< La Città dell'Oro
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8. Le testuggini dell'Orenoco
7. La caccia al jacaré 9. Una freccia mortale

VIII.

Le testuggini dell’Orenoco

Gli Ottomachi, riconoscenti per l’aiuto ricevuto, si degnarono d’offrire agli uomini bianchi un pezzo di coda di caimano, boccone scelto per loro, ma niente affatto gradito ai palati europei che non riescono a vincere l’acuto odore di muschio che appesta quella carne.

Don Raffaele, a nome dei compagni, pur ringraziando, rifiutò l’offerta con maggior soddisfazione degli indiani, anzi regalò loro una bottiglia di rhum che fu in un lampo vuotata da quegli ubbriaconi.

In cambio però, chiese loro se avessero scorto su quel tratto di fiume un canotto montato da indiani armati di fucile, ma non riuscì a sapere nulla. Dei canotti ne erano passati parecchi in quindici giorni, ma nessun Ottomaco aveva fatto caso se gli indiani che li montavano erano armati o inermi. Prevedendo che non avrebbero ricavato altre notizie, lasciarono quei selvaggi occupatissimi ad arrostire la preda gigante, e sciolte le vele ripresero la navigazione per raggiungere la foce del Maniapure.

Le sponde del fiume erano ridiventate deserte non essendovi, in quei dintorni, a quanto pareva, altre tribù di Ottomachi, ed avevano inoltre subìto dei cambiamenti. Frequenti fiumi rompevano le foreste, riuniti fra di loro da canali interni chiamati comunemente neirim-igarape, ossia sentieri dei canotti, secondo l’espressione indiana. Si vedevano pure degli ampi stagni che comunicavano col fiume, delle agoas redonde.

Sopra quegli stagni ripieni di piante acquatiche colle foglie immense, cicalavano o strillavano bande di carpideira o choradeira, vale a dire uccelli piagnoni perchè hanno un canto così lamentevole che si direbbe che piangano. Sulle sponde invece si vedevano correre e saltellare numerosi capibara, grossi roditori grossi come un cane, col mantello nero, terribili devastatori delle piantagioni, ma poco pregiati come selvaggina, avendo la carne assai calorosa; apparivano anche, ma più rari, dei gamba, marzupiali somiglianti ai conigli, che hanno una tasca sotto all’addome ove ripongono i piccini e che quando sono inseguiti sprigionano un odore così fetente da arrestare non solo i cacciatori, ma perfino i cani. Anche la carne di questi animali è poco buona, essendo nera e coriacea, ma gl’indiani non la sdegnano.

Verso il mezzodì, mentre i naviganti si preparavano ad assalire la colazione allestita nella scialuppa, si vide Yaruri balzare rapidamente in piedi, mentre con un rapido colpo faceva cadere la randa.

— Cos’hai? — chiesero i tre bianchi.

— Là... sulla sponda — disse l’indiano.

Guardarono nella direzione indicata e su di una riva bassa e sabbiosa videro trascinarsi penosamente con delle mosse ridicole dei larghi corpi che parevano usciti allora dal fiume.

Erano trenta o quaranta testuggini, ma della specie più grande, poichè misuravano almeno due metri di larghezza su una lunghezza di cinquanta o sessanta centimetri. I loro gusci avevano dei riflessi verdastri ma marmorizzati di nero.

— Sono testudos mejolas, — disse don Raffaele. — Un arrosto che merita di venire assaggiato.

— Ma ne vedo altre su quel banco di sabbia, — disse il dottore. — Sono le careto.

Infatti un po’ più lontano, su di un banco, si vedevano altre testuggini più piccole bensì, ma col guscio assai più bello e più pregiato. Erano di colore bruno, chiazzate di macchie rossastre irregolari, ma i loro gusci sono formati di tredici lamine poste sopra e dodici sotto. È dalle prime solamente che si ricava la tartaruga messa in commercio.

— Ma cosa fanno tutte quelle testuggini? — chiese Alonzo.

— Stanno seppellendo le loro uova, — rispose il dottore. — Andiamo a fare una frittata.

Yaruri aveva già afferrati i remi e spingeva lentamente la scialuppa verso la sponda. Le testuggini però vegliavano e accortosi della presenza dei nemici facendo sforzi disperati raggiunsero il fiume e si tuffarono rapidamente.

— Non monta, — disse don Raffaele. — Ci rifaremo colle uova.

Toccata la sponda, s’affrettarono a sbarcare, ma Alonzo, con sua grande sorpresa, non vide alcun uovo.

— Ma dove sono? — chiese.

— Sotto la sabbia, — disse don Raffaele, — ma ti sfido a trovarle. Solamente gl’indiani sono capaci di scoprirle.

— Avranno lasciato qualche segno dove le hanno sepolte. — Uccidilo e mangeremo un buon arrosto, — disse il dottore. (pag. 116)

— Nessuno, cugino; puoi accertartene.

Alonzo si mise a percorrere la sponda in tutti i sensi, ma non trovò alcun segno che indicasse ove le uova erano state nascoste. Yaruri lo osservava sorridendo maliziosamente.

— Fulmini e lampi! — esclamava il giovanotto stizzito, frugando e rifrugando le sabbie, ma senza successo.

— A te, Yaruri, — disse don Raffaele. — Se aspettiamo che mio cugino le trovi, la frittata si farà attendere fino a domani.

L’indiano si mise a percorrere la sponda con passo rapido, sulla punta dei piedi, ma con un’andatura inquieta. Ad un tratto si curvò, si mise a scavare la sabbia e mise allo scoperto un gruppo d’uova rotonde, un po’ più grosse di quelle di gallina, che si trovava sepolto a otto o dieci centimetri di profondità.

— Ma io non ho veduto alcuna traccia sopra quella covata, — disse Alonzo, che aveva seguito l’indiano.

— Le testuggini te l’ho detto, non ne lasciano e livellano le sabbie con cura estrema per impedire che le ova vengano trovate, — disse don Raffaele.

— Ma come fanno allora a scoprirle?

— Non lo si sa... ma to’!... Cos’è questa traccia? — chiese, mostrando sulla sabbia una buca che aveva la forma d’un pesce, ma un po’ arrotondata.

— Se ne trovano soventi sulle rive di questo fiume, — rispose il dottore. — Si dice che in quelle buche vadano a dormire le razze, ed infatti vedete che hanno precisamente la forma di quei pesci.

— Che sia vero?

— Non lo so, ma così dicono i pescatori e gl’indiani.

— E quell’animale che striscia laggiù e che cerca di guadagnare quel crepaccio, cosa sarà? — chiese Alonzo, imbracciando il fucile.

— Una testuggine, — disse il dottore.

— Una testuggine! Ma se è priva del guscio? Io vi dico che è un rettile di nuova specie.

— T’inganni, giovanotto, è una vera testuggine e della specie careto.

— Ma non vedete che è un mostro orribile e pare scorticato di recente?

— Uccidilo e mangeremo un buon arrosto, — disse il dottore, sorridendo.

Il giovanotto non si fece ripetere il comando e con una palla ben aggiustata stese a terra quello strano animale, proprio sull’orlo del crepaccio che stava per raggiungere.

Il cacciatore si slanciò innanzi seguito dal dottore, mentre Yaruri e don Raffaele accendevano il fuoco per preparare la promessa frittata.

Il dottore aveva detto il vero: quel rettile era realmente una testuggine careto, ma ridotta in uno stato compassionevole. Non aveva più il suo bellissimo guscio bruno chiazzato di macchie rossastre e trasparenti, pareva che fosse stato strappato brutalmente. Il dorso era tutto una piaga sanguinante, ma coperto qua e là da un principio di sostanza cornea ed ineguale.

— Mille fulmini! — esclamò Alonzo, stupito. — Chi ha ridotto in questa raccapricciante condizione questo povero rettile? I caimani forse?

— No, — disse il dottore, — i cacciatori di tartaruga.

— Cosa volete dire?

— Che i cacciatori hanno strappato il guscio a questa testuggine, per impadronirsi della scaglia.

— Spiegatevi meglio, dottore.

— Voglio compiacerti, giovanotto. Ti dirò adunque che sull’Orenoco, sull’Amazzone e sui grandi fiumi di tutta l’America del Sud, vi sono bande d’uomini che fanno una caccia spietata a questi disgraziati rettili. Se le testuggini prese sono grasse (e per accertarsene praticano una profonda incisione sotto la coda) le uccidono impadronendosi del guscio e del grasso da cui si ricava un olio limpido, dai riflessi verdognoli, di una squisitezza incredibile, superiore a tutti gli olii conosciuti. Se le testuggini sono magre, le privano del guscio facendo subire a quelle disgraziate una atroce tortura, mediante una lama taglientissima, poi le abbandonano perchè abbiano il tempo d’ingrassarsi ancora.

— Ma non muoiono dopo così crudele trattamento?

— No, poichè hanno la vita dura. Vanno a rannicchiarsi in un crepaccio che diventa il loro ospedale e colà attendono che la natura, più pietosa degli uomini, le ricopra d’un nuovo guscio, il quale non sarà mai nè così bello, nè così perfetto come il primo.

— Sembra impossibile che possano ancora guarire, dottore.

— Hanno una vitalità incredibile questi rettili. Mi ricordo che uno scienziato dell’America settentrionale ebbe un giorno il capriccio di aprire il cranio ad una tartaruga gigante dell’Himalaya, privandola con bel garbo del cervello. Richiusa la scatola ossea, nutrì per alcuni giorni il rettile, il quale, incredibile a dirsi, rifece il cervello, s’ingrassò e visse ancora cinquant’anni.

— Hanno vita lunga questi rettili, dottore?

— Vivono dei secoli, a quanto pare, poichè so che un piantatore della Florida, qualche anno fa, prese una testuggine sul cui guscio portava incise queste parole: “Presa da Ferdinando Gomez nella riviera del San Sebastiano l’anno 1700„. Quel rettile aveva adunque circa 145 anni. Si dice che le tartarughe giganti dell’Himalaja e delle isole Mascarene vivano, racchiuse nelle loro rocce secolari, ben cinquecent’anni.

— E ne distruggono molti i cacciatori di gusci?

— Le migliaia, poichè la caccia è facile e senza pericoli, bastando rovesciare i poveri rettili sul dorso per impedir loro di fuggire. Su certi fiumi cominciano già a diventar rari e la scaglia non abbonda più come vent’anni or sono sui mercati. Se la distruzione continua, fra un secolo forse non si troverà più scaglia sufficiente per montare gli occhiali alle generazioni, sempre più miopi, che si succedono. Basta, sento il profumo della frittata e odo la voce di don Raffaele che ci invita a colazione. Prendi la tua selvaggina che ci servirà d’arrosto domani mattina.

Alonzo si caricò della testuggine e raggiunsero i compagni che avevano già preparata una appetitosa e gigantesca frittata esalante un profumo delizioso. Il giovanotto fece più che onore, a quel pasto e ripetè più volte la porzione, lodando la squisitezza di quelle uova che non la cedevano a quelle delle migliori galline.

Avevano accese le sigarette e stavano per sdraiarsi sulla sabbia, all’ombra di una palma colossale, quando udirono uno strano gorgoglìo che usciva da una macchia di mucusumù.

— Cosa c’è ancora? — chiese Alonzo alzandosi. — Delle altre testuggini che vengono a deporre delle uova?

— Vediamo, — disse don Raffaele, balzando in piedi. — Potrebbe esservi qualche serpente.

Alonzo l’aveva già preceduto e aveva già raggiunta la macchia. Vi gettò entro uno sguardo, ma tosto indietreggiò facendo un gesto di ribrezzo ed esclamando:

— Oh! l’orribile rospo!...

— Cos’è? — chiese don Raffaele, avvicinandosi ai mucusumù. — Ah! Un pipa!...

— Una pipa! Ma che pipa! È un rospo, cugino mio, e dei più brutti.

— Ma dei più interessanti, Alonzo. Guardalo attentamente: è un vero pipa, tale è il nome datole dalla signora Sibilla di Meriam, che vide per la prima volta questi strani batraci del Surinam, due secoli or sono.

Il giovanotto, vincendo il proprio ribrezzo, tornò ad appressarsi alla macchia. Là in mezzo si trovava nascosto un grossissimo rospo col corpo piatto e quasi quadrangolare, col muso aguzzo, le dita delle zampe davanti terminanti in quattro punte invece di cinque, e la pelle nera, ma senza esser lucida.

— Guarda cos’ha sul dorso, Alonzo, — disse il dottore che lo aveva raggiunto.

Il giovanotto guardò e con grande stupore vide che Il serpente in un baleno aveva stretta la vittima fra le sue potenti spire (pag. 132). il dorso di quell’orribile rospo era coperto di piccole cellette in ognuna delle quali stava nascosto un rospicino.

— Oh che strana cosa! — esclamò.

— È una particolarità dei pipa! — disse il dottore. — Gli altri rospi depongono le loro uova in acqua, formando dei piccoli cordoncini; questi pipa invece li collocano sul dorso delle femmine in quelle cellette che tu vedi e vi rimangono finchè possono procurarsi il cibo da loro. È una cosa assai curiosa, ma verissima, come ben vedi.

— Lo vedo, dottore.

— Ma questi rospi hanno anche un’altra particolarità, cioè son privi della lingua.

— Ciò non impedisce che siano ben brutti, dottore.

— Lo credo. Lasciamo che il pipa si diverta coi suoi piccini e noi andiamo a schiacciare un sonnellino in attesa della brezza. È appena mezzodì e abbiamo del tempo per giungere al Suapure.

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