito
si fece la Santa Croce.
E venne il generale Fara,
arrivò sulle trincere:
voleva vedere i soldati
partire all'assalto del monte;
ma uno shrapnell di Dio
lo prese leggermente,
credo sia ancora vivo,
e... così Iddio l'aiuti!
Fu lui che ci ha salvata
la Vita a tutti quanti;
mentre si stava uscendo,
arrivarono i ciclisti:
«L'assalto per oggi è sospeso!»
***
La sera del ventinove,
si stette tutti a dormire,
faceva tanto freddo
dentro la Valle di Dol;
e il trenta ottobre salimmo
la via del nostro ritorno:
facemmo la via del mulino
e il ponticello di legno.
Ma giunti che fummo a Snezatno,
ci spostammo su Valerisce,
la brigata Pistoia, mi pare,
attaccava ancora il Podgora.
Noi si stava di rincalzo,
era freddo, senza mangiare;
s'aspettavan le marmitte
e arrivavano le granate.
Seduto in mezzo alla pioggia,
parlavo con i soldati:
dicevamo della guerra,
se si doveva fare...
che c'erano gli imboscati...
e se si ritornava,
allora appena, allora...
Ogni tanto li interrompevo:
dicevo del dovere
che aveva ogni soldato,
di obbedire silenzioso
di servire il suo paese;
dicevo che c'era un trentino
che si chiamava Battisti,
che c'era un romagnolo,
Benito Mussolini;
che una volta avevo una casa
una mamma, una ragazza;
e ancora che c'era Trieste
più bella di Gorizia.
E i soldati mi ascoltavano,
come i bimbi il cantastorie,
qualcuno la bocca aperta,
ed altri gli occhi socchiusi,
lentamente, s'addormentava
sognando un focolare
per riscaldarsi le ossa,
o per fumare la pipa,
e tante faccie care,
sedute tutte all'ingiro,
che parlavano delle vacche,
dei cavalli e del «ricolto».
Così passavano le ore
in mezzo alla pioggia d'autunno,
aspettando qualche cosa
che nessuno sapeva dire.
***
Gli artiglieri dissero a sera:
«Abbiamo l'ordine di
[allungare!»
E allora noi ci movemmo;
gli zaini sopra le spalle.
Era una marcia terribile,
in mezzo a convogli pesanti
che portavano munizioni;
ogni tanto un alt! senza tempo,
le bestemmie dei conducenti,
un alt! perchè la strada.
era ingombra di cavalli.
Una corsa e... ancora fermi,
e un'altra corsa ancora:
le schiene dei soldati
scricchiolavano come i basti
dei muli portacassette.
Così arrivammo sfiniti
dentro S. Floriano.
C'erano ancora case:
chi infilò qualche portone,
chi si stese dentro una stalla
beato come nel letto.
lo feci il sonno più bello
di tutta la mia vita,
dentro una barella
ancora insanguinata.
***
Il giorno due novembre,
si stava seduti all'alba,
vicino alle marmitte,
bevendo il caffè caldo,
quando arrivò la voce:
«Si mangia e poi si parte!»
C'erano delle case
sulle ultime pendici
di Monte Sabotino
che, viste da lontano,
nelle giornate di sole,
sembravano il bucato,
steso dalle massaie:
i soldati le chiamavano:
«Il lenzuolo bianco».
Là, sotto quelle case,
attaccava il settantaquattro
e venne l'ordine a noi
di partire di rincalzo.
A mala pena si mangia,
e poi, al passo di corsa,
le baionette inastate,
si corse da S. Floriano
in direzione di Oslavia.
Le trincere abbandonate,
scendevano i prigionieri,
dicevano i soldati:
«Finalmente vi vediamo!»
Il terreno era allagato,
io distendo il mio plotone,
le gambe dentro l'acqua,
aspettando senza parole
che venisse l'ordine a noi
di proseguire la marcia,
per rincalzare gli altri
che avevano prese le case.
Gli shrapnells austriaci piovevano,
una palla mi colse alla gamba,
un colpo forte, pensai:
«Stavolta sono ferito!»
Levai la gamba dall'acqua,
le fasce eran bucate,
le calze eran bucate,
usciva un filo di sangue.
Guardai, ma vidi che proprio
non era il caso di andare,
rimisi la gamba nell'acqua
e masticai una cicca.
***
La buca era allagata;
si cominciava a sentire
il freddo nella schiena.
Ogni tanto scendeva qualcuno,
zoppicando insanguinato:
«Come va che sparano ancora?...»
«Come va? se son domande,
bischeraccio di un imboscato!
Va' sù, vicino alle case
se sei così tanto curioso!»
«Come va?» si chiedeva ad un altro.
E qualcuno più coraggioso:
«La va bene, siamo alle case,
abbiamo preso un battaglione,
non sapevano neanche loro
come noi s'era fatto a venire.
Oh! stavolta certo si passa,
il fante ha preso coraggio,
poi c'è, uno, triestino,
quello che ha messo i tubi:
si chiama Spiro Chissidias...»
Ad un tratto arriva la voce:
«Il capitano è ferito.
Il capitano Oggiani,
ha la testa insanguinata.»
Mi mossi per vedere
che cosa fosse accaduto,
correndo sopra i soldati,
che stavan buttati a terra.
Diceva qualche fante:
«Madonna, vai piano,
non vedi che mi riformi?»
Ma io non rispondevo.
Correvo, chiedendo loro
dove fosse un ufficiale.
Finalmente qualcuno mi disse
che il tenente era vicino.
«Rizzato, così si chiamava,
dove sei? — gli chiesi gridando,
e lui mi rispose:
«Son qua, a destra della
[macchia,
ma bada, sta' più basso,
che tirano d'infilata!»
Non aveva ancora finito
che sentii uno strappo alla coscia
e caddi, ma mi levai
pensando: «intelligente!»
Gridai allora al mio amico:
«Rizzato, sono ferito!»
e saltellando un poco,
con una gamba sola,
raggiunsi i miei soldati
che mi lasciarono l'altra.
E allora il capitano
ch'era rimasto sul posto,
la testa già bendata,
mi disse:
«Vai abbasso,
a farti medicare!»
Ed io mi stesi allora,
non mi pareva vero,
vicino a dei graticci,
aspettando i portaferiti.
E arrivaron con la barella,
mi ci stesi, chiusi gli occhi,
e cominciai a sognare
di essere portato
lontano, in una barca,
in mezzo al mare più bello
del golfo di Sorrento,
e poi, di stare ancora
a Napoli, a Toledo...
di fumare una macedonia,
di bere una ghiacciata,
quando ad un tratto una Voce
mi sveglia dal torpore:
«Gli austriaci son ritornati!
I nostri lascian le case!»
«Pronti per l'assalto!»
gridò il tenente Manfredi.
«Fermi! Fermi!» — gridavano
sergenti ed ufficiali.
Qualcuno ripiegava,
il tenente Cereda cadde:
compresi ch'era più grave;
gli cedetti la barella.
Vedevo il fuggi fuggi,
e una paura mi colse.
«Quest'oggi gli austriaci ti
[prendono!»
Balzai e presi il fucile.
«Sampietro, caporale,
Sampietro! son nelle case!
punta, punta, spara!»
«No! che sono i nostri!»
«Bagolon del lüster,
son loro! punta! punta! spara!»
Eravamo avvolti nel fumo,
la polvere ci briacava,
le case erano torce,
nell'ultima sera di Oslavia.
Il tenente Manfredi alla gola...
ma i soldati andavano avanti‘,
avanti il sergente Perna,
il più bello scugnizzo di Napoli.
Gli austriaci sparavano a zero:
vedevamo le bocche da fuoco,
gli austriaci non si attendevano,
anche loro fino all'ultimo!
Ma il sergente Perna di Napoli,
caduti gli ufficiali,
correva ormai per la china;
oltrepassate le case,
voleva arrivare a Gorizia
per dire al suo paese
che c'era entrato per primo.
Ma sorse allora un austriaco,
più grande di un granatiere,
si levò con il fez rosso
gridando: «Urrà, urrà!»
Certamente era onorato
di servire l'imperatore,
e di essere di scorta
ai lucenti e bei cannoni.
Il sergente Perna, piccino,
con gli occhi color di fuoco,
barcollò, aprì le braccia
e disse:
«Ragazzi, coraggio!»
E tosto anche l'austriaco
si curvò come una quercia
dal tronco forte, nodoso,
schiantato dalla bufera!
Gli volli arrestare il sangue,
ed egli mi disse: «brate»
— voleva dire fratello —
non disse altra parola.
Io lessi il suo piastrino:
si chiamava di nome Marko,
il casato era sbiadito,
pastore di Banjaluka.
Aveva nella tasca
un ritratto con la moglie,
tre figliole e quattro figli
alti, forti e ben piantati.
Chissà quanto l'avranno atteso
nel lontano suo paese,
la sua moglie, i suoi figlioli,
le sue capre, le bestie bianche.
***
Mi trascinarono via
che non avevo più fiato:
un'altra palla mi colse,
proprio vicino alla chiesa,
ma i nostri erano avanti,
scendevano verso Gorizia,
avevano preso i cannoni,
gli austriaci non c'erano più.
***
Oslavia, tomba sinistra,
di tanti battaglioni
la Lombardia ti prese.
Perchè non c'era rincalzo?
Non c'era di rincalzo
che il 6° bersaglieri,
un battaglione solo,
il maggiore era Gusbertis.
Era il più bel battaglione
di bersaglieri ciclisti,
erano forse trecento
bersaglieri biondi.
Ragazze, ragazze d'Italia,
vi avrebbero istupidite;
i più bei bersaglieri
che ho visto nella mia vita!
Muzzatti, sbarbatello,
ricciutello, bel biondino:
anche tu sei rimasto a terra
con gli occhi color di cielo!
Volontario eri venuto,
non avevi diciott'anni,
solamente la tua mamma
fino allora avevi baciato.
Muzzatti, anima bella,
di sbarazzino friulano!
Ragazze, ragazze di Udine,
ragazze d'Italia, piangete!
Ed ho sentito che Ripa,
con una gamba sola...
ho sentito che l'altra,
l'ha lasciata vicino alla chiesa.
durante il contrattacco.
Solo il maggiore Gusbertis,
con pochi bersaglieri,
tentò di ricacciarli:
lo fecero prigioniero.
Le brigate di rincalzo,
io le vidi dall'ospedale:
69 — 70 troppo
tardi siete venuti!
Troppo tempo avete impiegato
a scendere dal Trentino,
che il giorno due novembre,
era caduta Gorizia.
***
Orslavia borgo sperduto,
nessuno ti conosceva,
ed oggi le madri e le spose
di tanti paesi ti sanno.
Tomba di giovinezza,
cimitero di battaglioni,
Oslavia, nome oscuro,
come la nebbia d'ottobre!