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5. Un fuoco sospetto
4. L'Orenoco 6. I mangiatori di terra

V.

Un fuoco sospetto.

Presso uno di quegli alberi enormi, che distendeva i suoi rami sul fiume, si erano vedute le acque gonfiarsi bruscamente, come se un grosso pesce si fosse spinto fin là e si preparasse a comparire alla superficie.

Poco dopo, il dottore ed i suoi amici videro sorgere due mascelle enormi irte di lunghi denti aguzzi, ma il rimanente del corpo rimase nascosto sott’acqua. Da quella bocca uscì un grido lamentevole che pareva quello d’un bambino.

Era un jacarè, ossia un caimano, una specie di coccodrillo lungo cinque metri, che cercava la sua colazione. Questi rettili sono numerosi sui fiumi dell’America del Sud e specialmente sull’Orenoco e fanno numerose vittime. Non assalgono l’uomo, ma se vengono cacciati si difendono con estremo furore e ben sovente più d’un cacciatore perdè le gambe o soccombette sotto un terribile colpo di coda.

Il caimano continuava a emettere le sue grida lamentevoli, chiudendo di tratto in tratto le potenti mascelle con un fracasso paragonabile a quello che produce una cassa, quando viene violentemente chiusa.

Le barbado però, assorte nel loro concerto, pareva che non si fossero ancora accorte della presenza del pericoloso vicino. D’improvviso però tacquero e cominciarono a curvarsi sul fiume guardando quelle mascelle e porgendo orecchio a quelle grida, che diventavano ognor più lamentevoli.

— Si preparano a scendere, — disse il dottore, facendo segno all’indiano di virare di bordo, per mantenere la scialuppa in mezzo al fiume.

Infatti le scimmie parevano curiose di sapere cos’era quella bocca che si lagnava in quel modo. Gridavano su tutti i toni additandosela l’una l’altra e pareva che si consigliassero prima di prendere una risoluzione che poteva avere gravi conseguenze. Senza dubbio, per istinto, temevano, ma finalmente la loro curiosità vinse la paura.

Un robusto maschio s’aggrappò ad un ramo sporgente sopra il fiume servendosi della lunga coda e si mise a dondolarsi proprio sopra le mascelle sempre aperte del caimano, facendo smorfie ridicole.

Un compagno, pronto come il lampo, l’afferrò per l’appendice e lo calò abbasso, ma la distanza era ancora considerevole. Altre scimmie accorsero e tenendosi per le code formarono una specie di catena la cui estremità, formata dal maschio, toccò ben presto l’acqua.

Un concerto indiavolato avvertì le altre scimmie, che si affollavano sui rami dell’enorme albero, che lo scopo era stato raggiunto.

Il capofila si era accomodato sull’estremità del muso del caimano e guardava dentro emettendo dei fragorosi scoppi di risa che i compagni, per non essere da meno, ripetevano con pari fracasso. Incoraggiato dall’immobilità di quelle mascelle, si mise a toccare la lingua, poi i denti, poi introdusse il braccio peloso nella gola, cercando forse di sapere cosa vi si trovava nascosto in fondo.

Era il momento atteso dal paziente e furbo caimano: ormai la colazione era assicurata. Pronto come la folgore, chiuse le potenti mascelle ed il povero curioso si sentì tagliare per metà da quei denti formidabili, duri come l’acciaio.

Il meschino ebbe appena il tempo di emettere un Ad un tratto lo si vide arrestarsi, curvarsi, sollevare la sabbia... (pag. 76). grido strozzato e sparve sott’acqua. I compagni, spaventati, si tiraron l’uno sull’altro e s’affollarono sul ramo facendo un baccano infernale.

— Buona digestione! — gridò Alonzo, facendo cenno all’indiano di riprendere la rotta primiera.

— Il caimano non si accontenterà di quella colazione, — disse il dottore. — È un semplice crostino che gli servirà per stuzzicare l’appetito.

— Ritenterà il colpo? — chiese Alonzo, stupito.

— E con pari fortuna, giovanotto mio.

— E le scimmie si lasceranno mangiare altre compagne?

— Precisamente. Tra mezz’ora l’jacarè tornerà ad appostarsi sotto il ramo, ricomincerà i suoi lamenti e le scimmie torneranno a scendere.

— Che stupide!

— Sono curiose e dimenticano facilmente il pericolo. Yaruri, guarda ai banchi! L’acqua è torbida e ciò indica che il fondo sale.

L’indiano da esperto battelliere, aveva però già notato quel cambiamento del letto del fiume ed aveva spinto la scialuppa verso il largo.

Dei grandi banchi sabbiosi cominciavano ad apparire verso ponente, interrompendo la corrente del fiume. Si allungavano in varie direzioni e sopra di essi si scorgevano parecchi caimani che stavano scaldandosi al sole.

Ve n’erano alcuni di veramente mostruosi, lunghi perfino sei metri, con certe mascelle che facevano rabbrividire. Scorgendo la scialuppa non fuggirono, ma si rovesciarono mostrando ai viaggiatori i loro dorsi rugosi, ricoperte di grosse scaglie che le palle difficilmente intaccano tanto sono solide. Sapevano che in tale posa nulla avevano da temere.

Quantunque Alonzo avesse manifestato il desiderio di provare su quei voraci anfibi la penetrazione delle sue palle, don Raffaele si vide obbligato a non soddisfarlo, poichè la navigazione cominciava a diventare difficile.

Oltre ai numerosi banchi, quel tratto di fiume era coperto da una vegetazione acquatica resistente, che impediva alla scialuppa di manovrare liberamente. La corrente era coperta da quelle superbe foglie che chiamatisi vittoria regia, e che dagli indiani vengono chiamate forno per la somiglianza che hanno coi grandi forni e poco profondi, entro i quali fanno cuocere la manioca. Quelle foglie sembrano vere zattere circolari, poichè hanno una circonferenza di un metro e venti centimetri ad uno e mezzo.

Cominciano a crescere in fondo al fiume, piccolissime dapprima, in forma d’una coppa sottile ma profonda, poi si allargano e giunte a fior d’acqua emettono quelle foglie gigantesche le quali hanno i margini rialzati come i tondi e si rivestono d’una formidabile armatura di spine.

Molte di quelle piante avevano già i fiori, bellissimi, vellutati, bianchi ma con tutte le gradazioni del roseo e del purpureo fosco.

Oltre alla vittoria regia, sui bassifondi s’alzavano dei veri boschetti di mucammù, una specie di aroidi di legno leggero, ma che posseggono una corteccia resistente e che emettono pure delle grandi foglie galleggianti, le quali resistevano allo sperone della scialuppa.

Fortunatamente il vento non mancava sul grande fiume il quale conservava una larghezza di quattro o sei miglia e permetteva all’imbarcazione di correre bordate per evitare tutti quegli ostacoli.

A mezzodì però il fiume tornò sgombro ed i viaggiatori poterono proseguire con notevole rapidità, avvicinandosi sempre più alla foce del Capanaparo, la quale non doveva essere lontana più di venti o venticinque miglia.

La sponda sinistra del fiume, che i naviganti costeggiavano ad una distanza di tre o quattrocento passi, si manteneva priva di abitanti, quantunque il dottore e don Raffaele non ignorassero che quella regione era una delle più popolate, essendo occupate dalla grande tribù degli Ottomachi, la quale si estende dalla foce del Sinaruco a quella dell’Appure. Non mancavano però nè gli animali nè i volatili: sugli alberi, veri eserciti di scimmie si dimenavano urlando, eseguendo esercizi straordinari, lanciandosi di ramo in ramo con agilità meravigliosa ed in alto volavano bande d’uccelli d’ogni specie.

Si vedevano drappelli di mono, piccole scimmie grigie, colle gambe e le braccia smisurate ed il corpo così magro che vedute in movimento si scambiano benissimo per ragni giganteschi, anzi appunto per ciò furono chiamate anche scimmie-ragno: poi bande di shau, scimmiottini grossi quanto uno scoiattolo chiamati anche marachine, che hanno il pelame rosso ed una splendida criniera fulva come i leoni; tribù di prego, voracissime e che producono alle piantagioni danni incalcolabili avendo la manìa del saccheggio; poi stormi di mailhaco, piccoli pappagalli assai ciarlieri, colla testa turchina ed il dorso giallo, altri flagelli delle piantagioni, che devastano ogni specie di raccolto; di canindì, altri pappagalli ma assai più grossi, colle ali azzurre ed il ventre aranciato; di tucani, uccelli bizzarri col becco grosso quanto il corpo, ma cartilaginoso, di color rosso e giallo, gli occhi azzurri ed il petto coperto da una fine lanuggine d’un rosso brillante.

Le penne di questi ultimi uccelli sono ricercate dagli indiani per fabbricare dei diademi che possono portare solamente i capi delle tribù, e questa usanza è stata adottata perfino dai sovrani del Brasile. Anche don Pedro II, l’ultimo imperatore, la seguiva, ma invece del diadema nelle grandi cerimonie portava un mantello di penne di tucano, distintivo di capo supremo del suo paese.

Anche gli abitanti del fiume, di quando in quando apparivano a fior d’acqua, ma per scomparire tosto, non appena scorto il canotto. Erano caimani e testuggini di varie specie, alcune coi gusci verdastri, altre coi gusci bruni a chiazze rossastre, irregolari, ma tutte di grandi dimensioni.

Verso il tramonto, Yaruri, che da qualche tempo esaminava con viva attenzione la sponda, segnalò una grande fenditura aperta nella foresta e che si prolungava verso il sud.

— Il Capanaparo, — disse.

— Il fiume? — chiese Alonzo.

— Sì, — rispose don Raffaele.

— Uno dei maggiori dell’Orenoco?

— Chi può dirlo? Credo che nessuno lo abbia risalito fino alle sorgenti, ma non sembra, dalla massa delle sue acque, che abbia un corso molto importante.

D’improvviso l’indiano scattò in piedi fiutando replicatamente l’aria. I suoi acuti sguardi si portarono verso la foce del fiume, che cominciava a delinearsi distintamente e parve che volessero traforare il lembo dell’immensa foresta che si estendeva fino a quel nuovo fiume.

— Cos’hai, Yaruri? — chiese don Raffaele, che non lo aveva perduto d’occhio.

— Del fumo, — rispose l’indiano.

— Dove?

— Non lo so, ma lo sento.

— Io non sento nulla, — disse Alonzo.

— Se Yaruri lo dice, qualche fuoco arde sulla sponda, — disse don Raffaele. — Questi indiani non s’ingannano mai.

— Vi saranno degli indiani che cucinano la loro cena.

— Ma gl’indiani, in queste regioni deserte, significano nemici.

— Prepareremo le armi, cugino.

— Il consiglio è prudente, — disse il dottore, — Yaruri, accosta con prudenza. Alonzo trasalì e alzò il capo gettando sulle rive del fume un lungo sguardo (pag. 86).

L’indiano mise la prua verso la foce del fiume, mentre i due cugini si preparavano ad ammainare la randa, essendo i due fiocchi sufficenti per spingerli alla sponda.

Yaruri, pur manovrando, dava continui segni d’inquietudine. Si alzava di frequente per abbracciare maggior spazio e spingere gli sguardi più lontani, fiutava ostinatamente l’aria e crollava il capo come un uomo che ha dei forti dubbi.

Pure la sponda sinistra dell’Orenoco era perfettamente tranquilla e pareva che nulla di sospetto celasse. Gli uccelli, appollaiati sugli alberi, continuavano a cicalare in piena sicurezza, e le scimmie si dondolavano all’estremità degli alberi, senza dare segni d’inquietudine. Cosa poteva adunque temere l’indiano, se gli abitanti della foresta si mantenevano tranquillissimi?

La scialuppa, spinta dalla brezza che aumentava col calare del sole, giunse ben presto alla foce del Capanaparo e si arenò dolcemente ai piedi d’un gruppo gigantesco di jupati (raphia), splendide palme, speciali dell’Orenoco e dell’Amazzone, che hanno delle foglie in forma di piume lunghe perfino cinquanta piedi, ossia sedici o diciassette metri!... Sono alberi tutte foglie, poichè il loro tronco è così breve che appena esce da terra, innalzandosi a malapena cinquanta centimetri o tutt’al più un metro.

Quel macchione imponente, meraviglioso, era staccato dalla foresta vergine che si stendeva un po’ più indietro e sorgeva su di una specie di banco sabbioso il quale risaliva la corrente del Capanaparo per parecchie centinaia di metri.

Legata la scialuppa ad un fusto di legno cannone, specie di bambù leggerissimo, liscio e lucente, Yaruri fu lesto a balzare a terra impugnando la sua cerbottana, nella quale aveva già introdotta una freccia. Gettò un rapido colpo d’occhio all’intorno, sulla sponda, sul fiume, fra le foglie giganti degli jupati ed in aria, poi facendo cenno al padrone di non muoversi, s’avanzò, con passo silenzioso, verso l’estremità del banco.

Ad un tratto lo si vide arrestarsi, curvarsi, sollevare la sabbia; e lo si udì a gettare un grido.

Don Raffaele, il dottore ed Alonzo furono lesti a raggiungerlo, portando con loro i fucili.

— Cos’hai scoperto? — chiese il piantatore.

— Il fuoco che ardeva poco fa, — rispose l’indiano, coll’aria di trionfo. — Yaruri non si era ingannato.

— Fuoco d’indiani?

— Ma armati di fucile.

— Armati.... di fucile! — esclamarono il dottore e don Raffaele con stupore.

— Sì, — rispose l’indiano.

— Come lo sai tu? — chiese il piantatore.

— Guarda!

Yaruri gli mostrò un’orma profonda impressa sulla sabbia del banco. Era l’impronta d’un calcio di fucile, perfettamente delineata.

— Che sia invece l’estremità d’una wanaya, che ha lasciato questa traccia?

— No, padrone, — rispose Yaruri. — Nessuna wanaya ha questa forma.

— Sai tu che vi siano tribù d’indiani armati di fucile?

— No, perchè gl’indiani preferiscono la cerbottana e la freccia intinta nel curare. Sono armi più silenziose e più sicure.

— Che si sia accampato qui qualche bianco?

— Si vedrebbero le tracce degli stivali, padrone.

— Diavolo d’un indiano! — esclamò Alonzo, stupito.

— Ma non vedo le orme dei piedi, — disse il dottore.

— Questa sabbia è troppa dura, — rispose Yaruri. — Guarda: il mio piede nudo non lascia traccia, ma le vostre scarpe sì e così profonda da distinguerla nettamente.

— È vero, — disse don Raffaele, che era diventato pensieroso. — Come va questa faccenda?

— Non trovo motivo d’inquietarci, cugino, — disse Alonzo. — Che importa a noi se degli indiani si sono accampati qui?

— Sai tu perchè sono fuggiti, Alonzo? — chiese il piantatore. — È la loro rapida fuga che m’inquieta.

— Sono scomparsi pochi minuti fa?

— Sì, — rispose l’indiano. — Appena ci hanno scorti si sono affrettati a coprire il fuoco colla sabbia ed a troncare la cena. Toccate: la cenere è ancora calda e questi gusci d’uova di testuggine sono ancora umidi e ciò significa che sono stati appena vuotati.

— Che qualcuno ci preceda? — mormorò il piantatore.

— A quale scopo? — chiese Alonzo.

— Non lo so.... ma quel grido.... la scomparsa dei due indiani, poi quel segnale misterioso sul fiume.... Orsù, non pensiamoci per ora: attraversiamo il Capanaparo e andiamo ad accamparci sulla sponda opposta.

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