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ATTO V.
SCENA I.
Arreotimo padre di Cintia, Balia.
Arreotimo. Ed è vero quanto mi dici?
Balia. Io v’ho narrato appuntino tutto il fatto, onde nelle mani vostre sta la morte e la vita di mia figliuola.
Arreotimo. O misero Arreotimo, e qual prima piangerai di tante disgrazie? che di maschio ch’io pensava Cintio, or sia femina; o di femina che ora la trovo, sia disonesta; o che nel fin perduta l’onestá, abbia insieme a perder la vita? o debbo forse pianger me stesso che sia vissuto insino a tanto ch’abbia dovuto veder tante disgrazie? Che tu sia femina o maschio me ne doglio e rallegro; ma mi doglio che pensandomi aver un maschio mi ritrovo aver una femina, e mi rallegro ch’essendo femina sia di tanta virtú e valore. Dogliomi non abbia avuto piú riguardo all’onor tuo; mi rallegro che, inscusabile in sé rendendosi la tua incontinenza, il pregiudicio, che hai fatto a me e a te stessa, sia stato per uomo di tanta qualitá, la cui riputazione e bellezza sarebbono state bastevoli a far arder altra persona di una fanciulla inesperta. Ché se le femine cinte di mura e sotto le guardie di madri, padri e fratelli pur fanno delle scappate, come tu, andando libera e trattando con gentiluomini giornalmente, non avevi da pericolare? Dogliomi ch’io non sapendo che fusse femina l’ho fatto conversar con lui e interdettole ogni altra conversazione, talché io medesimo son stato il ministro e il fabro della mia ruina. Ma a che effetto Ersilia mia moglie ingannarmi?
Balia. La poveretta sperava che, vivendo piú lungo tempo, l’amore, la riverenza e l’ubidienza, con le quali ella pensava amarvi, ubidirvi e riverirvi, avessero intercesso appo voi il perdono dell’inganno usatovi, e in ricompensa di tanta affezione vi foste contentato d’esser stato ingannato. Ma la morte le ruppe ogni disegno, onde lasciò a me imposto e alla figliuola con profondi gemiti, che avessimo fatto il dovuto officio per lei quando l’inganno scoverto si fusse; ché non desio di danari, non di riputazione, ma dell’onore e dell’anima l’avevano a ciò indotta.
Arreotimo. Dogliomi di tanta diffidenza che avea meco, ché i suoi buoni portamenti fûr tali che sarebbono stati bastanti per maggior cosa, non che di farmi curar nulla di ciò: or non conosceva ella che io non amava cosa in terra piú di lei?
Balia. Chi piú ama piú serve.
Arreotimo. Ma tu a cui era commessa la cura della sua persona, e sapevi ch’era donna e senza la cura della madre, e conoscevi la sua inchinazione, perché non la rimovevi da cotali pensieri overo avisarmene me ancora, ma l’aiutavi a scavezzare il collo? ché non fece mai donna errore che la madre o la balia non ne fussero la mezana.
Balia. Che poteva far una povera vecchia? l’ammoniva, l’amminacciava che voleva far consapevole voi del tutto, e con questi spaventi la trattenni cosí dui anni; all’ultimo, spinta da una precipitosa desperazione d’amore, ributtava tutte le mie ragioni e col pugnal nudo in mano minacciava o d’uccidersi in mia presenza o fugirsene da Napoli in luogo ove mai piú di lei si sapesse novella. Io, che la vedeva cosí risoluta e infuriata, che volea fare? feci il possibile ché, avendo a capitar male, fusse il manco possibil male.
Arreotimo. Io m’ho inteso schiantare il core pensando al pericolo dove s’è trovata: ché vedendosi Erasto cosí burlato da lei né sapendo la cosa come fusse passata, tirato da sdegno l’avesse dato qualche ferita, e fusse stata al mondo essempio di costante ben sí, ma d’infelicissimo amore.
Balia. Ma perché perdete ora il tempo in parole, che potreste piú utilmente spenderlo per la vita di vostra figliuola? ché dubito che non siate prevenuto da lei, che, per scampar presto dalle miserie che gli sovrastano, vuol con la morte por fine alla sua favola.
Arreotimo. Che ti parrebbe di fare?
Balia. Trovar Sinesio, vostro carissimo amico, e componere seco di modo il fatto che si racchetino fra loro.
Arreotimo. Cosí vo’ fare. Tu vattene a casa; e se Cintia vi cápita, dille per quanto ha cara la grazia mia, che non si parta fin ch’io non ritorno. Io veggio Sinesio molto minaccioso e iracondo; se ne viene alla volta mia.
Balia. Io vado.
SCENA II.
Sinesio, Arreotimo.
Sinesio. Arreotimo, vengo a recarti nuova di grandissima importanza e molto stomachevole e molesta, ma necessaria in ogni modo che si sappi; e dubito che la nostra antica amicizia, nella quale fin da fanciulli siamo allevati insieme, or s’abbia a partir con odio e con rancori, e piaccia a Dio senza sangue, ché sai che i pericoli e l’ingiurie rompono i legami dell’amicizie.
Arreotimo. Di che cosa?
Sinesio. L’ascoltarete. Sappiate che Cintio vostro figliuolo, fingendo di far giacere Erasto mio figlio con una certa sua innamorata, gli ha supposta in cambio di lei qualche donna di cattivo essere; ed egli intanto se ne veniva in mia casa dove era ricevuto come figliuolo, e sotto color di voler Lidia mia per isposa, l’ha tolto l’onore. Or che vi par di questo? vo’ che si dia la sentenza di tal ingiustizia con la vostra bocca.
Arreotimo. Veramente il fatto è assai brutto e infamissimo, ed io desidererei sopra di ciò il parer tuo.
Sinesio. Dirò alla libera quanto giustamente si devria fare, ché se ben siamo in conflitto di tante passioni, pur convien che al fin prevaglia la ragione. Bisogna che questa burla gli costi molto cara. Prima porlo in man della giustizia, ché ben sapete che vi sia pena capitale; e se quella ci manca, farcela con le man nostre, cioè darli cinquanta pugnalate nel core.
Arreotimo. Se mio figlio avesse fatto l’ingiuria che voi dite, meritarebbe il gastigo giá detto?
Sinesio. Non ho detto la metá di quello che meritarebbe.
Arreotimo. E dite da vero?
Sinesio. Non beffeggio; ché dico da senno, né mi par tempo da scherzi questo.
Arreotimo. E se vostro figlio avesse usato l’istesso atto a mia figlia, lo giudicareste voi cosí crudelmente?
Sinesio. Il somigliante io farei verso mio figlio, e forse piú crudelmente, avendo avuto ardir di oltraggiar un amico come tu mi sei.
Arreotimo. Cosí faresti?
Sinesio. Cosí farei.
Arreotimo. E ne giuraresti?
Sinesio. E ne giurarei.
Arreotimo. Or per questa giustizia, avendola voi commendata di vostra bocca e giurato che cosí fareste, diamo Erasto vostro figlio in poter della giustizia, o che gli diamo cinquanta pugnalate nel cuore, e se vi è, un castigo piú severo di questo; e se voi non fate far la giustizia che m’avete promessa, provederò io per quella via che miglior mi parerá.
Sinesio. Che cosa t’odo io dire?
Arreotimo. Il fatto va tutto al contrario di quel che pensate: ché Cintio non ha tolto l’onore a Lidia, ma Erasto l’ha tolto a mia figliuola, l’ha impregnata ed è quasi vicina al parto.
Sinesio. Che figlia aveste voi mai? voi mi burlate.
Arreotimo. Ho una figlia femina, e non vi burlo.
Sinesio. Di grazia, disvelatemi il negozio che lo capisca.
Arreotimo. Sappiate che Cintio mio è femina e no maschio.
Sinesio. Perché lo facevate andare cosí da uomo?
Arreotimo. Non l’ho saputo infino ad oggi, ché Ersilia mia moglie me lo nascose, come l’intenderete piú distesamente; e conoscendo io vostro figlio cosí virtuoso e onorato, gli ordinai che non trattasse con altri che con lui. L’etá e la natura han fatto lor corso; ché s’è innamorata di lui, e dubitando non esser rifiutata da lui l’ingannò: dandogli ad intendere che giaceva con Amasia di cui egli stava invaghito, giacque seco e n’è pregna. Erasto chiedendo Amasia a Pedofilo ostinatamente, questi l’ha fatto veder ch’è maschio; onde tenendosi beffeggiato da Cintio, l’ha disfidato ad uccidersi seco. Cintia, sovrapresa dall’ultimo grado della disperazione, vuol morir per le sue mani, il svillaneggia e provoca il sdegno contro di sé. E or si sta su queste prattiche. Ecco la somma del fatto; fatemi dunque la giustizia che avete promesso di farmi.
Sinesio. O istoria tutta piena di amore, degna di non esser creduta! ed è possibile che fra le donne se ne trovi una di cosí alti pensieri, di cosí sublimi spiriti, d’animo cosí bello e di maniere cosí illustri e cosí stupende? O felice coppia d’amanti! veramente conosco Erasto molto diseguale a lei di merito; e se mai lo desiai di maggior qualitá e valore, lo desidero ora accioché fusse meritevole di tanta donna.
Arreotimo. Che dunque pensate di fare?
Sinesio. Patirei piú tosto che si spartisse l’anima dal mio corpo che si partisse cosí rara e cosí virtuosa coppia d’innamorati! e so che altramente facendo, procacciarò la morte dell’uno e dell’altra. Vo’ che suo sia quel marito che si ha comprato con tanto pericolo dell’onore e della sua vita. O mia felice vecchiezza, vissuta vicino a tanto che veggia una nuora entrarmi in casa, di cosí real animo, di tanta donnesca virtú, di tante lettere e di tanto maneggio d’armi! Questa sará il frutto e il trastullo di questa poca vita che m’avanza; questa sola mi fará parer dolce e passar men gravemente i difetti della mia vecchiaia. Oh che non basto fra me stesso rallegrarmi tanto che me ne veggia satollo! Mi parrá ragionando con lei di ringiovenire. Se mi fu cara la vita mia, mi sará d’oggi innanzi. Vo’ ch’ella governi il tutto e sia donna e madonna del mio avere.
Arreotimo. Vorrei ringraziarvi a pieno di tanto buon animo verso la mia figliuola; ma non posso, che le lacrime me l’impediscono. Son rivenuto; mi avete riposto l’anima nel corpo, che avendo mal ella, non era possibile che avess’io potuto vivere.
Sinesio. Non piú parole, ché la brevitá del tempo non ricerca piú lunghi ragionamenti: itene a casa, e s’ella vi cápita, sia vostra cura di trattenerla, ché se s’incontrasse con Erasto prima ch’io le parlassi, potrebbono porre in effetto il loro fiero proponimento; ch’io cercherò di Erasto e di racchetarlo.
Arreotimo. Adio.
SCENA III.
Erasto, Sinesio.
Erasto. Quanti impeti di precipitose voglie in un punto m’assalgono, né so dove dar di capo!
Sinesio. Erasto, tu qui sei?
Erasto. Cosí non vi fussi e che fussi morto dieci anni sono!
Sinesio. Che cose ti traggono cosí fuor di cervello?
Erasto. Inganni, finzioni e tradimenti.
Sinesio. Fermati un poco qui, narrami il tutto: forse non saran tali come gli estimi.
Erasto. Non fui mai ne’ miei giorni in maggior angoscia: una nuvola di melancolia m’adombra d’intorno il core.
Sinesio. Narramelo, ti dico.
Erasto. Lo saprete un’altra volta, ch’or non ho tempo.
Sinesio. Il negarmelo cosí ostinatamente mi accresce la voglia di saperlo.
Erasto. Sappiate che doppiamente mi sento oltraggiato da Cintio, e nel fatto di mia sorella e dell’avermi fatto sposar una donna, che non so chi sia, sotto nome di Amasia, che col vostro consenso l’avea fatta dimandare al padre. M’ha fatto giacer seco e l’ho impregnata: al fin ho discoperto che Amasia sia maschio.
Sinesio. Nel fatto di Lidia l’ingiuria è manifesta, ma non sappiamo chi l’ha ingiuriata; nel fatto di Amasia di che ti duoli di lui? Se non hai goduto quel corpo di Amasia, pur l’hai goduto con l’imaginazione e ne hai preso piacere.
Erasto. Quella donna, con la quale mi fe’ giacere, era d’una bellezza incomparabile, d’un spirito vivacissimo e di sí meravigliose maniere che l’anima mia cieca non se le sa imaginare piú grandi e stupende; e or non posso saper da lui chi sia.
Sinesio. Ti contentaresti che fusse tua sposa colei con la qual tu giacesti?
Erasto. Vorrei saper due cose: prima di che condizione ella sia... .
Sinesio. Di miglior che tu non sei, e con forse cinquantamila ducati di dote.
Erasto. Vorrei ancor sapere se il tôr costei per moglie fosse di vostro contento.
Sinesio. Io ne sarei contentissimo, né altro mi resta ad esserne contento a pieno se non che ne resti contento ancor tu.
Erasto. Ed io son contento, contentissimo.
Sinesio. Ed io farò che sia tua moglie. Nel fatto di Lidia, non è possibil che Cintio gli abbi usata violenza.
Erasto. Caro padre, di grazia dimmi chi sia la mia moglie.
Sinesio. Cintio è tua moglie: eccola bella e spedita.
Erasto. Come Cintio mia moglie? Padre, voi mi burlate.
Sinesio. Sappi che Cintio è donna, e il padre non l’ha saputo insino adesso. Ella, conversando teco e conoscendo il tuo merito e il suo, e conoscendosi degna di te e tu di lei, conoscendo Amasia indegna di te e tu di lei, s’occecò nell’amor tuo; né avendo animo di scoprirloti perché tu stavi invaghito di Amasia, per non morirsi di passione, si dispose ingannarti e giacque teco sotto nome di Amasia.
Erasto. O Dio, che intendo! ecco districato l’intrigo d’una intricatissima comedia: questa luce ha disgombrato tutte le tenebre del mio intelletto. Ho tanto legati i sensi che non so se sia vivo o morto: l’anima mia sta cosí confusa tra tanta meraviglia e allegrezza che non può mostrar quel mar di gioia dove or nuota. Ecco passo da un abisso di affanni ad un mar di delizie! O vivo spirto del cuore e dell’anima mia, chi sará piú di te generosa e amorevole, chi piú costante in amare, chi piú fedele in servire, chi nella conversazione piú dolce, chi ne’ trattamenti piú soave? O donna degnissima d’ogni onore, o essempio di eroica virtú, chi sará piú di te paziente, servente e perseverante? e chi di me piú cieco, piú ingrato e piú disamorevole? Poiché tante volte sotto altri nomi e altre persone, in tanti sonetti, in tante elegie, in tante cifere m’hai narrati gli accidenti degli amori tuoi, ed io tanto ignorante non intendeva e non penetrava il secreto, or come potevi tu piú dolcemente beffarmi? con quai piú onorati modi potevi tentar l’animo mio? con qual piú grazioso effetto potevi scorger la mia disamorevolezza? Ed io con tante villane e discortesi parole e al fin con fiere pugnalate ho voluto pagarti di tanto amore! Al fin non riuscendoti meco alcun disegno, volevi morire e morir per le mie mani. Dio sa che sia ora di te, ché, non ti riuscendo il morir per le mie mani, dubito che ti sarai uccisa con le tue; e se non sei morta, sarai poco lontana dalla morte, ché giá ti scorgeva i segni nel volto spiegati dalla disperazione. Hai voluto pagar, o invittissima donna, la colpa delle mie sciocchezze con la tua morte: il che ha dato a questo core un perpetuo tormento, a questi occhi perpetue lacrime; anzi mi ucciderò con le mie mani, ché veramente mi conosco indegno di piú vivere, infame mostro, senza anima e senza core!
Sinesio. Ma perché trattieni te stesso e me consumando questo tempo in dolerci? corri e senza lasciar punto di sollecitudine va’ ricercandola per una strada, ed io per un’altra; forse l’incontraremo. Io vado ringraziando sempre la divina bontá che mi dia per nuora una donna di sí mirabil condizione!
Erasto. Vado. Ma eccola che viene. O dolcissima vita dell’anima mia, mira come sta in estasi rapita da se stessa, e se ben mesta e afflitta, pur spira di un generoso ardire!
SCENA IV.
Cintia, Erasto.
Cintia. Io ho gran dubio che, quando disavedutamente mi sfibiai il giubbone, Erasto se sia accorto ch’io fussi femina, e però ritirò la spada e non m’uccise; ma se la sua spada mi perdonò la vita, non me la perdonerá il veleno. Ahi! che il mio amore per sí strani successi non scema punto, ma va piú sempre crescendo.
Erasto. (Va ragionando fra se sola, fa diverse mutazioni, s’adira, s’attrista e si vergogna: segni d’affanno che la sua misera anima deve patire! Eccolo che mi sta aspettando, e se dalla vista si ponno scorgere gli effetti dell’animo, arde nel suo petto la rabbia e lo sdegno contro di me).
Cintia. Erasto, son qui per mantenervi quello che v’ho promesso.
Erasto. Che cerchi tu da me?
Cintia. Quel che sei solito darmi: crudeltá, morti, uccisioni. Io son colui che t’ho turbato, ingannato e tradito.
Erasto. Come sei diventato cosí severo accusator di te stesso?
Cintia. Su su, alle mani, non piú tardare, fammi morire, ché non potrai cosí mortalmente ferir questo corpo che non abbi piú acerbamente feritomi nell’anima.
Erasto. Tu vieni a disfidarmi molto disarmato e con molto poca arte di scrima.
Cintia. La prontezza dell’animo vincerá la poca arte dello schermire, e al corpo disarmato la disperazione ministrará l’armi, troverá nuovi usi, fará che l’unghie e i denti mi serviranno in vece di pugnali e di coltelli; e per mostrarti che ho voglia di morire, solo, nudo e senza armi m’ucciderò teco come tu vuoi.
Erasto. Sei giá disposto di ucciderti meco?
Cintia. Dispostissimo.
Erasto. Orsú, poiché sei cosí disposto di ucciderti meco, per esser noi stati tanto tempo prima amici insieme, abbracciamoci e baciamoci, e dopo ripigliamo l’armi e feriamoci.
Cintia. Mi contento d’ogni tuo contento.
Erasto. Lasciate l’armi; ecco lascio le mie.
Cintia. Io ho lasciate le mie.
Erasto, O vita assai piú cara della mia vita, come vuoi ch’io dia morte a te da cui ho ricevuto tante volte cosí graziosissima vita? O mia sposa dolcissima, il dar morte a te che sempre fosti suavissima esca di miei pensieri, senza la cui vita né viver vorrei né esser stato nel mondo; o mia vera Amasia, e non piú imagine della finta Amasia — sei l’una e l’altra, e la vera e l’ombra della falsa, — uccider te da cui solo riconosco la mia vita? Oh quanto sarei cieco e ingrato sopra tutti gli uomini del mondo, sí come m’hai sempre rimproverato, se conosciuto l’error mio, come giá il conosco, non ricorressi alle tue ginocchia dove m’inchino, non ricercando da te vita, no, ma perdono! Hai vicina la spada: piglia quella vendetta di me che par che meriti tanta offesa. Io ti giuro per la tua vita, a me piú cara dell’istessa mia vita, che se non conoscessi nell’interno della mia conscienza non averti offeso per nequizia o malignitade, ch’io medesimo me la darei per le mie mani; ma perché non ho alcun rimorso nella mia mente, fa’ che ne speri perdono dalla tua benevolenza. Ecco io abbraccio le ginocchia; né mi levarò da queste mai, se non mi dái alcun saggio che, avendo a far penitenza tutto l’avanzo della mia vita, in ricompensa io ne abbi a sperare il perdono.
Cintia. Erasto, alzatevi e non mi offendete con questo atto: perché inchinarvi dinanzi a una che vi fu sempre serva?
Erasto. Non mi levarò mai se non mi date prima la penitenza.
Cintia. Alzatevi, vi dico, e se dite che voi sète servo, ubidite alla vostra padrona: il castigo e la penitenza sará che se non conoscendomi non mi avete amata, or che mi conoscete debbiate amarmi come io amo voi.
Erasto. Che io non debba amarvi? e comandarmi voi il contrario, come potrei ubbidirvi? Vita mia, d’una cosa di voi mi doglio, che avete avuto in me cosí poca confidenza: ché, conoscendo esser cosí ardentemente da voi amato, perché non doveva io amarvi? perché con cosí onorati inganni e cosí fideli tradimenti ricoprirvi? perché non venir meco alla libera? Voi sète stata cagione a voi stessa della vostra afflizione: ed io sarei stato il piú disconoscente uomo e ingrato, come voi dite, se non avessi con amore corrisposto a un tanto amore.
Cintia. Conosceva io che il mio ardire era troppo di desiderarvi; e troppo ostinata nell’amarvi, dubitava che la candidezza della mia fede, la qual non volli né col pensiero macchiare di un picciol neo di suspizione, non fusse mai per esservi cara abbastanza; però ricorsi agl’inganni.
Erasto. Orsú, andiamo a casa, non tardiamo a dar cotal contentezza a mio padre, che con somma allegrezza vi sta aspettando.
Cintia. E come? vostro padre sa alcuna cosa di questo fatto?
Erasto. La balia ha discoperti al vostro e al mio padre gli amori nostri, e di commun consentimento giá sète stata confirmata mia sposa. Ma voi come non parlate?
Cintia. Non so s’io mi sia anco viva: ancor mi par esser preda della disperazione della morte o della volontá di morire; e avendovi, meno credo di avervi.
Erasto. O giorno pieno di tante gioie e di tante meraviglie, o cielo a me cortese di tanti doni, o fortuna che con tanti rivolgimenti ti sei traposta tra le nostre avventure! Benedetto sia Iddio, che m’è pur lecito di veder alla libera quel volto tanto desiderato, quel petto, quel seno e quelle mani che sotto tante imagini, viluppi e ombre m’eran nascoste! Veggio pur quegli occhi vivaci. E ben veramente mi chiamavi cieco, ché non conosceva quel celeste lume de’ tuoi begli occhi che, a malgrado delle mie tenebre, nella piú oscura notte scintillavano come stelle e fulgoravano come mille soli: e quali altri, salvo che gli occhi tuoi, potevan cosí alte meraviglie? or gli riconosco e raffiguro. Ti tocco e stringo, e non lo credo ch’a pena.
SCENA V.
Dulone, Cintia, Erasto.
Dulone. Signora Cintia, non piú signor Cintio, sia lodato Iddio ch’è scoverta ogni cosa; e poiché la fortuna e tutto il mondo vi riverisce, giusto è che vi riverisca ancor io e che vi cerchi perdono delle offese, e del mio mal animo che v’ho sempre avuto, e di aver sempre dissuaso al padrone ché non v’amasse; ma poiché il mio padrone, che è di maggior giudicio ch’io non sono, ci s’era ingannato, non è gran cosa che mi fusse ingannato ancor io. V’ho offesa non volendo, anzi voi stessa m’avete dato cagione che vi offendesse. In tanta allegrezza è di ragion che mi perdoniate.
Cintia. Dulone mio, io non sol ti perdono, ma ti ho caro piú di prima per duo cagioni: l’una perché sei fidele al tuo padrone, l’altra perché la fortuna s’ha voluto servir di te per istrumento della mia felicitá. Tu hai proposto e Dio ha disposto: la sorte ha combattuto per me contro il padre, la madre e nemici; e quelli che han cercato di farmi danno, quelli mi han fatto piú utile. Erasto mio, mi sento un caldo che mi scorre per tutta la persona, e certi movimenti per il corpo, non so se da soverchia allegrezza o dal passato dolore.
Erasto. Apri la porta, Dulone. Entrate in vostra casa, vita mia.
SCENA VI.
Pedofilo, Sinesio.
Pedofilo. Sto con animo assai dubioso e pieno di malinconia, ché Amasio, mio figliuolo, m’ha detto che ha usato violenza a Lidia e toltole l’onore; e dubitando di non venire ad alcun atto disconvenevole col fratello, è risoluto averla per moglie o di morire: e non so se sia vero o se lo dica perché consenta a’ suoi desidèri.
Sinesio. Eccomi, vi ha tolta la fatica di averlo a cercare.
Pedofilo. Sinesio caro, arei voglia di dirvi ben cinquanta parole.
Sinesio. Saria ben vi rispondessi non poterne ascoltar una sola se ben avessi cinquanta orecchie, perché ier mi diceste con due orecchie non poter ascoltarne a me meza.
Pedofilo. So che piú volte m’avete chiesta Amasia per isposa di vostro figliuolo; e perché me la chiedevate con grande istanza, stimo che avevate prima giudicato tra voi e me non esservi molta disaguaglianza di nobiltade o di ricchezza.
Sinesio. Cosí ho sempre stimato certo.
Pedofilo. Or di quel parentado che voi me prima ricercavate, io ne ricerco voi; e dove volevate dar Erasto ad Amasia mia, or vorrei dar Amasio a Lidia vostra.
Sinesio. Pedofilo mio, vuol la legge che, negandoti un amico un piacere, possi tu giustamente a lui negar il medesimo piacere: avendomi voi negato la vostra figliuola per mio figlio, è giusto e convenevole che vi nieghi la mia figliuola per vostro figlio.
Pedofilo. Io non vo’ romper la vostra legge ma difender le mie ragioni con un’altra legge. Come voleva io cedervi un maschio per isposa a vostro figlio, qual voi credevate femina? e se ben mi ricordo, ve l’accennava con certe parole mezo scoverte; ma voi non la volevate intendere. Or che vi scuopro che sia maschio, il matrimonio ch’io vi domando è convenevole.
Sinesio. Per non far molte parole tra noi, me ne contento, anzi vengo costretto a contentarmene, ché vostro figlio, qual noi credevamo femina, pratticando con mia figlia, l’ha usato discortesia; ed io ora era per girmene a Sua Eccellenza e far quelle provisioni che si convenivano, che il suo atto troppo mi par infame e insopportabile.
Pedofilo. Non posso imaginarmi che mio figlio, qual ho sempre conosciuto modestissimo, abbi usato atto cosí discortese.
Sinesio. Non dice cosí Lidia, che, stimandolo Cintio, si ridusse onestamente a trattar con lui.
Pedofilo. Or, Dio grazia, abbiamo onorata la vergogna. E sappiate che son della famiglia Malvezzi, de’ principali di Bologna; non credo che apparentando meco disgradarete di condizione.
Sinesio. Certo che vostro figliuolo ha dimostrato che sia di veri mal vezzi, anzi di mali avezzatissimi.
Pedofilo. Orsú, questo Malvezzo che ha voluto entrar nell’altrui gabbia per forza, facciamo che sia entrato nella sua.
Sinesio. Orsú, vengane con lui a casa mia, perché ho ammogliato Erasto e tutta la casa è piena di allegrezza, e faremo al fratello e alla sorella una festa commune.
Pedofilo. Non mi donarete tanto tempo che si faccia le vesti da maschio, perché non ha se non vesti da donna?
Sinesio. Faremo che le sue vesti si dieno a Cintia e quelle di Cintia a lui; ché se le vesti han servito prima per finzioni e inganni, or servino da dovero.
Pedofilo. Cosí si faccia: andrò a casa e vi condurrò Amasio per l’uscio di dietro. — O Dio, sia tu lodato in sempiterno, ché non pensava con sí poco travaglio passar da un tanto affanno a sí tranquilla quiete!
SCENA VII.
Dulone, Sinesio.
Dulone. Padrone, allegrezza allegrezza!
Sinesio. Io so meglio di te.
Dulone. Questa non la potete sapere, ché in casa voi non sète stato ed ella è accaduta or ora.
Sinesio. Orsú, dimmi che cosa?
Dulone. Cintia ha partorito un bel bambino!
Sinesio. Cosí passi presto da una nuova di tanto contento? or dimmi il come.
Dulone. Cintia appena entrò in casa che si pose in letto, dicendo che non si sentiva bene e dubitando che la soverchia allegrezza l’uccidesse; altri dubitavano che non fusse per isconciarsi per il travaglio preso del giorno. S’inviò per la comare, ma prima ch’ella venisse ha partorito un maschio, il piú bello che si possa vedere.
Sinesio. O Dio, quante dolcezze mi dái tu insieme! Non posso trattenermi che non entri: volea andar a casa di Arreotimo per invitarlo alla festa della figliuola, e non posso trattenermi per il gran desiderio che ho di veder il nepotino. Fagli da mia parte tu l’ambasciata.
Dulone. Cosí farò.SCENA VIII.
Arreotimo, Dulone.
Arreotimo. Sono tra il vivo e il morto: onde s’i’ fussi dimandato qual fussi o morto o vivo, non saprei che rispondergli, cosí ho l’animo turbato tra il timore e la speranza, dubitando che Erasto non s’incontri con Cintia e non s’ammazzino insieme! L’ho attesa a casa e non è ancor venuta, né la balia che è gita in cerca di lei ha potuto trovarla.
Dulone. Arreotimo, vi prega Sinesio che vegnate a casa, ché vi stanno aspettando con grandissimo desiderio.
Arreotimo. Si sa nuova di Cintia?
Dulone. Ivi è Cintia ed Erasto.
Arreotimo. Sono accordati insieme?
Dulone. Poco contrasto ci ha voluto per accordargli; or con grandissimo contento di ciascheduno si sposano insieme Cintia con Erasto, e Lidia con Amasio, e tutta la casa è in gioia.
Arreotimo. O Dio, come ti renderò io grazie bastanti, se ben mentre io vivesse stesse sempre in un perpetuo rendimento di grazie?
Dulone. Ci è maggior allegrezza.
Arreotimo. Qual può esser maggiore?
Dulone. Cintia vi manda a dir che, per temprarvi il dolore di non aver Cintio che pensavate, ma una femina Cintia, e ché non vi dogliate di Ersilia, la sua madre, e di lei, v’ha partorito un bel maschio.
Arreotimo. Ed è ella infantata?
Dulone. Infantatissima e di un graziosissimo bambino.
Arreotimo. O Dio, quanto son oltremisura allegro! O soprana bontá, quanti sono i favori che oggi tu mi concedi! dolevami di aver una femina, poi di averla perduta; or ho una figlia e un nipote di lei. Mi par mille anni di riveder l’una e l’altro, ché, dubitando di non averla a veder in eterno, sto con uno accesissimo desiderio di rivederla.
Dulone. Ascoltate tutta l’ambasciata.
Arreotimo. Non posso ascoltare, vieni ché me la dirai poi dentro.
Dulone. Spettatori, Amasio è giá in casa, e questa sera si faranno le feste magnifiche e sontuose. Non usciranno piú fuori, ché si sta intorno l’infantata. Se la comedia v’ha piaciuta come l’altre, fatele quell’applauso che solete.