< La Città dell'Oro
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18. L'assalto dei caimani
17. L'agguato degl'indiani 19. Il pane degli indiani

XVIII.

L’assalto dei caimani.

Sulle onde che si rovesciavano furiosamente giù dalla cateratta, si vedevano scendere, urtandosi gli uni cogli altri, parecchi tronchi d’albero, i quali filavano lungo il canale che i viaggiatori avevano tentato di risalire.

Erano stati lanciati dagl’indiani per frantumare, coll’urto di quelle masse, l’albero della scialuppa, o la corrente li aveva sradicati da qualche isola o da qualche sponda sommersa? Comunque sia, Yaruri aveva gridato “ecco la nostra salvezza,„ e quell’uomo astuto doveva avere le sue buone ragioni per aver dette quelle parole.

— Attenzione, — diss’egli, impugnando la scure e recidendo, con pochi colpi, due paterazzi. — Se ci lasciamo sfuggire quest’occasione, non potremo più mai abbandonare quest’albero.

— Ma cosa vuoi fare? — chiese don Raffaele.

— Tirare a noi due o tre di quei tronchi d’albero.

— Ma per cosa farne?

— Una zattera.

Pel piantatore fu una rivelazione.

— Bravo Yaruri! — esclamò. — Vengo ad aiutarti!

Scesero le griselle e s’arrestarono a fior d’acqua. I tronchi d’albero, che scendevano la cateratta a precipizio, non erano lontani che poche centinaia di passi.

— Ti occorre un aiuto, cugino? — chiese Alonzo, preparandosi a lasciare l’albero.

— No, — rispose Yaruri, prevenendo la risposta di don Raffaele. — Noi due bastiamo; invece sorvegliate gl’indiani.

La corrente trascinava quei tronchi verso la scialuppa affondata, la quale occupava buona parte del canale. Yaruri, tenendosi aggrappato alle griselle con una sola mano, li aspettava, stringendo nella destra una corda che si era legata attorno al corpo.

— Padrone, — diss’egli rapidamente, porgendogli l’estremità della fune. — Tenete fermo e ritiratemi a bordo o la corrente mi trascinerà via!

Il primo tronco era vicino e stava per urtare contro l’albero. Yaruri, che si era raccolto su sè stesso come una tigre, si slanciò innanzi e cadde a cavalcioni dell’albero.

Pronto come il lampo, impugnò la scure e la infisse profondamente in un secondo tronco che seguiva il primo.

— A voi, padrone! — urlò.

Don Raffaele, aiutato da Alonzo che era sceso dal pennone, lasciando al dottore l’incarico di vegliare sugli indiani, ritirò rapidamente la fune e pochi istanti dopo i due alberi si trovavano riuniti presso quello della scialuppa.

— Ecco la zattera, — disse Yaruri, con aria trionfante. — Ora possiamo sfidare i caribi.

I due tronchi in pochi istanti furono legati coi paterazzi della scialuppa e ormeggiati all’albero.

— Velasco, — disse don Raffaele, — vedete nulla sulla riva?

— No, — rispose il dottore.

— Non è comparso alcun indiano?

— Non ho veduto alcuno.

— Allora scendete. La zattera ci aspetta.

— Partiamo?

— È meglio approfittare dell’oscurità.

Il dottore s’affrettò a scendere lungo le griselle.

— Collocatevi nel mezzo e badate a non immergere le gambe o i caribi ve le rovineranno, — disse Yaruri.

— Ed i caimani? — chiese Alonzo.

— Li respingeremo a fucilate, — rispose don Raffaele. — Orsù, imbarcate.

Tutti e quattro si collocarono fra i due tronchi d’albero, due grossissimi paiva, che parevano recisi di fresco. Quella specie di zattera, che galleggiava benissimo quantunque fosse così carica, fu abbandonata alla corrente, ma Yaruri, che si era munito del picco della randa, bene o male cercava di dirigerla.

I rapidi flutti della cateratta facevano trabalzare disordinatamente i due tronchi e li facevano girare, ma non riuscivano a separarli nè a farli rovesciare, essendo tutti e due saldamente legati.

Avevano già disceso il fiume per tre o quattrocento passi, accostandosi lentamente alla sponda sinistra, quando Alonzo scorse alcune code emergere a breve distanza e poco dopo dei musi lunghi e armati di denti formidabili.

— In guardia! — gridò. — I caimani c’inseguono.

— Preparate i fucili, — rispose don Raffaele.

Avevano appena dato quel comando che un caimano mostruoso, con un potente colpo di coda si lanciava verso i due tronchi d’albero, cercando di salirvi. L’urto fu così potente, che i quattro naufraghi per poco non furono sbalzati nel fiume.

Yaruri però si era prontamente rimesso in equilibrio. Vedendo il caimano quasi a portata delle mani, afferrò robustamente la scure e lo percosse sul cranio con forza sovrumana.

Si udì uno scricchiolìo sonoro, come se l’arma fendesse una corazza, ed il mostro cadde, scomparendo sott’acqua.

Altri quattro o cinque caimani s’avanzavano però verso la zattera, colle mascelle aperte, pronti a ritentare l’assalto.

— Fuoco! — urlò don Raffaele.

Una scarica seguì quel comando. Gli anfibi, spaventati da quei lampi e da quelle detonazioni e feriti dalle palle che erano penetrate nelle loro gole, abbandonarono la partita fuggendo in tutte le direzioni.

— Animo, Yaruri! — gridò il dottore. — La sponda è vicina.

Velasco non si era ingannato. L’urto dato dal primo caimano aveva spinto i due alberi verso la riva e questa non era più lontana che pochi metri.

Ad un tratto la zattera s’arrestò.

— Abbiamo toccato? — chiese don Raffaele.

— Siamo su di un bassofondo, — rispose Yaruri, che aveva misurata la profondità del fiume col picco della randa.

— Possiamo abbandonare la zattera?

— Non vi sono che due piedi d’acqua.

— Scendiamo.

Tutti abbandonarono i due tronchi mettendo i piedi su di un banco di sabbia appena sommerso, il quale si prolungava verso la sponda. Stavano per raggiungere i primi alberi che si curvavano sul fiume, proiettando una cupa ombra, quando Yaruri, che marciava alla testa, s’arrestò bruscamente.

— Cos’hai, Yaruri? — chiese don Raffaele.

— Ho udito muoversi dei rami, — rispose la guida.

— Che siano gl’indiani?

— Non lo so.

— Carichiamo le armi e procediamo con precauzione. Attenti alle frecce che possono essere intinte nel succo del curare.

— Non abbiamo da fare cogl’indiani — disse Yaruri, dopo d’aver osservata attentamente la riva.

— E con chi adunque?

— Guarda, padrone!

Don Raffaele, che aveva terminato di caricare il suo fucile, si fece innanzi e scorse, non senza un fremito, delle ombre vagare sotto i rami degli alberi. Si mise a raccogliere dei rami morti e li accumulò alla base dei bambù, poi vi diede fuoco (pag. 277).

— Dei giaguari forse? — chiese.

— O dei coguari? — disse l’indiano.

— Preferisco questi ai primi.

— Ma nemmeno i coguari sono avversari da disprezzarsi, specialmente se sono più d’uno, — rispose il dottore.

— Quanti ne hai veduti, Yaruri? — chiese don Raffaele.

— Mi parvero quattro, padrone.

— Diavolo!... Dopo gl’indiani ed i caimani ecco le fiere delle foreste!...

— Cosa decidiamo? — chiese Alonzo. — Non possiamo rimanere fino all’alba immersi fino alle anche.

— Proviamo a forzare il passo, — rispose il piantatore. — Se non sono affamati, spero che se ne andranno.

— Eccone uno là, sotto quella pianta, — disse Alonzo, alzando il fucile. — Provo a fare una scarica.

Presso il tronco d’una massimiliana si vedeva agitarsi un’ombra e brillare due occhi che avevano dei riflessi verdastri. Si udì un sordo brontolìo a cui rispose una specie di miagolìo che usciva da una macchia vicina. Alonzo s’avanzò verso la sponda e puntò l’arma, ma la riabbassò quasi subito, emettendo un grido di dolore.

— I caribi! — aveva esclamato.

Quasi nell’istesso istante Yaruri aveva spiccato un salto innanzi, emettendo pure un grido acuto.

— Fuggite! — esclamò don Raffaele, che si sentiva già mordere le gambe da quei feroci pesciolini.

Senza più pensare ai coguari che miagolavano sotto gli alberi, i quattro naufraghi, inseguiti dai piccoli mostri, si precipitarono verso la sponda perdendo già sangue da più ferite e s’arrampicarono su per l’erta, riparandosi ai piedi degli alberi.

Si erano appena riuniti, quando udirono un rauco ruggito echeggiare quasi sopra il loro capo.

— Il coguaro! — esclamò don Raffaele, scostandosi rapidamente dalle piante.

— È sull’albero! — gridò Alonzo, additando quello che avevano appena lasciato.

— Badate che non vi piombi addosso! — disse Velasco.

Si erano ritirati sull’orlo della sponda armando precipitosamente i fucili e guardavano fra i rami d’un saponiere.

Colà un animale grosso quanto e forse più d’un cane di Terranuova, ma di forme più slanciate, si teneva rannicchiato, fissando su di loro due occhi che brillavano stranamente fra quell’oscurità.

Emetteva dei bassi ruggiti, ma non osava ancora assalire, tenuto in rispetto dalle canne dei tre fucili.

— Lascia fare a me, Alonzo, — disse don Raffaele, traendolo indietro. — Quell’animale può piombarti addosso anche dopo ferito.

— E poi ve n’erano degli altri su questa sponda, — disse il dottore. — Pensiamo anche a quelli per non farci sorprendere.

Il piantatore si era avanzato di qualche passo e aveva alzato il fucile, mirando attentamente e con grande sangue freddo.

Il coguaro continuava a ruggire e lo si udiva stritolare la corteccia del maot colle potenti unghie.

Il piantatore lasciò partire la scarica. Il fumo non si era ancora dissipato che la fiera, con un balzo immenso, si precipitava in mezzo agli avversari. Cadde, tentò di risollevarsi per gettarsi addosso a Yaruri che era vicino, ma le forze le mancarono e stramazzò al suolo rimanendo immobile.

L’indiano con un colpo di scure le spaccò il cranio, per essere più certo di non vederla rialzarsi.

— Bel colpo, cugino mio! — esclamò Alonzo, rivolgendosi a don Raffaele.

— Ma la mia palla per poco non bastava, — rispose il piantatore. — Ma.... dove sono fuggiti gli altri coguari?

— Avranno preso il largo, — rispose il dottore.

— Non fidatevi e rimanete uniti, — comandò Yaruri. — Forse ci spiano e strisciano fra i cespugli.

Si addossarono al tronco colossale d’un summameira che stava dietro di loro e attesero l’alba coi fucili montati.

Alonzo aveva trascinato presso l’albero il cadavere della belva e lo osservava con viva curiosità.

Era un vero coguaro, chiamato anche puma dagli indiani e leone d’America dagli uomini bianchi. Come dicemmo, era grande quanto un cane di Terranuova, ma nelle forme e anche pel colore del pelame, rassomigliava assai alla femmina del leone africano. Aveva la testa rotonda come quella dei gatti, ornata di lunghi baffi irti, gli orecchi corti e la coda era lunga e sottile.

Questi animali hanno una forza straordinaria quantunque siano relativamente piccoli e sono feroci al pari dei giaguari, e assaltano nello stesso tempo animali e indiani. Di solito, specialmente se non sono affamati, evitano gli uomini bianchi sapendoli armati di fucili, ma se sono messi alle strette si difendono con accanimento senza pari e si slanciano sui cacciatori senza contarli.

Tuttavia, quantunque siano così sanguinari, presi piccini si affezionano ai loro padroni, ma non bisogna fidarsi troppo, poichè qualche giorno, quando meno si sospetta, giuocano dei pericolosi colpi e non è raro che finiscano col divorare i loro guardiani.

Intanto i coguari, poco prima veduti ronzare sulla sponda, non si facevano vedere. Spaventati forse da quello sparo, si erano internati nella foresta, in mezzo alla quale si udivano a ruggire e balzare fra i cespugli.

Verso l’alba però scomparvero, nè più si fecero vedere, nè udire.

— Andiamo a visitare questa sponda, — disse don Raffaele. — Poi penseremo a metterci al lavoro ed a rifabbricare la nostra scialuppa.

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