< La Città dell'Oro
Questo testo è stato riletto e controllato.
La Città dell'Oro 2. La leggenda dell'Eldorado

I.

Yaruri.

— Bada, Alonzo! Se ti piomba addosso, non so se il medico, quell’ottimo Velasco, saprà accomodarti le ossa.

— Non temere, cugino, ho il polso fermo e l’occhio sicuro.

— Ma quei dannati giaguari spiccano tali salti da far invidia alle tigri indiane. Anche la settimana scorsa mi hanno storpiato uno schiavo presso la foce dell’Arauca, sebbene quel disgraziato fosse un abile cacciatore.

— Ma non aveva fra le mani un buon fucile.

— Una freccia intinta nel velenoso curaro vale quanto una palla di fucile.

— Non mi fido, cugino Raffaele, di quelle frecce.

— Hai torto. Volano via silenziose e non falliscono mai, quando sono lanciate da un indiano dell’Orenoco. Ti dirò poi che....

— Zitto, cugino!

— Il giaguaro?

— Ho udito laggiù a rompersi un ramo.

— Fermati, Alonzo! Non vorrei festeggiare il tuo arrivo dalla Florida con una disgrazia.

— Taci! Non ho paura.

I due cugini si erano arrestati col dito sul grilletto del fucile e gli occhi fissi sugli ammassi di tronchi e di fogliame che si stendevano dinanzi a loro.

Al di là della boscaglia si udiva gorgogliare la corrente dell’Orenoco, di quel fiume gigante che coi suoi numerosi affluenti solca contemporaneamente le due repubbliche di Columbia e di Venezuela, allungandosi fin presso l’altro gigante che attraversa tutta intera l’America del Sud centrale, il famoso fiume delle Amazzoni.

Alcuni mico, scimmiottini così piccoli che possono stare in una scatola di sigari, graziosissimi, svelti, intelligenti, emettevano le loro grida lamentevoli, dondolandosi all’estremità dei rami, mentre su di un tronco una coppia di canindè, bellicosi pappagalli grossi come le cacatoe dell’Australia, colle ali turchine ed il petto giallo, cicalavano a piena voce.

I due cacciatori stettero alcuni istanti in silenzio, indagando cogli sguardi i cespugli, gli alberi e le foglie gigantesche che proiettavano sul terreno una cupa ombra e tendendo accuratamente gli orecchi, poi Alonzo disse:

— Mi sono ingannato. Non odo nulla di sospetto.

— Non fidiamoci, cugino mio. Il giaguaro ci avrà scorti e si sarà rintanato. To’!... Non senti questo odore di selvatico? È passato di qui, ne sono certo.

— Si mostri, dunque!

Aveva appena pronunciate queste parole che si videro le larghe foglie d’un bananeira aprirsi rapidamente ed apparire una grossa testa colla pelle fulva picchiettata di nero, che ricordava quella d’una tigre, con una larga bocca irta di lunghi ed acuti denti. Gli occhi di quella fiera, contratti in forma d’un i come quelli dei gatti, si fissavano sui due cacciatori mandando certi lampi che avevano i riflessi dell’acciaio.

— Eccolo!... — esclamò Raffaele. — Indietro!... È affar mio!...

Un soffio potente, che parve un sordo ruggito, uscì dalle mascelle aperte della fiera. Era una minaccia tremenda; annunciava l’imminenza dell’assalto.

— Gli pianterò una palla fra i due occhi, — disse Alonzo. — Guardati, cugino.

Puntò rapidamente il fucile che teneva in mano e senza attendere altro fece fuoco. Era ormai troppo tardi! La tigre americana aveva preso lo slancio ed era partita con impeto irresistibile, descrivendo una fulminea parabola.

Il fumo non si era ancora dileguato che l’imprudente cacciatore giaceva a terra. Il giaguaro gli stava sopra, pronto a stritolargli il cranio o ad aprirglielo con un formidabile colpo d’artiglio.

Raffaele aveva gettato un grido d’orrore. La scena era stata così rapida che gli era mancato il tempo di prevenire o d’arrestare lo slancio della belva.

A sua volta aveva puntata l’arma, ma la tema di sbagliare la mira e di colpire invece il cugino, lo aveva trattenuto. Gettò un secondo grido.

— Aiuto!...

D’improvviso vide aprirsi precipitosamente i cespugli, apparire un indiano armato di una di quelle pesanti mazze di legno di ferro che usano i rivieraschi dell’Orenoco e che chiamansi wanaya, armi formidabili che con un solo colpo sfracellano il cranio più resistente.

Senza pronunciare una parola, senza nemmeno gettare uno sguardo sul cugino d’Alonzo, con un coraggio temerario, quell’indiano piombò addosso al

Il giaguaro gli stava sopra, pronto a stritolargli il cranio (pag. 6).

giaguaro e con un tremendo colpo della sua pesante arma lo fece stramazzare al suolo fulminato. La terribile wanaya gli aveva fracassato il cranio.

Raffaele si era precipitato verso Alonzo, il quale, dopo aver respinto il cadavere sanguinante della fiera, s’era alzato a sedere.

— Sei ferito, cugino mio? — gli chiese con voce tremula.

— No, — rispose Alonzo tergendosi il freddo sudore che inondavagli il viso già pallido. — Ma se il soccorso tardava, ero spacciato.

— Nemmeno una graffiatura?

— Neanche le vesti lacerate. Il giaguaro ha avuto un istante di esitazione ed è stata la mia salvezza. Ti giuro però, cugino mio, che mi sento tutto scombussolato.

— Presto, ritorniamo alla piantagione. Una vecchia bottiglia di vino di Spagna ti farà bene.

Alonzo si era alzato raccogliendo il fucile che lo aveva così male servito in quel supremo istante. Stavano per ricacciarsi nella foresta, quando entrambi si arrestarono, esclamando:

— E l’indiano?

Si volsero di comune accordo e scorsero il salvatore ritto accanto ad una palma massimiliana, appoggiato alla sua formidabile mazza, immobile come una statua di porfido.

Era un indiano di alta statura, colle membra assai sviluppate, il petto ampio, coi lineamenti duri, angolosi e gli sguardi cupi che avevano un non so che di triste ed i capelli lunghi e neri, adorni d’una penna d’aracari, cioè un piccolo tucano molto comune sull’Orenoco. Aveva il petto adorno di varie linee dipinte in rosso, il collo d’una fila di perle azzurre, alle quali era sospesa una placca d’oro in forma di mezzaluna e per unico vestito portava un sottanino di cotone finissimo, intessuto con pagliuzze d’argento, il guayaro come lo chiamano gl’indiani.

Vedendo i due cacciatori avvicinarglisi, l’indiano non si era mosso, però i suoi cupi sguardi si erano accesi d’una viva fiamma.

— Chi sei? — chiese Raffaele.

— Yaruri, — rispose l’indiano che doveva comprendere perfettamente lo spagnolo.

— Sei schiavo in qualche piantagione?

— Sono uomo libero, — disse il Pellerossa con fierezza.

— Da dove vieni?

— Molto da lontano; dai paesi ove il sole tramonta. Si volsero di comune accordo e scorsero il salvatore ritto
accanto ad una palma massimiliana (pag. 7).

— Hai disceso l’Orenoco per cacciare forse il manato?1

— Forse, — rispose l’indiano con un sorriso misterioso.

— Sei valente, te lo dico io.

— Lo so: nessuno eguaglia il braccio di Yaruri.

— Grazie del tuo soccorso, — disse Alonzo. — Ti serberò riconoscenza e se vorrai seguirci alla piantagione, non avrai a lagnarti di noi.

— Intanto prendi, amico valoroso, — disse suo cugino.

Estrasse un borsellino contenente parecchie pezze d’oro e lo porse all’indiano; ma questi lo gettò a terra con supremo disprezzo, dicendo con aria tetra:

— A me dell’oro?... Sono qui venuto per offrirne a te!...

I due cacciatori, stupiti di vedere quell’indiano respingere quell’oro, tanto ardentemente desiderato dai suoi fratelli rossi per abbandonarsi poi a delle tremende ebbrezze che durano delle settimane intere, si erano guardati l’un l’altro per chiedersi se quell’indiano era pazzo. Quando udirono quelle parole, la loro meraviglia non ebbe più limiti.

— Tu ci offri dell’oro! — esclamarono.

— L’ho detto, — rispose l’indiano. — Se gli uomini bianchi mi seguiranno nei lontani paesi ove il sole tramonta, li farò tanto ricchi da non saperne cosa fare dell’oro.

— Ma da dove vieni tu? — chiese Raffaele.

— Dall’Alto Orenoco.

— A quale tribù appartieni?

— A quella dei Sassipagotti. La conosci tu?

— Ne ho udito vagamente parlare qualche volta e con terrore.

— Se vorrai, io ti condurrò lassù.

— I tuoi compatrioti non sono antropofagi?

— È vero.

— E da cent’anni spaventano le vicine regioni.

— È vero, — disse l’indiano con orgoglio.

— E vuoi condurmi presso i tuoi?

— Sì, se mi seguirai.

— E tu mi assicuri che là vi è dell’oro?

— Fin che vorrai.

— Non ti credo, quantunque si sappia che l’Alto Orenoco è ricco d’oro.

Un sorriso contrasse le labbra dell’indiano.

— Tu adunque non hai mai udito parlare degli Eperomerii? — chiese.

Udendo quel nome, il piantatore aveva emesso un grido di stupore.

— Hai parlato degli Eperomerii! — esclamò.

— E di Manoa, hai mai udito parlare? — continuò l’indiano.

— Di Manoa!... Potenza di Dio!... Tu parli di Manoa!...

Il piantatore che pareva in preda ad una viva eccitazione, guardava l’indiano con due occhi che brillavano di cupidigia. Pareva che quella parola di Manoa lo avesse completamente scombussolato.

— Cugino, — disse Alonzo, che non aveva compreso nulla o quasi nulla di quanto aveva detto l’indiano e che non aveva mai udito parlare nè degli Eperomerii, nè di Manoa; — mi sembri commosso.

— E vi è da commuovere l’uomo più impassibile della terra, — rispose il piantatore con voce rotta. — Si tratta di conquistare ricchezze incalcolabili, di monti d’oro, d’una città d’oro, mi comprendi?

— D’una città d’oro!... — esclamò Alonzo. — Ma cosa narri tu?...

— L’antica leggenda sta per diventare realtà. Barreo ne ha parlato, il cavalier Raleigh, Giovanni Martinez e Keymis non si sono sognati, no, l’esistenza degli Eperomerii.... Ah! Alonzo, vedo milioni, vedo dei miliardi!...

— Ma impazzisci?

— No, Alonzo, il mio cervello è a posto, ma che questo nome di Manoa l’abbia un po’ sconvolto, non potrei dirti di no. Manoa!... Manoa! Gli Eperomerii!... Quale inaudita fortuna!...

Poi volgendosi verso l’indiano che conservava la sua inalterabile impassibilità, chiese:

— Ma è proprio vero che tu mi condurrai là?

— Te l’ho detto — rispose Yaruri.

— Ma non ci tradirai, tu?

— A quale scopo?

— Che ne so io? Gli uomini della tua tribù sono antropofagi e possono aver bisogno di qualche arrosto d’uomini bianchi per qualche rito misterioso.

— Non sono nelle tue mani, io? Chi t’impedirà di uccidermi al primo sospetto?

— È vero, — disse Raffaele.

— Verrai?

— Una domanda prima.

— Parla.

— Vorrei sapere per quale motivo un indiano tradisce un segreto, gelosamente custodito per più di tre secoli dagli uomini della tua razza.

Negli sguardi tetri dell’indiano guizzò un lampo sanguigno.

— Una vendetta! — disse poi, con voce cupa.

— Non ti comprendo.

— A te l’oro, a me il supremo potere e la vita di Yopi.

— Chi è questo Yopi?

— Un uomo che odio e che bisogna che uccida, — rispose l’indiano con accento feroce.

— Ma perchè l’odii?

— È un mio segreto. Vorrai aiutarmi? Io ti darò tanto oro da riempirne venti canotti.

— È lontano il tuo paese?

— Una luna.

— Un mese di navigazione vuoi dire?

— Sì.

— E non c’ingannerai?

— Lo giuro su questo piaye2 — disse Yaruri, toccando una pietra azzurra che portava sospesa al sottanino.

— Ti credo. Alonzo, cugino mio, torniamo alla piantagione. Fra un mese noi saremo tanto ricchi d’acquistare dieci città.

— Ma non ho compreso bene di cosa si tratta, Raffaele.

— Ti spiegherà meglio il dottore. Vieni, Yaruri!...

  1. Lamantino.
  2. Amuleto.

Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.